I RELIGIOSI NELLA CHIESA LOCALE
GIUSTA AUTONOMIA E PASTORALE D’INSIEME
Gli istituti religiosi godono di una giusta autonomia garantita loro dal
diritto canonico. Essa tuttavia non comprende l’attività pastorale esterna che
deve essere soggetta all’ordinario del luogo e coordinata con quella della
chiesa locale. Attese, limiti e prospettive di questa autonomia.
Il rapporto tra diocesi e istituti
religiosi per quarto riguarda la pastorale è sempre stato oggetto di
discussioni. Da una parte nessuno mette in discussione il fatto che è compito e
dovere del vescovo diocesano promuovere e coordinare la vita pastorale nella
sua diocesi; ma egli deve anche rispettare le caratteristiche dei diversi
soggetti che operano in questo ambito. Sorge allora la domanda sul significato
dell’autonomia di cui godono gli istituti religiosi e del necessario
coordinamento delle loro attività con quelle della rispettiva diocesi.
Ha parlato di questo argomento mons. Viktor Josef Dammertz
osb, vescovo emerito di Augsburg
ed ex abate primate dei benedettini, nel contesto del simposio che si è tenuto
ad Andech, l’8-9 aprile 2005, sul tema “casa
religiosa – centro spirituale per il futuro”.
A prima vista potrebbe sembrare che si
tratti di un argomento dai forti connotati giuridici. In realtà fa parte di
quel discorso della pastorale organica, in cui sono coinvolti in prima persona
anche i religiosi/e, e che proibisce oggi ogni impresa solitaria o fuga
estemporanea.
IL CONCETTO
DELLA “GIUSTA AUTONOMIA”
Padre Dammertz
ha affrontato il tema, dopo una breve panoramica del periodo anteriore al
concilio, partendo dal principio basilare stabilito dal canone 586 in cui si
dice: «È riconosciuta ai singoli istituti una giusta autonomia di vita,
specialmente di governo, mediante la quale abbiano nella Chiesa una propria
disciplina e possano conservare integro il proprio patrimonio, di cui al can.
578.
È compito degli Ordinari dei luoghi conservare
e tutelare tale autonomia».
Invano, osserva Dammertz,
si cercherebbe un’affermazione così chiara nel precedente Codex
juris canonici del 1917. Ciò non significa tuttavia
che il pensiero dell’autonomia delle comunità religiose fosse estraneo al diritto
canonico precedente. Ma questa dottrina si è affermata soltanto sulla scia del
Vaticano II. I padri conciliari hanno riconosciuto espressamente che gli
istituti religiosi non dovevano la loro origine a una disposizione dei
superiori gerarchici, ma che al loro inizio c’è piuttosto una vocazione
carismatica del fondatore o fondatrice. La loro esperienza spirituale ha
trovato la sua concretizzazione nelle regole. L’autorità ecclesiastica, in
concreto la Santa Sede, ha successivamente riconosciuto e approvato questo
ordinamento di vita. Come scrive la Lumen gentium:
«La Chiesa, seguendo docilmente gli impulsi dello Spirito Santo, accoglie le
regole proposte da uomini e donne esimi, e, infine dopo averle messe a punto
più perfettamente, dà loro una approvazione autentica (45,1).
Su questo presupposto di fondo va letto
e interpretato anche il can. 586, appena citato. In esso viene riconosciuta la iusta autonomia, la giusta autonomia a tutti gli istituti
religiosi. È detto agnoscitur, ossia “riconosciuta”.
Con ciò il legislatore lascia intendere che l’autonomia compete ad essi per
natura e non per una concessione o un privilegio loro garantito.
Questa autonomia è qualcosa di
sostanzialmente diverso dall’esenzione con cui ad alcune comunità vengono
riconosciuti dei diritti che competono al vescovo. Infatti giustamente il CIC
del 1917 ha inserito l’esenzione nel capitolo De privilegiis
(can 615). La codificazione di questa autonomia è invece il riconoscimento di
una realtà che viene presentata al legislatore e che egli riconosce,
approvandola.
