Il CARD. D. TETTAMANZI AI RELIGOSI/E DI MILANO

“ALZATI RIVESTITI DI LUCE”

 

Nella festa della Presentazione, giornata mondiale della vita consacrata, il card. Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, ha rivolto ai consacrati un’impegnativa omelia-meditazione, per invitarli col profeta ad “alzarsi e rivestirsi di luce”, e a vivere con rinnovato impegno i voti e la missionarietà.

 

La seguente omelia-meditazione del card. Tettamanzi, che qui offriamo nel testo integrale, ci offre numerosi spunti di riflessione sul significato della vita consacrata. Desideriamo farla conoscere anche alla cerchia più ampia dei nostri lettori, soprattutto in questa vigilia di quaresima in cui la Chiesa ci chiama a una sincera revisione di vita, per una più luminosa configurazione a Cristo, e a risorgere con lui come creature nuove.

 

Carissime persone consacrate, è festa di luce la Presentazione del Signore. Ed è sulla luce, sulla luce della vita, che oggi vogliamo fermare la nostra meditazione.

Penso alla luce delle candele con le quali si è snodata la nostra processione d’inizio: un gesto semplice e popolare che ha finito per dare alla festa d’oggi il nome suggestivo di “Candelora”. Le candele, la luce la ricevono e la danno. Infatti, vengono “accese” da una sorgente luminosa e, a loro volta, “illuminano”, fanno luce, rischiarano spazi, persone e cose.

Penso, soprattutto, alla luce di cui ci ha parlato il vecchio Simeone, «uomo giusto e timorato di Dio» (Lc 2, 25). Prendendo in braccio il bambino Gesù, benedice il Signore e canta: «i miei occhi han visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli» (vv. 30-31). E chiama il Salvatore del mondo – questa “salvezza” fatta “carne umana” nel grembo verginale di Maria – con questo nome: «luce per illuminare le genti» (v. 32).

Qui la luce non è una “cosa”, non è una semplice realtà fisica. È una realtà viva, è una “persona” concreta. Il bambino che Maria, la madre, porta nel tempio viene svelato dallo Spirito Santo al cuore di Simeone nella sua inimmaginabile “identità”: proprio quel bambino è il Figlio di Dio fatto uomo per la nostra salvezza, è il Cristo lumen gentium.

Come a Simeone, così anche a noi è dato di “vedere” con gli occhi della fede il Signore Gesù, di incontrarlo, di entrare in comunione di vita e di amore con lui, di prenderlo cioè non tanto “tra le braccia” quanto “nel cuore”, di confessarlo e di contemplarlo come «luce per illuminare le genti». E il frutto di tutto ciò saranno, come per Simeone, una conoscenza più profonda di noi stessi e un sentimento di intima e grande gioia per le meraviglie che l’amore di Dio in Cristo ci riserva per poter giungere alla perfezione – non la fine, ma il fine – della nostra vita. È questo il vero senso delle parole del santo vecchio Simeone: «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola» (v. 29).

 

ORA SIETE

LUCE NEL SIGNORE

 

Ecco allora una breve traccia di contemplazione del mistero cristiano della luce.

Gesù Cristo è “luce” perché, come Figlio eterno di Dio, è lo «splendore del Padre» e l’«irradiazione della sua gloria» (Eb 1, 3) e perché, come Figlio incarnato, si è fatto luce in mezzo a noi e per noi. Ed è “luce delle genti” perché offre la sua luce alle “genti”, ossia a tutti gli uomini. Proprio così, nel Prologo del suo Vangelo, Giovanni ne canta la venuta fra noi: «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1, 9).

È Gesù stesso che si autodefinisce e si presenta all’umanità come «la luce del mondo», una luce che egli, nel suo immenso amore, ci vuole donare per il nostro bene: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8, 12).

