IL GENERALE DEI FRATELLI MARISTI E LA VITA COMUNITARIA

 “COMPAGNI MERAVIGLIOSI”

 

Uno squarcio sulla realtà quotidiana e non solo “ideale” delle comunità mariste, ma anche di tutti gli istituti. La convivenza di generazioni, culture e opinioni personali diverse può essere una grande opportunità. Comunità religiose,  non “terapeutiche” o società per azioni. La complessità dei casi difficili.

 

L’identità è sicuramente il grande tema su cui, dai tempi del concilio, si stanno, con molta serietà e con non poca fatica, interrogando tutti gli istituti di vita consacrata. È difficile leggere un documento capitolare o una lettera di un superiore maggiore in cui, direttamente o meno, non emerga questo tema. In maniera molto consapevole e anche originale è stato affrontato dal superiore generale dei maristi, fr. Seán Sammon. Dopo avervi dedicato una sua prima circolare, Una rivoluzione del cuore, e prima di affrontare il tema della missione dei maristi oggi, nel corso del 2005 ha pubblicato una seconda lettera circolare sulla vita comunitaria, Compagni meravigliosi.

Si sa, dice, che il tema della comunità si presta a una infinità di sfumature. Se è facile «mettere in cattiva luce tanti aspetti della vita di comunità che risultano di scarso interesse, invece è più difficile ammettere che la chiamata di Dio a vivere insieme è l’elemento fondante che trasforma la nostra vita di comunità in un’esperienza di grazia».

Che ci sia inquietudine sulla qualità della vita comunitaria, e più ancora sull’impatto che una comunità con problemi può avere sullo stato d’animo di quanti sono impegnati nello svolgimento della propria missione, è un dato di fatto, anzi, «è una triste realtà». Non per nulla, negli ultimi anni, «la mancanza di un’autentica vita comunitaria è stata una delle ragioni più frequenti nelle motivazioni che hanno accompagnato le domande per la dispensa dai voti».

Dopo aver dato atto di aver incontrato nella sua vita comunità meravigliose, veramente fraterne, aperte, dinamiche, oranti e di essere vissuto con uomini di talento, di preghiera e molto generosi, degli autentici fratelli maristi, «devo esprimere, aggiunge subito, anche la mia preoccupazione per un certo numero di fratelli che vivono ripiegati su sé stessi in modo più o meno permanente e anche per altri che vivono isolati». Non basta vivere sotto lo stesso tetto per dar vita a una autentica vita di comunità. Uno dei suoi predecessori, fr. Basilio, già in passato aveva avuto modo di osservare che ci sono dei fratelli i quali «pur abitando allo stesso indirizzo dove si trova la loro comunità, tuttavia hanno già lasciato l’istituto da diversi anni».

È un fenomeno preoccupante, causato spesso dal peso oppressivo della comunità, dalla mancanza delle disposizioni necessarie per affrontare gli impegni di un gruppo di adulti che vivono fisicamente insieme. La coesistenza fisica sotto uno stesso tetto è una cosa, la vita comunitaria è, invece, tutt’altro. E purtroppo i risultati sono facilmente verificabili da tutti: solitudine, irritabilità e delusione crescente. Sono troppi i confratelli che giunti a metà della loro esistenza scoprono di essere estranei a se stessi. Certo, tutti i religiosi possono essere a volte scontrosi, insoddisfatti. Tutti possono incappare in giornate “no”. Però, sottomettere la comunità a una lunga serie di giornate cattive non solo è ingiusto, ma può avere pesanti ripercussioni anche nel campo della promozione delle vocazioni.

Che una comunità possa avere dei difetti non stupisce più di tanto. Nessun religioso è perfetto. Riconoscere che alcuni elementi della vita comunitaria possono causare sofferenze e delusioni è comprensibile. Anche certe delusioni quotidiane rientrano nella norma. Quante volte, inoltre, proprio «coloro con cui viviamo, tradiscono spesso le nostre attese». Ma proprio per questo in una comunità non dovrebbe mai venir meno lo spirito di riconciliazione.