Il codice parla volutamente di iusta autonomia degli istituti religiosi per chiarire che
questa autonomia non è illimitata e che non significa totale indipendenza. Gli
orientamenti di Mutuae relationes
a questo riguardo parlano di una certa genuina autonomia (13). In effetti,
tutte le comunità religiose sono organicamente inserite nella Chiesa. Fanno
parte del popolo di Dio e del suo ordinamento gerarchico. Perciò sono soggette
non solo all’autorità pontificia – secondo il diritto – ma anche all’autorità
del vescovo.
La parola iusta
può essere intesa sia come un rafforzamento sia come una limitazione. Questa
autonomia appartiene al campo della giustizia; se uno la calpesta commette
infatti un’ingiustizia. E proprio come esigenza della giustizia attribuisce a
ciascuno quello – e solo quello – che gli compete (suum
cuique), come dice il vecchio assioma latino. Ne
deriva che l’autonomia comprende vari gradi e non esclude certe dipendenze. Il
senso più profondo dell’autonomia sta nel fatto che essa consente ad ogni
comunità religiosa di conservare fedelmente il proprio patrimonio spirituale e
la propria identità fondata sul carisma. Che cosa s’intenda in concreto è
descritto nel can. 587: riguarda la volontà del fondatore e la sua visione
riconosciute dall’autorità della Chiesa circa la natura, il fine, lo spirito e
la caratteristica propria dell’istituto religioso come anche la sana
tradizione.
Fa parte dei diritti e dei doveri di un
istituto religioso formulare questo patrimonio spirituale e di descriverlo
nelle costituzioni. E spetta alla competente autorità della Chiesa interpretare
e approvare questo carisma che il Signore ha donato alla Chiesa (can. 576).
Giovanni Paolo II nel documento
post-sinodale Vita consecrata ha ulteriormente rafforzato questa autonomia
affinché le comunità religiose “possano conservare intatto il loro patrimonio
spirituale e apostolico”. Egli chiede ai vescovi di conservare e tutelare tale
autonomia, inoltre di accogliere e stimare i carismi della vita consacrata,
dando loro spazio nei progetti della pastorale diocesana (cf.
48-50).
LIMITI
DELL’AUTONOMIA
L’autonomia garantita agli istituti
religiosi, nel canone citato, si riferisce alla vita religiosa in quanto tale e
in particolare all’autorità dell’istituto. Fa parte quindi della responsabilità
dell’istituto regolare la propria vita interna in base alle norme del diritto
comune e particolare. Autonoma è in particolare l’autorità interna, vale a dire
la competenza, definita nelle costituzioni, del capitolo e dei superiori,
compresa la loro elezione.
Invece l’autonomia non comprende –
almeno direttamente – l’attività esterna dell’istituto, la sua attività
pastorale nella chiesa locale. Il diritto canonico, nel can. 678, stabilisce,
in armonia con le relative indicazioni del concilio: «I religiosi sono soggetti
alla potestà dei vescovi… in ciò che riguarda la cura delle anime, l’esercizio
pubblico del culto divino e le altre opere di apostolato».
Sono così delineati, al di là
dell’ambito interno, i settori in cui i religiosi operano, nella chiesa locale
ed esercitano la cura d’anime.
Si toccano qui gli interessi
dell’istituto religioso e la competenza del vescovo del luogo. Ed è a questo
livello che possono nascere tensioni e persino dei conflitti. Resta il fatto
che in base al proprio carisma vi sono compiti pastorali che sono appropriati
più all’uno che all’altro istituto.
I testi postconciliari non si stancano,
da una parte, di esortare a mettere a servizio del bene della Chiesa locale la
loro attività specifica, derivante dal carisma e dalla loro indole.