Cristo lumen gentium, dunque, ci fa dono della sua luce. Si tratta di un dono grande e meraviglioso, che racchiude e sprigiona una straordinaria ricchezza di grazia e di responsabilità. In realtà, il dono di Cristo non è solo quello di offrire la luce allo spazio nel quale noi ci muoviamo – non dimentichiamo che «tutto è stato fatto per mezzo di lui», e dunque anche la luce! – e la luce alla nostra mente mediante la ragione e ancor più la fede, ma è quello di giungere sino alle fibre più segrete del nostro “essere” di cristiani, per imprimervi indelebilmente, con il fuoco dello Spirito, la sua stessa fisionomia, la sua stessa “identità”. Ai suoi discepoli, a noi dunque, Cristo si rivolge e dice: «Voi siete la luce del mondo» (Mt 5, 14). E a Gesù fa eco l’apostolo Paolo, che così parla ai cristiani di Efeso: «Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore» (Ef 5, 8).

In questo senso, il cristiano è come una candela, una candela vivente e personale, perché gli è dato di “ricevere” la luce da Cristo ed è chiamato a “dare” agli altri questa stessa luce, ossia a risplendere davanti agli altri e ad illuminarli. È ancora Gesù che ci invita e ci ammonisce: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini…» (Mt 5, 16). E Paolo: «Ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce» (Ef 5, 8).

Come si vede, il mistero di Cristo lumen gentium rivela e manifesta il volto più vero e originale del cristiano: il suo essere è luce, luce illuminata e illuminante. Anche sotto l’aspetto specifico della luce valgono pienamente le parole del concilio Vaticano II: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo… Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione» (Gaudium et spes 22).

 

LA LUCE

DELLA VITA CONSACRATA

 

Quanto abbiamo sinora detto in rapporto al cristiano è l’applicazione di una lettura che di per sé riguarda anzitutto la Chiesa come tale e, nella Chiesa, le categorie di persone che la compongono, secondo le diverse e complementari vocazioni e condizioni di vita, secondo i vari carismi e ministeri e compiti.

Come sappiamo, il concilio Vaticano II inizia il suo documento centrale, la costituzione Lumen gentium, mostrando come la Chiesa nella sua identità, vita e missione è nella storia il riflesso reale dello splendore di Cristo Signore e Salvatore: «Cristo è la luce delle genti, e questo sacro Concilio, adunato nello Spirito Santo, ardentemente desidera che la luce di Cristo, riflessa sul volto della Chiesa, illumini tutti gli uomini annunziando il Vangelo a ogni creatura (cf. Mc 16, 15). E siccome la Chiesa è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano… (il concilio) intende con maggiore chiarezza illustrare ai suoi fedeli e al mondo intero la sua natura e la sua missione universale» (1).

Come Cristo è «Luce da Luce» (Credo) ed è fonte irradiante luce, così in modo analogico anche la sua Chiesa è “illuminata e illuminante”. Come è noto, il nostro sant’Ambrogio dipinge questo volto della Chiesa in termini poetici e suggestivi e insieme densamente teologici con l’immagine della luna. Per il vescovo di Milano, la Chiesa riceve in dono i raggi luminosi che vengono da Cristo e, a sua volta, li ridona al mondo che si trova nell’oscurità. Scrive: «La luna ha proclamato il mistero di Cristo… E veramente come la luna è la Chiesa, che ha diffuso la sua luce in tutto il mondo e illumina le tenebre di questo secolo… Questa è la vera luna, che dalla luce del sole deriva il lume dell’immortalità e della grazia. La Chiesa rifulge non della propria luce, ma di quella di Cristo e prende il proprio splendore dal sole di giustizia» (Esamerone 4, 32).

È nel contesto di una Chiesa “illuminata e illuminante” che si situano le diverse categorie di fedeli, tra le quali noi ora prendiamo in considerazione le persone consacrate. È certamente vero che il volto luminoso della Chiesa si riflette sul volto di tutti i suoi membri, senza eccezioni. Ma è altrettanto certamente vero che questo riflesso assume contenuti e modalità che corrispondono alla vocazione e condizione di vita, alla fisionomia e ai compiti dei vari membri della Chiesa: di una Chiesa nella quale rivive l’inesauribile mistero di Cristo nella sua unità e pluriformità. Dunque, un’unica grande luce da cui partono e a cui arrivano tanti diversi raggi luminosi.