 

GENERAZIONI

DIVERSE

 

Pur prefiggendosi di privilegiare la realtà quotidiana su quella puramente ideale della vita comunitaria, fr. Sammon non rinuncia però a una messa a punto dei fondamenti teorici della vita comunitaria. In tutti i documenti di fondazione è facile reperire una ricca teologia della comunità. Hanno purtroppo un solo difetto, quello appunto di prospettare «un ideale da cui spesso restiamo lontano». Se si prendono in mano le costituzioni e gli statuti propri dei maristi, ad esempio, è facile enucleare ben sei caratteristiche della vita comune: trinitaria, mariana, spirituale, apostolica, umana ed evangelica. La spiritualità trasmessa dal loro fondatore, san Marcellino Champagnat, è mariana e apostolica insieme. È una spiritualità che attinge direttamente alle fonti del vangelo.

Ora, però, pur avendo tutti lo stesso testo delle costituzioni e degli statuti del post concilio, è facile leggerli con occhi diversi C’è, infatti, chi li affronta con uno sguardo occidentale, chi con una sensibilità orientale, chi con quella dei poveri, dei mistici, dei giovani o di altre categorie. Per quanto questi testi siano ispiranti, di fatto poi vengono letti e interpretati in modo diverso. Sono infatti «emerse una miriade di concezioni differenti su cosa fare nel mondo, come interpretare le speranze e i timori e come valutare i sogni e le delusioni». E si continuerà inevitabilmente sulla stessa strada fino a quando non si comprenderà che anche nella vita consacrata «ci sono modi diversi di affrontare la realtà».

Fr. Sammon, più volte, nel corso della lettera, interrompe la sua esposizione e cerca di coinvolgere più direttamente i destinatari, provocandoli e ponendo loro delle domande e invitandoli a trovare alcuni minuti per riflettere personalmente e anche ad annotare su di un taccuino le riflessioni più significative. Si tratta di domande che vertono sulla concreta esperienza di vita comunitaria, sulle sfide affrontate, sui motivi di gioia incontrati o meno, sulle comunità che hanno maggiormente contribuito alla propria crescita umana e spirituale, sullo zelo per la missione, sui testi più motivanti o anche su quelli meno ispiranti delle costituzioni e degli statuti.

Anche il concetto stesso di comunità varia a seconda delle generazioni e delle culture. Spesso, in passato, la vita comunitaria è stata identificata con una serie di pratiche abituali da compiere ogni giorno. Inevitabile una certa uniformità. Nonostante il Vaticano II, per molti religiosi esiste un solo modo di vivere la vita comunitaria, quello consolidato dalla tradizione e dalle regole comuni. Anche se oggi certe prospettive stanno cambiando, attenzione – osserva fr. Sammon – a non buttare tutti gli aspetti positivi di un certo stile di vita consacrata del passato. Possono essere importanti anche oggi, nella misura in cui, almeno, contribuiscono a costruire il senso della fraternità.

Oggi, comunque, si va sempre più diffondendo una certa impostazione di vita comunitaria per la quale «la presenza fisica alla preghiera è una preoccupazione meno importante della preparazione al servizio apostolico, del modo con cui viene svolto e dell’atteggiamento con cui i membri della comunità sanno adattarsi». Negli atteggiamenti di chi pensa in questo modo si potrebbe anche individuare a prima vista una “mentalità da supermercato”, dal momento che si prendono e si scelgono solo gli aspetti che interessano.

Però si tratta spesso di persone più spontanee nell’accoglienza, con idee nuove e prospettive inedite. Sono persone che «hanno una vita di fede in crescita, sanno ritagliarsi il tempo per la preghiera personale e si impegnano nella vita di comunità», anche se la loro visione «differisce notevolmente da quella delle generazioni precedenti».

Si tratta di persone, ancora, per le quali la previsione, la puntualità e la regolarità non sono importanti. Ciò che conta sono le “relazioni” che esistono all’interno del gruppo comunitario. L’aspirazione di questi confratelli è quella di riuscire a condividere le proprie riflessioni sulla vita affettiva, sulla esperienza di Dio e a cercare anche forme nuove per esprimere il proprio affetto, il proprio interessamento, i propri dubbi e le proprie preoccupazioni.

