IL CARD. TETTAMANZI AGLI AMMINISTRATORI LOCALI

LA POLITICA SIA UN SERVIZIO

 

Che cosa ne è oggi della politica? Che cosa ne è quando le questioni vere non sono più centrali; quando la politica è mera ricerca di un potere da esibire forse più che da utilizzare? Il tema affrontato dal card. Dionigi Tettamanzi incontrando nel gennaio scorso gli amministratori locali. Un invito a riflettere alla vigilia delle elezioni.

 

Non c’è dubbio che, nel momento che stiamo attraversando, di particolare attualità è l’argomento della giustizia e dell’onestà nell’amministrare. È un’affermazione densa di significato in questo momento della nostra storia, in particolare in Italia che si prepara alle elezioni politiche, ma non solo per il nostro paese.

Cosa vuol dire “amministrare”? Prendendo lo spunto dalle affermazioni di Gesù riguardo all’amministratore fedele e saggio, riferito dal Vangelo di Luca (12,42-48) il cardinale Tettamanzi ha commentato: «Ci viene detto che “amministrare” è “servire”. Siamo rimandati così a un aspetto non sempre apprezzato ai nostri giorni: il servire, anzi il servire comunque, anche quando nessuno, neppure il “padrone”, ci vede né può valutare il nostro servizio e la nostra fedeltà. C’è qui un primo importante invito. È l’invito a essere nel segreto ciò che si è in pubblico, a essere per i molti come si è per i pochi. L’invito a eliminare le finzioni e i comportamenti opportunistici, a non avere una linea quando gli altri ci guardano e una diversa quando nessuno ci vede e, nello stesso tempo, ad avere comportamenti buoni non perché qualcuno ci osserva».

L’idea perciò di una specie di “dipendenza” non dovrebbe mai abbandonare colui che fa politica: dipendenza dagli elettori e dal loro bene, che va inteso nell’accezione del bene comune. Il tema della “fedeltà” non si gioca dunque in astratto. Ma, si badi bene, il cardinale non pensa alla fedeltà come a un qualcosa che impedisce di essere duttili: «C’è, infatti, una duttilità che appartiene alla fedeltà e una duttilità che, invece, è figlia di opportunismo, di ambizione sfrenata, di debolezza: tutti difetti pericolosi, anzi rovinosi, per un amministratore. È la stessa fedeltà a essere via e guida al discernimento, a distinguere cioè tra la vera e la falsa duttilità».

 

FEDELTÀ

DEMOCRAZIA E POLITICA

 

La fedeltà è legata a una responsabilità che esige di mantenere la parola data. Molto di più di un programma elettorale: è l’idea sottesa al patto elettorale, e cioè che l’amministrare sarà intessuto di competenza, onestà, giustizia, intelligenza. È una fedeltà da giocarsi in una quotidianità che può far smarrire gli entusiasmi e le certezze degli inizi a favore di un’abitudine un po’ stanca e logora. La fedeltà allora, come dice Guardini, “cresce e crea”. «Applichiamo i due verbi – “creare” e “far crescere” – alla politica e all’amministrazione e domandiamoci: queste ultime, politica e amministrazione, sono capaci di creare e di far crescere?… La fedeltà deve sì esprimersi nella capacità di custodire e tenere saldo ciò che dice la continuità e che riguarda le dimensioni più profonde della realtà e dell’uomo, ma deve anche spingerci ad aprire la mente e il cuore a una intelligente ricerca del nuovo».

una fedeltà

dinamica

«La fedeltà, ha proseguito Tettamanzi, è una forma vitale, anzi è essa stessa vitale… Una fedeltà storicamente collocata non può che essere dinamica. E questo perché l’amministratore fedele ha continuamente il problema di adeguarsi sì ai tempi che mutano, senza però mutare il proprio atteggiamento di fondo, senza allontanarsi dallo spirito iniziale che lo conduce, appunto, a rimanere fedele anche quando colui al quale, o coloro ai quali, è dedicata la sua fedeltà risultasse “assente”». La conoscenza instancabile del tempo che ci è dato da vivere è determinante per l’intima solidarietà con il genere umano: per vivere la fedeltà insomma, deve esserci un tempo di ascolto, di studio, di ricerca.

«Parlare di sobrietà delle parole in questo tempo, e specificamente in questo nostro tempo politico, non basta mai. Non dobbiamo lasciarci abbagliare dalle luci della ribalta né coinvolgere dal clamore mediatico. Nel fare politica è quanto mai necessario tornare a un uso sobrio delle parole, a un silenzio operoso, a uno sguardo attento sulla storia e sui suoi mutamenti, a un ascolto vero della gente per dare risposte che facciano crescere la comunità. Non vive la fedeltà colui che si distrae… Non la vive neppure quando l’ascolto delle persone e delle comunità è sostituito esclusivamente dai sondaggi». La democrazia è infatti un dialogo tra le parti; non semplicemente tra maggioranza e minoranza o fra un partito e l’altro, ma tra chi governa e chi è governato. «Oggi noi sappiamo quanto discutere si fa a proposito della democrazia. Qui diciamo semplicemente che essa non va tradita, dove per tradimento della democrazia non si intende solo il radicale mutamento delle istituzioni. La democrazia è tradita quando chi amministra non ascolta nessuno, ma anche quando la trascuratezza dell’ascolto, magari per le troppe cose da fare pur legittimamente e doverosamente, prevale. La democrazia è tradita, ancora, quando chi amministra non esercita l’intus legere, il “guardare dentro”, il “leggere dentro” le persone e le situazioni».