E ai vescovi viene ricordato il dovere
di aiutare i religiosi, introducendoli nella comunità della chiesa locale e
nell’attività di evangelizzazione (per es. MR 52).
Per raggiungere un buon equilibrio in ordine
alla pastorale è indispensabile che l’autorità diocesana e i superiori
religiosi coltivino il dialogo e cerchino insieme vie adeguate per far sì che
il carisma proprio di ogni istituto sia coordinato con l’attività pastorale
della diocesi.
Se da ambe le
parti è sentita la responsabilità verso la Chiesa locale, allora dovrebbe
essere possibile risolvere attraverso un dialogo fraterno i problemi e le
difficoltà che sorgono nella ricerca della volontà di Dio. Questo dialogo
presuppone che ambedue le parti si sforzino di conoscersi e di capirsi, non
soltanto in maniera superficiale e parziale, ma in profondità per quanto
riguarda la vocazione e la loro missione nella Chiesa.
CONTRIBUTO
NELLA PASTORALE
Più si riuscirà a collegare gli
istituti religiosi con i loro carismi specifici, le loro attività apostoliche e
i loro metodi pastorali con la pastorale d’insieme della diocesi, meglio essi
potranno servire la Chiesa. Il papa ha scritto che più una chiesa locale è
ricca e feconda più le comunità religiose potranno contribuire al suo sviluppo
con i loro carismi (cf. VC 48).
Diversi superiori religiosi spesso si
lamentano che troppi loro membri vengono inseriti nelle diocesi non in
conformità con i loro carismi. Troppo spesso il vescovo, vale a dire il responsabile
del personale, ricorre ai sacerdoti religiosi per affidare loro delle
parrocchie che non possono essere coperte dai sacerdoti diocesani.
In casi singoli, ha affermato Dammertz, ritengo del tutto giustificato un atteggiamento
pragmatico; credo tuttavia che una prassi del genere abbia bisogno sempre di
una costante verifica critica. Solo in pochi ordini religiosi la pastorale
parrocchiale ordinaria fa parte della loro missione specifica. Tuttavia per
onestà bisogna anche dire che diversi abati o provinciali sono contenti quando
una diocesi affida a qualcuno dei suoi sacerdoti una parrocchia, dove poter
lavorare a beneficio del regno di Dio.
PER UNA FRUTTUOSA
COLLABORAZIONE
Presupposto per una fruttuosa
collaborazione è la disponibilità da tutte le parti a collaborare e ad agire in
armonia. Questa era anche la preoccupazione di fondo di Mutuae
relationes.
Anche Giovanni Paolo II, nella
esortazione apostolica postsinodale Vita consecrata
richiama nuovamente la necessità di una collaborazione fiduciosa tra diocesi e
istituti religiosi.
Il problema che sta a cuore sia
all’autorità diocesana sia ai superiori religiosi sta nel trovare il modo di
inserire il lavoro dei religiosi, in base ai loro carismi, nel quadro d’insieme
della pastorale diocesana. Come fare perché non si crei un clima di reciproca
concorrenza, e persino di invidia – la famosa invidia clericalis
– o di gelosia? Come fare affinché le diverse attività diventino motivo di
collaborazione feconda e complementare e non forze di reciproco logoramento o
addirittura di controproducente opposizione?
P. Dammertz
ha proposto alcuni principi che ha detto di ritenere importanti per garantire
un’armonia significativa e fruttuosa dei diversi interessi.
Quando un vescovo acconsente che un
istituto religioso apra una casa nella sua diocesi – ha affermato – egli
insieme concede anche il permesso di esercitare quelle attività pastorali che
sono conformi al carisma particolare di quella famiglia religiosa. Può, per
esempio, proibire a una comunità di salesiani di don Bosco di lavorare con i
giovani, di gestire una scuola, oppure a un monastero benedettino di avere una
chiesa pubblica a cui poter accedere e dove i monaci possano celebrare la loro
liturgia? (cf. CIC can 611).