Come valutare queste divergenze? È innegabile una possibile confusione. Il fatto che molti giovani fratelli siano vivamente interessati a parlare di Gesù Cristo, di spiritualità e della loro esperienza umana, e non si preoccupino più di tanto della fedeltà agli esercizi comunitari, può essere effettivamente una sorgente di tensione. È facile che i fratelli più giovani ignorino i non pochi sacrifici affrontati da quelli più anziani per assicurare un futuro alla loro esperienza di vita consacrata. «È triste, tuttavia, che un certo numero di noi, in ciò che riguarda la vita comunitaria, continui a far riferimento a mezzi che erano tipici di un’altra epoca in cui regnava un’altra concezione della vita comune». Tutti si devono sentire impegnati a vivere la propria consacrazione in comunità adatte al ventunesimo secolo. E questo sarà tanto più facile quanto più si sarà consapevoli del fatto che ogni generazione «ha ricevuto una formazione tipica, nutre attese diverse nei confronti della vita comunitaria, e, qualche volta, possiede una comprensione diametralmente opposta della stessa vita religiosa».

 

DIFFERENZE

CULTURALI

 

Insieme alle differenze intergenerazionali sono sempre più frequenti oggi anche quelle culturali. Le speranze e le attese, infatti, differiscono maggiormente quando i membri della stessa comunità appartengono a culture e a paesi differenti. Per un istituto, come quello dei maristi, presente in 77 paesi, «il pluralismo e la diversità dovrebbero essere la norma, non l’eccezione». Anche se ogni istituto ha una sua cultura, un suo apostolato, una sua spiritualità, una sua tradizione tramandata da una generazione all’altra, esso deve saper affrontare, oggi più che mai, anche una sfida culturale. «Pur rispettando il passato deve, allo stesso tempo, immedesimarsi pienamente nella cultura del paese in cui si trova», imparando la lingua, studiandone la storia, le tradizioni ed i costumi.

Anche in questo campo non sono sempre stati raggiunti i risultati auspicati. «Purtroppo certe vecchie concezioni missiologiche consideravano le nuove culture come inferiori, pagane e senza valore. Le lingue locali erano schedate come dialetti, mentre i costumi e le tradizioni antiche venivano eliminati. Dio veniva importato in queste culture perché non lo si trovava dentro di esse». I contrasti interculturali, non dovrebbero preoccupare più di tanto. Non sono altro che uno specchio di quanto accade all’interno della Chiesa, troppo spesso incapace di liberarsi dal pensiero occidentale per diventare veramente universale.

Basterebbe prestare attenzione alla crescita demografica della Chiesa nel mondo per comprenderne la complessità. All’inizio del ventesimo secolo circa l’80% della popolazione cattolica viveva in Europa e nelle Americhe. Nel 2020, invece, secondo alcune stime, l’80% dei cattolici potrebbe vivere nell’emisfero est e sud, e solo il 20% in Europa e nell’America del Nord. «Se ciò che viviamo nelle nostre comunità deve essere un modello per la Chiesa e per il mondo, allora la buona comunicazione, il rispetto delle differenze e lo spirito di tolleranza, diventano chiaramente gli elementi essenziali per ogni gruppo che vive e lavora in un ambiente interculturale».

Tutte queste differenze rischiano di alimentare le più serie preoccupazioni per il presente e per il futuro della vita comunitaria. Certi fratelli quando sentono parlare di comunità «assumono un atteggiamento di resistenza e si chiudono nel silenzio». Altri ritengono che essere comunità non significhi necessariamente «vivere in comune sotto lo stesso tetto». È questa l’esperienza, dicono, vissuta da tanti colleghi di lavoro, da tanti membri della propria famiglia o della cerchia dei propri amici. E poi, quando, come spesso succede, si ha a che fare con dei confratelli intrattabili o in preda a turbe psichiche o mentali, come è possibile vivere insieme?

La spinta, allora, a vivere da soli è fortissima. A volte questo potrebbe essere richiesto da una specifica attività. Ma più spesso questa scelta è determinata da certe ferite non rimarginate del passato, dall’eccessiva rigidità di certe strutture, da un indebito esercizio dell’autorità. Vivere da soli non serve solo a evitare ulteriori ferite. È anche molto più comodo. Sono proprio questi fatti, queste situazioni che fanno seriamente riflettere. Mentre la vita comunitaria viene spesso descritta nei documenti della Chiesa e degli istituti come un pilastro della vita religiosa, per alcuni religiosi, invece, rischia di diventare una delle situazioni più laceranti e penose. È molto facile descrivere in astratto la vita comunitaria. Quanto è difficile invece offrirle una struttura e una forma più concreta nella vita di tutti i giorni!