In tal senso, nella Chiesa si dà un riflesso luminoso che è proprio e peculiare delle persone consacrate: un riflesso luminoso, e dunque una bellezza spirituale affascinante, che in qualche modo rapisce lo sguardo di Cristo, lo Sposo, il quale si compiace della Chiesa, sua Sposa, ammirata come «tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (Ef. 5, 27).

Sappiamo bene che nella Chiesa la specificità delle persone consacrate è legata alla loro consacrazione al Signore, al radicalismo evangelico, ai cosiddetti “voti” di castità-povertà-obbedienza, espressioni ed esigenze, questi “voti”, del fatto che le persone consacrate sono «un’epifania della Chiesa nella sua tensione verso il Regno di Dio» (Mi sarete testimoni 87). Ascoltiamo il concilio: «Lo stato religioso, liberando i suoi seguaci dalle cure terrene, rende ai credenti ancora più visibili i beni celesti già presenti nel mondo; testimonia meglio la vita nuova ed eterna che Cristo ci ha acquistato con la redenzione, e preannuncia la futura risurrezione e la gloria del regno dei cieli… Manifesta infine con particolare evidenza la superiorità del regno di Dio rispetto a ogni altra realtà terrena, e le esigenze supreme che esso avanza» (Lumen gentium 44).

È in particolare sul triplice e unitario voto di castità-povertà-obbedienza che vogliamo soffermarci. È questo il contenuto proprio e la forma specifica che fanno delle persone consacrate, con e nella Chiesa, un riflesso tipico e originale della luce che è Cristo Signore. Sì, vogliamo soffermarci, perché è utile, anzi perché è necessario per la nostra vita spirituale e la nostra missione pastorale.

 

I VOTI: UNA REALTÀ

SEMPRE DA RISCOPRIRE

 

Non c’è dubbio che noi tutti conosciamo il significato dei voti e crediamo alla loro importanza, e prima ancora alla loro bellezza, per essere fedeli alla vocazione e missione ricevute.

Nello stesso tempo non dobbiamo dimenticare o sottovalutare alcuni rischi che possiamo incontrare nella nostra esperienza di vita. Così il rischio di abituarci (in senso negativo) al fascino spirituale e alla serietà morale dei voti: quasi un adagiarci e un rimanere fermi. Purtroppo anche alle cose belle possiamo assuefarci, sino a giungere a “svilire” ciò che è “prezioso”! E ancora il rischio di dare troppo sbrigativamente come scontati, vissuti cioè e vissuti bene, questi voti; o di ritenerli come già acquisiti per sempre, una volta emessi, senza sentire il bisogno di rinnovarli e farli crescere ogni giorno.

Sì, si va avanti, certo senza “smentire” la consacrazione al Signore, ma senza quella attenzione permanente e quell’impegno costante che rendono più consapevole e più generosa la propria donazione a Dio come risposta alla sua elezione d’amore.

Accogliamo allora come rivolto anche a noi – alle nostre congregazioni, ai nostri istituti, alle nostre comunità, a ciascuno e a ciascuna di noi – l’invito del profeta a Gerusalemme: «Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce» (Is 60, 1). Quell’«alzati» è un appello a metterci in piedi, a essere svegli e pronti, quasi a prendere lo scatto: per camminare, per muoverci, per correre. E il “rivestiti di luce” non è forse un comando a riprendere e a indossare il manto luminoso che il Signore ci ha messo sulle spalle, anzi nel cuore? Analogo è l’invito che l’apostolo Paolo rivolge ai cristiani di Efeso e che possiamo fare nostro: sì, un tempo gli efesini erano «tenebra», ma ora sono «luce nel Signore» e devono comportarsi da «figli della luce». Non ci si può addormentare. Ci si deve svegliare: «Svegliati, o tu che dormi, dèstati dai morti e Cristo ti illuminerà» (Ef 5, 14).