In queste attività i religiosi si lasciano
guidare dal loro carisma. I principi da seguire sono delineati, in genere,
nelle costituzioni.
Se in una diocesi un istituto religioso
ivi residente vuole aprire una nuova attività, inizialmente non programmata, è
necessario compiere una “verifica dei bisogni” in dialogo con l’autorità
diocesana.
Citando l’esempio della sua diocesi, Dammertz, ha rilevato come negli ultimi anni si sono
moltiplicati i casi di comunità sia maschili e femminili che hanno cercato di
utilizzare diversamente gli spazi rimasti vuoti dei loro edifici. In molti casi
questi spazi sono stati trasformati in luoghi per riunioni o di formazione. È
avvenuto così che in diocesi vi è oggi un eccesso di offerte di queste case (51
in tutto), che in realtà si fanno concorrenza tra di loro poiché sono
insufficientemente occupate e per questo non sono nemmeno più in grado di
coprire approssimativamente i costi.
Nella gestione di progetti concreti è
obbligatorio seguire le direttive del vescovo del luogo, dal momento che i
religiosi nei campi pastorali, ossia quelli non ristretti ai membri delle loro
comunità, sono soggetti al vescovo della diocesi (can. 678). Essi esercitano la
loro attività pastorale “in nome e per incarico della Chiesa”; questa pertanto
deve essere esercitata in communio, ossia in stretta
comunione spirituale. Questo vale anche per le attività specifiche menzionate
di una comunità religiosa.
Il can. 678 raccomanda:
«Nell’organizzare le attività apostoliche dei religiosi è necessario che i
vescovi diocesani e i superiori religiosi procedano su un piano di reciproca
intesa».
Per una feconda comunione di reciproca
integrazione è indispensabile un costante dialogo dei responsabili della
diocesi e delle comunità religiose.
Infine anche sul piano locale, quindi
nella parrocchia, nel decanato e nella regione è necessario favorire una
stretta e fiduciosa collaborazione. Anche se normalmente non si tratta di
competenze giuridiche, questi contatti creano un clima di reciproca
comprensione e di fiducia che non può che essere auspicabile per un’azione
efficace. In questi ambiti possono essere discusse iniziative auspicabili e
indicato anche cosa è possibile fare. La partecipazione regolare dei sacerdoti
religiosi alla giornata decanale è vivamente da
raccomandare perché si possono così fin dall’inizio evitare o superare in
fretta le incomprensioni.
ATTESE,
LIMITI, PROSPETTIVE
Per quanto riguarda le attese, i limiti
e le prospettive dell’attività dei religiosi e delle proposte della diocesi è
ora importante che quanto è stato detto in linea generale sia messo in atto
nella comunità religiosa concreta e applicato alla eventuale situazione
pastorale e personale.
Giustamente viene sottolineato che la
legge fondamentale della pastorale è che la Chiesa vada alla gente, che i
pastori d’anime possano incontrare le persone là dove sono con i loro problemi
e i loro dubbi, le loro indifferenze e mancanza di interesse.
Inoltre bisogna offrire dei luoghi in
cui le persone possano venire: luoghi che accolgano volentieri coloro che
desiderano tirarsi fuori dall’ambiente nervoso della loro quotidianità, e dove
ci si prenda il tempo per ascoltarle e ulteriormente aiutarle nella misura del
possibile. Questo è quanto ci si aspetta oggi da un “centro spirituale”.
Questi centri rivestono oggi una
notevole importanza. Nell’attuale complessità delle situazioni, essi possono
giungere là dove non è possibile alla parrocchia o alla comunità parrocchiale.
Cosa si può fare? È chiaro che un
semplice desiderio aleatorio non serve a niente. Ciò che occorre è una verifica
seria e spassionata dei desideri pastorali e delle possibilità esistenti, in
particolare per quanto riguarda il personale e forse anche l’aspetto
finanziario. A questo scopo è molto utile il dialogo sul posto.