 

COMUNITÀ

TERAPEUTICHE?

 

Storicamente la comunità è stata spesso accostata ad altri modelli di convivenze, dalla famiglia alla comunità terapeutica, a certe esperienze societarie, commerciali, aziendali, oggi sempre più numerose. Ma l’uso del modello familiare per interpretare la vita di una comunità religiosa «ha dato origine a strutture di tipo gerarchico che hanno poco a vedere con la natura della vita consacrata». Nelle comunità sono sempre esistite le figure della madre, del fratello, del padre superiore. Perché, allora, stupirsi se alcuni membri sono regrediti fino al punto da assumere comportamenti infantili o hanno assunto atteggiamenti di protesta «gettando sul responsabile della comunità tutti i problemi non risolti con i loro genitori o con le altre autorità»?

Men che meno una comunità religiosa può essere identificata con una comunità terapeutica, «anche se, nella nostra vita in comune, esistono degli elementi di tipo terapeutico». La comunità religiosa può e deve essere, infatti, un luogo dove svilupparsi umanamente e spiritualmente. La crescita personale dei suoi membri, obiettivo primo e unico di una comunità terapeutica, non può essere in alcun modo, però, la sua principale ragion d’essere.

Una comunità religiosa, solitamente, ha tra i suoi scopi principali quello di vivere il vangelo e proclamare la parola di Dio, non tanto in funzione di sé stessa ma in vista della sua missione nel mondo. Trasformando in comunità terapeutica una comunità religiosa, si rischia di sviluppare delle attese irrealistiche nei confronti della comunità e dei suoi membri, deformandone la sua vera natura e il suo scopo originario.

In alcuni casi, poi, ci si è addirittura ispirati al mondo degli affari allo scopo di comprendere meglio il dinamismo interno e garantire una maggior efficienza alla comunità religiosa. Ma è risaputo quanto, in queste realtà, il valore delle persone si misura in base alla loro abilità e all’efficienza nell’assolvere i ruoli assegnati. Tutto è regolato dall’orologio e dalla settorializzazione delle competenze. Diventa quindi impensabile chiarire la vera natura di una comunità religiosa confrontandola con i meccanismi funzionali di una società o di una struttura commerciale.

Tutte queste analogie sono improprie per il semplice motivo che una comunità autenticamente religiosa «ha come scopo la trascendenza e non l’autorealizzazione». La scelta di vita consacrata, come ogni altra scelta di vita, avviene sempre nel contesto di una risposta personale a una chiamata divina, una scelta che spesso, anche quando si vive un’esperienza comunitaria ben riuscita, viene fatta nella più assoluta solitudine. Questa, infatti, «fa parte della nostra natura umana ed è inerente alla condizione umana». Proprio per questo un religioso dovrebbe ripetere spesso con s. Agostino: «II nostro cuore non trova riposo se non in te». Solo così, infatti, la solitudine e il conseguente isolamento che talvolta ne deriva, «ci dà la possibilità di avvicinarci maggiormente a Dio e agli altri».

Il vivere in comunità ha sempre comportato un certo prezzo da pagare. Soprattutto quando, in passato, certe modalità di vita comunitaria richiamavano immediatamente l’idea di sacrificio. Un tempo ci si vestiva in un certo modo, si svolgevano determinate funzioni senza essere mai consultati, si accettava senza discussioni la volontà del superiore e si seguiva senza battere ciglio quello che oggi si potrebbe definire, con un’espressione benevola, un “rigido programma quotidiano”. L’esperienza quotidiana era segnata, infatti, fin dai primi anni di formazione, da tutta una lunga serie di pratiche, diverse delle quali, a volte, si facevano risalire volentieri ai tempi di fondazione dell’istituto. Basti pensare al classico capitolo delle colpe. In una comunità che i sociologi potrebbero definire “voluta”, era tutto previsto, tutto programmato. La comunità veniva sempre prima della persona.