Carissime persone consacrate, preghiamo che il Signore, con il dono del suo Spirito, prenda possesso del nostro cuore e lo renda sempre vigile e premuroso, sempre aperto alla novità che non conosce tramonto, sempre capace di freschezza e di entusiasmo nel vivere la nostra consacrazione e i nostri voti: solo così «la gloria del Signore brilla su di noi» (Is 60, 1).

Ma come “alzarsi”? Tra le diverse strade che si possono seguire per alzarsi, oggi indichiamo quella di una riscoperta della missionarietà propria dei voti religiosi. Vogliamo, perciò, ricercare la grazia e la responsabilità missionarie che sono insite nei voti e che da questi vengono sprigionate per il bene delle persone consacrate, della Chiesa e della stessa società umana.

In questo senso, desidero riprendere quanto accennavo nell’omelia per la Festa della Presentazione del Signore nel 2004. Il testo di partenza era la raccomandazione di Gesù: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone» (Mt 5, 16). E subito ponevo la domanda: «Ma quali sono le opere buone di voi, persone consacrate; le vostre opere illuminate da Cristo e illuminanti gli altri? E, dunque, qual è il contenuto della vostra missionarietà, la vostra testimonianza “propria e peculiare” nella Chiesa e nel mondo?». E rispondevo: «È la vostra stessa vita, la vita di ogni vostra giornata, la vita vissuta nella fedeltà limpida e generosa ai “voti”, che contraddistinguono la vostra consacrazione, come segni e impegni della sequela radicale di Cristo Signore». Concludevo con una speranza: «Spero di avere altra occasione per ritornare sull’argomento dei voti propri della vita religiosa: è un argomento che esige di essere affrontato con coraggio e soprattutto con un grande amore per Cristo e per la sua Chiesa».

È lo stesso percorso pastorale diocesano a offrirci questa occasione, dal momento che la tappa di quest’anno ci invita a leggere lo slancio missionario di ogni cristiano come coerenza con le beatitudini evangeliche e come presenza e azione nel mondo al servizio del Regno di Dio.

Sono senz’altro molteplici gli aspetti della missionarietà propria dei voti religiosi, ossia del dono e del compito di annunciare e testimoniare il Vangelo di Gesù mediante questi stessi voti. Vogliamo sostare in particolare su tre aspetti.

 

LA GLORIA DEL SIGNORE

BRILLA SU DI TE

 

Il primo aspetto indica la sorgente viva e permanente da cui scaturisce la missionarietà propria della consacrazione e dei voti religiosi. La sorgente è il Signore Gesù, lumen gentium, lux mundi.

È lui, Cristo, il missionario mandato nel mondo dal Padre, che ci raggiunge, ci penetra e ci trasforma nell’intimo del nostro essere e ci dà di partecipare alla sua eterna e totale consacrazione al Padre e alla sua vita di castità-povertà-obbedienza. Così, per un suo dono assolutamente gratuito – e di conseguenza per un compito da lui affidato alla nostra libertà e responsabilità –, Cristo ci conforma a sé, ci rende icona luminosa della sua vita, memoria vivente del suo modo di esistere e di agire. La “forma di vita” di Gesù diviene, nel segno della grazia e della responsabilità, la “forma di vita” della persona consacrata (cf. Vita consecrata 22).

Sono la castità, la povertà e l’obbedienza di Gesù ad affascinarci, a sedurci e a contagiarci, fino a rendercene fortunati partecipi da parte nostra, e, nello stesso tempo, a urgere nell’intimo di noi stessi per una imitazione sempre più limpida e per una partecipazione sempre più intensa della vita stessa di Gesù. Possiamo dunque dire che è dalla missionarietà di Gesù – ossia dal suo annuncio e dalla sua testimonianza di persona perfettamente casta-povera-obbediente – che sbocciano e maturano la nostra consacrazione e i nostri voti religiosi.

Ne consegue che, se i nostri voti religiosi hanno bellezza e luminosità, è perché queste ci sono state donate come eco e partecipazione immeritate della suprema bellezza e dell’infinita luminosità di Cristo. Per questo il profeta, dopo aver detto: «Alzati, rivestiti di luce», subito spiega: «perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla su di te» (Is 60, 1). E ancora: «perché il Signore sarà per te luce eterna» (Is 60, 20). Sì, tutto è grazia!