Che cosa ne è oggi della politica? Che cosa ne è quando le questioni vere non sono più centrali; quando la politica è mera ricerca di un potere da esibire forse più che da utilizzare… ? E ancora: che ne è della politica quando essa cerca alleanze innaturali con quelle sfere dell’attività umana che dovrebbe piuttosto ordinare, o quando è continua commistione di interessi di parte e interessi personali? E che fine fa la politica quando non si interroga più sul futuro; quando consuma tutti i beni di cui ancora disponiamo, perché intessuta di egoismo e individualismo? O quando, nella sua agenda, i poveri e i deboli non compaiono più; quando abdica per insipienza o incapacità alla tecnica e alla burocrazia?

Giovanni Paolo II nella sua Veritatis splendor affermava: «Di fronte alle gravi forme di ingiustizia sociale ed economica e di corruzione politica di cui sono investiti interi popoli e nazioni, cresce l’indignata reazione di moltissime persone calpestate e umiliate nei loro fondamentali diritti umani e si fa sempre più diffuso e acuto il bisogno di un radicale rinnovamento personale e sociale capace di assicurare giustizia, solidarietà, onestà, trasparenza» (98). La “corruzione politica”, secondo il cardinale, non è solo quella connessa con l’uso improprio e illecito del denaro. Attecchisce in un diffuso non esercizio della politica da parte di chi dovrebbe esercitarla perché ha un ruolo o una funzione. “Corruzione” è già cercare coperture nei poteri forti e privilegiare le alleanze con chi conta. Torniamo allora alla politica! Per farlo bisogna coltivare il senso interiore, cioè l’esatto contrario della superficialità. «Giustizia, amore, servizio al bene comune come possono crescere e dare frutto nel rumore, nel caos, nella superficialità? Una politica seria, attenta, “vera” non può radicarsi lì. Rimettiamo al centro la politica… Chiediamoci quale ne può essere il futuro in un mondo globale».

 

ALLARGARE

GLI ORIZZONTI

 

«Non si è forse creata, senza quasi che ce ne accorgessimo o, quanto meno, che lo decidessimo, una “città infinita”, come viene chiamata da molti, una città che ci obbliga a fare i conti con ciò che sta “al di là della siepe” ideale che abbiamo costruito nella nostra immaginazione e che ci separa dal comune vicino al nostro?».

«Contrapporre il bene della propria città e il bene dell’umanità intera, vedere la propria città in contrapposizione con l’umanità è operare contro il bene, è seguire il male. Ma il male porta con sé rovina e distruzione per la comunità umana, a ogni livello… Direi: responsabilizziamoci verso la globalizzazione! La sfida sta proprio qui: tenere insieme il bene locale e quello dell’intera umanità». La politica ha del resto sempre a che fare con le paure degli uomini. E la politica deve essere proprio risposta al bisogno di sicurezza, di pace, di protezione, perché la società possa vivere serenamente la solidarietà, la fratellanza, la condivisione nell’eguaglianza e nella giustizia.

Oggi a chi fa politica è chiesto di dare risposta anche alla domanda di sicurezza che viene dalla paura dell’ignoto e del diverso, di ciò che sta oltre il proprio confine. «A questa domanda si risponde mostrando concretamente, senza irenismi e semplificazioni, magari anche affrontando contraddizioni, che allargare gli orizzonti è ricchezza, che costruire la pace è obiettivo comune, che sulla pace si radica una comunità divenuta mondiale e che l’accoglienza è la regola di questa nuova e moderna comunità, se si vuole una convivenza possibile per tutti, noi compresi».

il politico

sia prima un uomo

Perciò in modo puntuale il cardinale Tettamanzi ha ricordato don Primo Mazzolari, citando una sua “nota politica” del 1 ottobre 1945: «Prima di essere ammessi a un partito ci vorrebbe la promozione a uomo. Allora ci si intenderebbe più facilmente, e la politica sarebbe un’occupazione meno vuota, e molte brutte cose che tanti deplorano appena e in cui credono di trovare una scusa per non impegnarsi verrebbero tolte di mezzo… Per chi ha bisogno unicamente d’arrivare al potere e di tenerlo a qualsiasi costo è più redditizia l’apparizione delle comparse che quella dell’uomo. Le comparse si nutrono del peggio, mentre l’uomo osa chiedere un po’ di pane, un po’ di giustizia, un po’ di libertà per tutti» (Note politiche (1945-1948), Roma 1978, pp. 33-34). La democrazia ha dunque bisogno di uomini, non di comparse. Quali virtù saranno richieste a questi che vogliono essere “uomini veri” e non “comparse”? Giustizia, lealtà, pazienza, coraggio, intelligenza, onestà, amore per la verità, capacità di “commuoversi” di fronte all’altro, fortezza, temperanza, passione per la legalità.

L’uomo vero dunque, per il cardinale, è colui che è attento alla propria interiorità. «Ma il “cuore” deve esistere… A tutti noi è stato “dato” molto. A ciascuno di noi è, quindi, chiesto di far fruttificare quanto ci è stato donato, di metterlo a servizio di tutti, della comunità, del bene comune… C’è oggi un problema morale non piccolo: quanti comprendono la necessità di una responsabilità civile? Quanti ritengono che ciò che hanno – beni, cultura e istruzione, lavoro – non è qualcosa che riguarda esclusivamente la propria individualità, ma chiede di essere messo in relazione, di essere “messo in comune”, perché ci è dato non solo per il nostro bene, ma anche per il bene di tutti?»

L’augurio è quello di sperimentare la verità e la bellezza della parola di Gesù: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere” (Atti 20, 35).

 

A cura di Mario Chiaro