In un modello di comunità, invece, di tipo associativo, a cui si ispirano oggi soprattutto i più giovani, le situazioni sono diametralmente capovolte, rischiando, a volte, di isolarsi interamente dagli altri e di vivere da soli. Vengono rivendicate sia la propria indipendenza personale che la più ampia autonomia per tutto ciò che riguarda il tempo libero. Può anche succedere di non aver più il coraggio di chiedere qualcosa a un proprio confratello. Recentemente fr. Sammon si è sentito chiedere da un giovane intenzionato a entrare nell’istituto: «Quando, il fatto di vivere solo in modo permanente, di trovare da solo il mio lavoro, di decidere personalmente dell’utilizzazione del mio tempo libero, anche se ogni tanto ho un contatto con la provincia e l’istituto, quando un modo di fare del genere cesserà di chiamarsi vita celibataria e potrà essere considerata una forma di comunità marista diversa da quella tradizionale?». Un istituto composto da simili religiosi rischia, purtroppo, di «non sopravvivere alla presente generazione».

II tema della vita comunitaria sta così diventando sempre una urgenza vera e propria. Non è difficile prevedere la crisi di quegli istituti nei quali «un numero sempre più grande di fratelli chiedono di vivere soli, o, per lo meno, se lo augurano, riducendo al minimo i rapporti con gli altri membri della comunità. Questa strada, come quella di un attivismo patologico, o quella di quei religiosi che «credono che la scelta della comunità è solamente una faccenda personale e continuano a trovare delle scuse per restare nella stessa comunità, anno dopo anno», sono tutte «senza via d’uscita».

La vita religiosa, infatti, non è mai stata concepita come un gruppo di persone che si radunano per vivere amichevolmente insieme e interagire in maniera molto superficiale. I religiosi sono chiamati a essere una presenza scomoda nella società. E lo possono essere solo quando si lasciano guidare dalla volontà di Dio che passa abitualmente anche attraverso la propria comunità.

Non è necessario essere dei grandi psicologi per capire come la vita comunitaria «è uno dei luoghi dove si manifestano con più evidenza le debolezze di ognuno». Quante volte, infatti, si è disposti a mettere in secondo piano i propri legittimi bisogni umani per privilegiare il progetto apostolico comunitario? La risposta la si ha immediatamente dal modo in cui una comunità vive, prega, condivide la propria esperienza quotidiana. Quante volte, invece di prendere parte attiva e responsabile nella vita e negli orientamenti della comunità, si passa il tempo «a criticare coloro che si impegnano a farlo».

 

VALORIZZARE

LE DIVERGENZE

 

Una comunità non nasce mai dal nulla. Si costruisce un poco alla volta. Si incomincia, molto semplicemente, con il “mettersi insieme”, per scoprire le differenze esistenti al suo interno. Solo in questo modo è possibile stabilire norme per il gruppo e, quindi, camminare insieme. Anche solo per questo primo passo, ci vuole tempo, ci vuole un periodo di orientamento. Le difficoltà iniziali non mancano mai. Non è sempre facile trovare il proprio posto nel gruppo. In questa prima fase i membri più anziani devono fare attenzione a non passare tutto il loro tempo a parlare di persone e di avvenimenti di cui solo loro sono a conoscenza. Non si può, infatti, obbligare i nuovi arrivati a chiedere continuamente spiegazioni.

Ma il banco di prova della validità di un certo dinamismo interno è costituito dall’elaborazione del progetto di comunità. Non basta e non serve una redazione valida per sempre. Ogni anno andrebbe rivisto, soprattutto se, nel frattempo, è cambiato qualche componente della comunità. Ogni volta è quanto mai utile «riesaminare i diversi punti e ottenere il consenso del gruppo». Potrà a volte sembrare una perdita di tempo e uno spreco di energie. Ma, se fatto consapevolmente, non sarà mai un lavoro inutile.