In questo senso, proprio vivendo i voti, la persona consacrata fa la sua confessio fidei e, insieme, la sua confessio laudis, per concludere con la sua confessio amoris. Con gli occhi illuminati dalla fede, ella riconosce con gioia e nello stupore che la sua castità, la sua povertà e la sua obbedienza sono il frutto della “grazia” di Cristo. Dalla fede poi è condotta, nella lode umile e grata, a glorificare il Signore, fonte di ogni dono. A glorificarlo non solo con le parole, ma con la vita quotidiana, quale risposta libera e amorosa al dono ricevuto.

 

NON C’È LUCE

SENZA COERENZA

 

Un secondo aspetto riguarda la missionarietà dei voti religiosi quale si sviluppa dentro la stessa persona consacrata: sia in chiave individuale, ossia da parte della singola persona nella sua unicità e irripetibilità; sia in chiave comunitaria, in rapporto cioè alla concreta “comunità” cui si appartiene, dalla congregazione o istituto come tali alla più piccola comunità nella quale si vive.

Leggiamo nell’esortazione apostolica post-sinodale Vita consecrata: «Il primo compito missionario le persone consacrate lo hanno verso se stesse, e lo adempiono aprendo il proprio cuore all’azione dello Spirito di Cristo… Le persone consacrate saranno missionarie innanzitutto approfondendo continuamente la coscienza di essere chiamate e scelte da Dio… al quale devono perciò rivolgere tutta la loro vita e offrire tutto ciò che sono e che hanno, liberandosi dagli impedimenti che potrebbero ritardare la totalità della risposta d’amore» (25).

La prima missionarietà non è, come si è soliti pensare, verso gli altri. È verso se stessi. Nel cuore di ciascuno di noi, infatti, ci sono sempre degli spazi che chiedono di essere ancora illuminati dalla luce di Cristo, di essere ricolmi il più possibile di fede sincera e di amore totale al Signore. Per questo il cuore del credente deve sentirsi costantemente impegnato a vincere le ricorrenti ombre di “incredulità” che possono insidiarlo e travolgerlo.

In termini molto semplici, ma estremamente concreti e coinvolgenti, dobbiamo allora dire che la prima missionarietà rivolta al proprio cuore esige la coerenza. Esige di “fare la verità”, di “incarnare l’ideale nel reale” della propria vita, ossia dei propri pensieri, sentimenti, comportamenti e gesti. Solo la coerenza di vita, mentre conferma in chi la vive la luce splendida della propria consacrazione fatta a Dio, sprigiona presso gli altri una luce capace di essere vista e di essere accolta per la sua forza di credibilità, incisività ed efficacia.

Una simile coerenza può essere faticosa e costosa, soprattutto in certi momenti della vita. Può esigere dunque un grande coraggio, una disponibilità anche a qualche forma di “martirio”. Per questo, la coerenza può essere minacciata dalla tentazione: la tentazione di indebolirla o di infrangerla. Senza dire della possibilità di un vero e proprio fallimento. Ma è necessario riprenderla e riaffermarla, questa coerenza limpida e integra, come prima e insostituibile forma di missionarietà, e così assicurare alla nostra consacrazione e ai nostri voti la loro forza profetica, il loro valore di segno luminoso. Sì, senza coerenza non c’è luce!

«Anche il loro stile di vita – leggiamo nell’esortazione rivolta alle persone consacrate – deve far trasparire l’ideale che professano, proponendosi come segno vivente di Dio e come eloquente, anche se spesso silenziosa, predicazione del Vangelo» (25). Non basta apparire come persone consacrate, bisogna essere persone consacrate. In questo senso sant’Ambrogio ci sollecita: «In voi non vi sia la somiglianza, ma la verità (in vobis non similitudo, sed veritas sit )» (Esortazione alla verginità, 81).

Abbiamo assoluto bisogno dell’aiuto di Dio per questa necessaria coerenza. E l’aiuto ci viene dalla preghiera umile e fiduciosa: «Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto» (Sal 4, 7).

Abbiamo grande bisogno, attraverso un serio impegno di vita spirituale, di un vivo e vigile senso di responsabilità. Il Signore ci dona la sua luce e, proprio per questo, ci chiede di aprire sempre più il nostro cuore, la nostra volontà e la nostra vita a lui e alla sua luce. Ce lo ricorda san Giovanni Crisostomo, che presentando la luce di Cristo afferma: «È luce invincibile, che non abita però volentieri nelle anime che non vogliono essere illuminate. E non ti turbi il fatto che non ha illuminato tutti, perché Dio si avvicina a noi non per necessità o per forza, ma per fede e libera volontà. Non chiudere la porta a questa luce, e godrai di una grande felicità. Questa luce ci viene per la fede, e, una volta venuta, illumina meravigliosamente chi la riceve e, se ti mantieni puro, rimane in te per sempre. Come infatti uno non può godere dei raggi del sole se non apre gli occhi, così non può essere pienamente partecipe di questo splendore se non spalanca gli occhi dell’anima» (Omelia su Giovanni, 5, 5).

 

I VOTI E IL VOLTO

LUMINOSO DELLE COMUNITÀ

 

Tutto quanto sinora abbiamo detto in chiave individuale, in rapporto alla singola persona consacrata, lo dobbiamo riprendere e specificare in riferimento alla comunità, che ritroviamo da un punto di vita istituzionale nella congregazione o nell’istituto come tali e – da un punto di vista più direttamente vitale, ossia nel concreto vissuto quotidiano – nella comunità più o meno piccola dove vivono le persone consacrate.

È vero che la consacrazione a Dio è un’avventura spirituale personale, personalissima. E, di conseguenza, tale è anche la vita vissuta secondo i voti di castità-povertà-obbedienza: il cuore di ciascuno di noi si incontra con il cuore di Dio che in Cristo ci ama, ci chiama alla sua sequela, ci costituisce «memoria vivente del modo di esistere e di agire di Gesù come Verbo incarnato di fronte al Padre e di fronte ai fratelli» (Vita consecrata 22).

Ma è anche vero che questi stessi voti hanno un significato comunitario, più propriamente ecclesiale: sono chiamati a plasmare il volto evangelico e spirituale delle comunità come tali. Come a dire che c’è una grazia del Signore e c’è una responsabilità umana che hanno come termine e come principio l’insieme delle persone consacrate. Il Signore dà una serie di grazie a ogni concreta comunità di consacrati. E, a sua volta, questa ha una sua propria responsabilità da assolvere di fronte a Dio e alla Chiesa per rendere veramente luminoso – in un vissuto quotidiano fedele ai voti professati – il volto della comunità stessa.

Non è affatto astratta la riflessione che sto proponendo, perché la stessa esperienza è quanto mai eloquente e stimolante al riguardo. Pensiamo ad esempio, nel segno della massima concretezza, a una comunità nelle cui strutture e nei cui comportamenti di vita sono presenti o assenti – e in misura ovviamente diversa – l’autentica povertà evangelica o un’obbedienza veramente liberante perché responsabile, che sole possono assicurare l’armonia interna e facilitare la tempestività e l’incisività dell’azione esterna della comunità stessa. In un senso o in un altro, è davvero in questione la sua reale luminosità, ossia la coerenza e testimonianza a Cristo Signore e al suo Vangelo.

È forse troppo chiedere che la comunità – cioè tutti, a partire da chi ha il servizio dell’autorità sino all’ultimo confratello o consorella – faccia un sereno e coraggioso esame di coscienza o, se si preferisce, un autentico discernimento evangelico? Può e deve applicarsi anche alla comunità delle persone consacrate l’appello di san Giovanni: «Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese» (Ap 2, 7). Così come anche ogni singola comunità è chiamata ad accogliere – ripetiamolo – l’invito del profeta: «Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce» (Is 60, 1).