Proprio nella fase elaborativa del progetto comunitario, non ci si deve mai spaventare delle possibili divergenze, anche quando venissero espresse in maniera forte. Quante volte una falsa opinione circa la virtù della carità «ha reso molti di noi incapaci di dire la verità. E così restiamo in silenzio per conservare la pace». Certo, non si è mai obbligati a dire tutta la verità, così come la si percepisce singolarmente. Però la carità esige che si dica sempre la verità. È molto più utile, per esempio, rispondere a un fratello con onestà durante una riunione comunitaria che non «passare la settimana seguente a parlare con gli altri per rivelare loro ciò che avrei desiderato dirgli».

Così pure, restare silenziosi e permettere a una persona collerica, accigliata o che abusa dell’alcol, di soggiogare la comunità con il suo modo di fare «non è un comportamento evangelico». Soprattutto in questi casi, quando si decide di non intervenire, bisogna ricordarsi che le conseguenze verranno pagate da tutti.

Tutte le comunità religiose, non si stanca di ripetere fr. Sammon, sono luoghi di interazione personale. Ciò che accade, infatti, nella vita di un confratello ha delle ripercussioni su tutta la comunità. Quante volte il timore di conflitti e il non voler ammettere le differenze, presenti in ogni comunità, può portare a demandare tutta la responsabilità a un temperamento forte. Ma questo è il modo più scontato per eludere la soluzione dei problemi. Quando si verifica una simile situazione «è la crescita della comunità nel suo insieme che ne soffre».

Una volta compreso il fatto che è normale avere una divergenza di opinioni, si deve poi, però, poter arrivare alla elaborazione di alcuni orientamenti comunemente accettati. Ogni istituto ha le sue fonti normative. È questo il momento di interpretarle e di concretizzarle. Nel caso specifico dei maristi, è determinante, a questo riguardo, il messaggio finale dell’ultimo capitolo generale: Scegliamo la vita.

La fatica di ricostruire, per tappe, la vita di una comunità si ripresenta ogni volta che un suo membro è trasferito altrove o quando se ne inserisce uno nuovo. In ambedue i casi avviene, di fatto, un cambiamento. Un momento di preghiera o una celebrazione potrebbe utilmente aiutare tutti gli interessati «a prendere coscienza dei cambiamenti avvenuti e a gestire i sentimenti che inevitabilmente li accompagnano». Quanto sarebbe significativo se, in incontri del genere, qualcuno potesse esprimere a colui che parte ciò che la sua presenza ha significato per lui e per la comunità nel suo insieme.

 

SFIDE

CONCRETE

 

A questo punto, fr. Sammon non si sottrae alla parte forse più problematica della sua riflessione. Quali sono le sfide più significative oggi di fronte alle quali si viene a trovare una comunità religiosa? A parte il fatto di non essere spesso d’accordo neanche sulla definizione di comunità religiosa, un primo problema è quello relativo alla figura del superiore. Le costituzioni dei maristi, al riguardo, sono molto precise. Il superiore o il responsabile della comunità è colui che «contribuisce a creare un clima di intesa e di armonia tra i fratelli, stimola e coordina lo sforzo collettivo e assicura la continuità e l’unità d’azione di tutti». Purtroppo, però, questo è un ruolo oggi sempre meno ambíto. Per essere anche solo superiore locale, faceva osservare a fr. Sammon un suo confratello, bisognerebbe avere le competenze «di un direttore spirituale, di un terapeuta, di uno specialista nella soluzione dei conflitti», non disgiunte dalla serenità di accettare il dato di fatto che alcune situazioni «non cambieranno mai».

Premesso che una “grazia speciale” è riservata a coloro che accettano la volontà dei loro fratelli e si impegnano in questo servizio, un superiore ha fondamentalmente tre incombenze: saper incontrare e dialogare con i confratelli, animare la preghiera comune, organizzare gli incontri di comunità. Anche se non è obbligato ad assumersi la responsabilità di tutti questi momenti, li deve sempre e comunque saper avviare.

Non necessariamente, infatti, un responsabile di comunità deve pianificare o dirigere sempre la preghiera del gruppo. Ricade, invece, su di lui tutta la responsabilità organizzativa del servizio dei fratelli, fornendo loro tutti i mezzi necessari affinché la preghiera sia ben preparata e significativa. La stessa cosa va detta per le riunioni comunitarie. II superiore locale non deve sentirsi obbligato a presiedere sempre questi incontri. Altri membri del gruppo potrebbero farlo anche meglio di lui. Ciò che, invece, è di sua competenza è il fatto di «prevedere un momento regolare e un luogo dove i membri della comunità si riuniscono e discutono insieme della loro vita».

Mentre è relativamente facile che un superiore accetti di buon grado questo servizio di animazione, altrettanto non si può dire per quanto riguarda il colloquio con i confratelli. Il fatto che un superiore, però, non si senta né uno psicologo né un assistente sociale, non è detto che questo sia un elemento a sfavore. Potrebbe essere anche una fortuna. Nonostante, infatti, l’importanza di questi ruoli in una società come la nostra, «sono convinto, osserva fr. Sammon, che un responsabile di comunità debba essere, prima di tutto, un fratello tra i suoi fratelli», capace di riservare loro un’attenzione e un interessamento speciale e personale. Proprio per questo, un consiglio che vorrebbe dare ai superiori del suo istituto è quello di pensare all’ultima volta in cui hanno incontrato un amico. «Ciò che sicuramente vi balza subito alla memoria è il dialogo facile che avete avuto con lui. Perché non utilizzare questo criterio anche per l’incontro con i fratelli?». Partendo da un simile presupposto, «tutto il resto verrà da sé».

Rientra, poi, nel senso di responsabilità non solo del superiore ma anche di tutta la comunità adottare uno stile di vita semplice, a volte anche austero.

Sarebbe sicuramente più credibile la propria testimonianza tra i poveri. Purtroppo, però, quando l’autosufficienza, l’egoismo e l’accumulo dei beni prendono il sopravvento, viene seriamente compromessa la scelta evangelica di vita. Fr. Sammon ricorda come per molto tempo, nel suo istituto, in passato, prima di partire per le vacanze estive, vigeva l’abitudine di sistemare i propri effetti personali in un grande baule.

Nel caso si dovesse cambiare comunità al termine dell’estate, tutto era pronto. Non solo. Dovendo scartare tutto ciò che non serviva, si semplificava di molto la propria vita. Con il passare degli anni, anche questa abitudine è andata in disuso.

E così, recentemente, è successo che un fratello di mezza età, dovendo cambiare comunità, ha avuto bisogno di un camion per trasportare tutte le sue cose.

Un testimone, scherzando, ha così commentato il lungo percorso sulla strada del rinnovamento: «Siamo passati dal fratello-baule (trunk) al fratello – camion (truck)». Anche nel caso in cui lo stile di vita di una comunità religiosa fosse accettato dall’ambiente in cui si vive, «non saremo mai dei testimoni credibili presso i giovani, e più in generale per la Chiesa, se il nostro modo di vivere è unicamente lo specchio dei valori della classe media del nostro paese».

 

I CASI

DIFFICILI

 

Uno dei problemi più complessi nella vita comunitaria è sicuramente quello dei confratelli difficili. Ci sono in tutte le comunità. Anche molti comportamenti, apparentemente normali, potrebbero, un giorno o l’altro, essere classificati come difficili. «Chi di noi, qualche volta, non diventa irritabile ostinato, brontolone o insopportabile?». Proprio per questo ci vorrebbe una grande dose di prudenza prima di etichettare come difficili certe persone. È un fatto, però, che confratelli cronicamente difficili non mancano in nessuna comunità, e sono proprio questi a complicare spesso la vita al suo interno. Da che cosa lo si arguisce? Dal fatto che «si lamentano in continuazione, si sentono vittime di ingiustizie, coltivano atteggiamenti negativi, sono spesso indecisi, le loro reazioni sono forti e spesso promettono cose irrealistiche».

A parte il fatto che «ognuno di noi ha conosciuto degli sbalzi di umore o ha mandato a quel paese un amico al termine di una giornata lunga e faticosa, senza per questo essere inserito nella categoria degli scontenti cronici», quando comunque ci si trova di fronte a un caso realmente difficile la prima cosa da fare è quella di intavolare con l’interessato una discussione franca. Quante volte, invece, succede che «molti di noi parlano del problema con tutti i fratelli della comunità ed evitano di affrontare il tema con l’interessato».