Le persone consacrate sono chiamate, nei riguardi dell’intera comunità, ad aiutarsi, sostenersi, incoraggiarsi a vicenda nel vivere – nella logica della fedeltà e della generosità – i voti religiosi. Senza mai dimenticare, peraltro, la correzione fraterna, fatta con amore dolce e limpido per il bene di tutti.

Al di là poi di aiuti reciproci che si esprimono con parole e con gesti, si ricordi sempre il bellissimo “mistero” di cui Cristo continuamente arricchisce e adorna la sua Chiesa: quello della comunione dei santi, grazie alla quale si è potuto dire che «ogni anima che si eleva, eleva il mondo» (Elisabeth Leseur, Journal et pensèes de chaque jour, Paris 1918, p. 31). Per la verità, esiste anche – contrapposta a questa legge dell’ascesa – la legge della discesa, per cui il peccato di ciascuno si ripercuote in qualche modo sugli altri. Ricordo qui un’espressione di uno scrittore medioevale, lo Pseudo Aimone, che in un’operetta intitolata La caduta di una vergine consacrata scriveva: «La piccola nube di una sola peccatrice ha quasi oscurato la luce della Chiesa (Unius nubecola peccatricis pene lucem obscuravit Ecclesiae)» (De lapsu virginis consecratae, P.L. 16, 368 A).

Ma a vincere è il «mistero della pietà» (1 Tm 3, 16). E così l’impegno di ciascuno nel vivere fedelmente e generosamente i voti diviene grazia per tutti, fonte di santità per sé e per gli altri. Come scriveva san Basilio: «Nella vita comunitaria l’energia dello Spirito che è in uno passa contemporaneamente a tutti. Qui non solo si fruisce del proprio dono, ma lo si moltiplica nel farne parte ad altri e si gode del frutto del dono altrui come del proprio» (Le regole più ampie, Interrogazione 7).

 

UNA LUCERNA

SUL LUCERNIERE

 

Un terzo aspetto della missionarietà delle persone consacrate fa riferimento al loro essere inserite e coinvolte in modo attivo e responsabile nella vita della Chiesa e della società. Proprio qui, e non soltanto nell’intimo del proprio cuore; qui, nella e a favore della comunità cristiana e umana, sono chiamate alla missionarietà, all’annuncio del Vangelo e alla testimonianza di Gesù risorto. Come dice il Signore: «Voi siete la luce del mondo… Non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa» (Mt 5, 14-15). E la “casa” indica lo spazio concreto – piccolo o grande che sia, ma sempre aperto – della vita delle persone.

«Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini…» (Mt 5, 16). Nel nostro caso è in questione la luce immanente e irradiante dei voti di castità-povertà-obbedienza, luce che il Signore dona con la sua grazia alle persone consacrate e chiede loro di farla responsabilmente risplendere presso gli altri, presso le persone con cui entrano in relazione nei più diversi ambienti della vita ecclesiale e sociale.

Sì, la Chiesa e il mondo – nelle loro espressioni concrete e quotidiane – hanno il “diritto” di vederci innamorati e appassionati della nostra vita di persone consacrate e della nostra castità-povertà-obbedienza. Una vita così, del tutto fedele e coerente con il prezioso dono ricevuto, si configura come una profezia, meglio come un “vangelo”, ossia una “notizia buona e lieta”. Una vita come questa costituisce uno straordinario atto di amore per il mondo. Ciò è particolarmente vero oggi, quando – proprio sui valori che sono esaltati in modo tipico e forte dalla consacrazione a Dio e dai voti religiosi – le notizie che risuonano ogni giorno non sono né buone né liete. Pensiamo, ad esempio, alle interpretazioni, tremendamente impoverite e deformate, che comunemente e massicciamente, soprattutto tramite i media, vengono date sulla sessualità e sull’amore, sul possesso e sull’uso dei beni materiali, sulla libertà personale. In un simile contesto culturale, questo “vangelo” – ossia il vissuto evangelico delle persone consacrate – ha in se stesso una grande forza “critica”. Esso suona rimprovero, denuncia, condanna di uno stile di vita, che è non solo antievangelico ma anche e non poche volte antiumano. Nello stesso tempo, esso sviluppa fascino, attrazione, desiderio, contagio, coinvolgimento.