Inoltre si dovrebbe essere talmente avveduti da non scambiare mai per caso difficile il comportamento di un confratello che ha semplicemente un temperamento più forte degli altri. In questo caso «forse siamo noi troppo sensibili e, di conseguenza, ci sentiamo a disagio di fronte a chi esprime con forza i propri sentimenti». Ma, in questi casi, il problema «è in noi e non in lui».

Anche per questo il primo passo da compiere dovrebbe essere quello di rivedere il proprio comportamento e la propria reazione di fronte ai casi difficili. Quando qualcuno si lamenta in continuazione, sarebbe importante cercare una tattica che lo aiuti a risolvere il suo problema piuttosto che lamentarsi e fare di tutto per evitare o ignorare il fratello in questione. Per migliorare le cose basterebbe a volte semplicemente cambiare il proprio modo di reagire di fronte a chi si lamenta.

Comunque è importante essere pienamente consapevoli «che ciascuno di noi non è obbligato a sopportare silenziosamente il comportamento di un membro della comunità che distrugge la vita comunitaria o è ingiurioso nei suoi confronti». Ci si dovrebbe impegnare, invece, per migliorare la situazione, ricorrendo, quando fosse necessario, anche ai superiori maggiori.

Ma oltre ai casi difficili, non mancano spesso anche situazioni veramente penose. In tutti gli istituti esistono religiosi caratteriali i cui problemi emotivi sono, spesso, causa di grandi sofferenze personali. Le situazioni più gravi si possono risolvere solo con un intervento medico e, a volte, anche psichiatrico. Possono esistere casi anche di confratelli con turbe mentali vere e proprie. Sono situazioni limite che non si possono ovviamente lasciare solo alla responsabilità di un superiore o di una comunità locale.

Al di là, comunque, di questi casi veramente complessi, val la pena ricordare a tutti che non è possibile essere persone profondamente spirituali quando si è scontrosi e poco caritatevoli con le persone che vivono nella propria comunità. «Trovo difficile da accettare che una persona profondamente spirituale possa continuare a ritornare su un’ingiustizia che ha subíto nei tempi passati o che renda agli altri la vita impossibile per i suoi sbalzi di umore», anche quando quella persona «passa numerose ore nella cappella della comunità».

Rimane comunque assodato il fatto che molti problemi potrebbero essere facilmente superati e scongiurati se realmente le comunità religiose fossero autentici centri di preghiera e di spiritualità. La preghiera, infatti, può trasformare le persone e anche il proprio modo di vedere la realtà. La celebrazione eucaristica non può non costituire un posto centrale nella vita di una comunità religiosa. «Ciò che è allarmante, osserva fr. Sammon, è che in troppe nostre comunità mariste l’eucaristia non solo è celebrata raramente, ma la sua mancanza viene appena percepita».

La riscoperta del senso della festa, dello spirito di riconciliazione, del perdono reciproco non dovrebbero mai mancare in nessuna comunità religiosa. Delusioni o ferite assolutamente incurabili non esistono. Basta sapersi aprire alla grazia di Dio ed essere disposti a trovare il tempo per riconciliarsi. Ciò che conta non è tanto il fatto di vivere in una comunità numerosa o meno, quanto piuttosto respirare nella propria comunità «uno spirito di generosità, un cuore aperto, una passione per il Signore, una volontà di vedere negli altri il positivo e non il negativo, lo zelo per la missione, la semplicità di vita».

Il tutto, accompagnato anche dal senso dell’umorismo. È un aiuto prezioso. «Alcuni, si prendono troppo sul serio. Manca loro la capacità di ridere di se stessi. Come riusciranno a superare i momenti difficili dell’esistenza? L’umorismo ci aiuta a comprendere il senso di alcuni avvenimenti, attenuarne gli effetti della frustrazione e della delusione che fanno parte dell’esistenza quotidiana di ciascuno».

A volte basterebbe un po’ più di umorismo per rendere le persone felici, gioiose. «La gioia non si esprime in modo rumoroso, ma mediante un sentimento profondo di benessere sperimentato da quelle persone per cui la vita ha un senso, uno scopo e che la vivono con dei meravigliosi compagni di strada. A mio avviso non c’è migliore pubblicità per la vita consacrata».

 

Angelo Arrighini