Rimandiamo alle pagine interessantissime e quanto mai attuali dell’esortazione Vita consecrata dedicate alle grandi sfide che soprattutto oggi toccano i consigli evangelici (cf. 87-92). Ci limitiamo qui a rilevare come il coraggio e l’entusiasmo delle persone consacrate nel vivere secondo il radicalismo evangelico la loro castità, povertà e obbedienza hanno un peso decisivo e insieme un’urgenza forte e indilazionabile per il problema vocazionale.

Quello delle nuove vocazioni alla vita consacrata è per tutti un problema molto sentito – voglio dire molto sofferto – di fronte alla rarefazione, se non talvolta al vero e proprio deserto di vocazioni. Non c’è dubbio che dobbiamo affrontare questo problema ben sapendo che anch’esso rientra nel disegno di Dio: Dio può permettere, nella vita della sua Chiesa, anche stagioni più o meno lunghe di sterilità di vocazioni alla vita consacrata. D’altra parte, questo stesso problema solleva l’impegno libero e responsabile dell’uomo.

E, in questo senso, perché non domandarci se non dobbiamo percorrere, con convinzione e determinazione, la strada di una più forte e rinnovata testimonianza legata ai voti di castità-povertà-obbedienza? In realtà, se la testimonianza della vita consacrata è troppo debole e non offre alternative forti al vissuto “normale” delle persone d’oggi, se questa testimonianza non marca la differenza con chiarezza, coraggio e decisione, come può riuscire a interessare e ad affascinare i nostri giovani e le nostre giovani?

Certo, si può obiettare che, in ultima analisi, a essere coinvolta e quindi a farsi protagonista è la libertà dei giovani stessi, la quale può opporre resistenza e rifiuto alla chiamata del Signore. Ma si deve pure rilevare che la libertà interviene in un senso o nell’altro a partire da determinate circostanze, da certe condizioni. È per questo che le persone consacrate hanno una loro necessaria, insostituibile e indelegabile parte da fare: quella di essere testimoni entusiasti, gioiosi, credibili e incisivi della bellezza e della felicità della vita consacrata a Cristo, dedita alla sua Chiesa e, proprio per questo, al servizio amorevole dell’uomo.

E se questo è vero per ciascuno dei voti religiosi, mi vado sempre più convincendo che è il voto di povertà evangelica a reclamare oggi con particolare forza una realizzazione più ardimentosa e rigorosa.

Proprio per questo ritengo necessario ritornare, in altra opportuna occasione, su questo importante e decisivo aspetto della vita consacrata oggi. In attesa di questo nuovo appuntamento, rivolgo già ora un pressante invito – che sento nascere dalla responsabilità propria del vescovo nei riguardi della Chiesa e delle vocazioni e dei doni che in essa si sviluppano – perché ogni congregazione o istituto di vita consacrata con i suoi membri sappia ascoltare, sul punto preciso della povertà evangelica, da un lato, la testimonianza profetica dei loro fondatori e delle loro fondatrici e, dall’altro lato, le richieste che nella situazione attuale lo Spirito rivolge alla Chiesa e, in particolare, alle persone consacrate.

O Signore, donaci le beatitudini degli “illuminati”

Vorrei concludere riprendendo l’immagine-realtà della luce, che ci ha guidato in questa omelia-meditazione.

Mi rifaccio a un testo con il quale la liturgia ambrosiana chiude il periodo del Natale, festa privilegiata della luce. Lo troviamo in un discorso sul battesimo di Gesù tenuto da san Gregorio Nazianzeno (330-389/390).

Per il vescovo di Nazianzo, «Dio di nessuna cosa tanto si rallegra, come della conversione e della salvezza dell’uomo». È per l’uomo – continua – che «sono state pronunziate tutte le parole divine» e «sono stati compiuti i misteri della rivelazione», tra i quali egli ricorda in particolare il battesimo di Cristo. E dice: «Cristo nel battesimo si fa luce: entriamo anche noi nel suo splendore; Cristo riceve il battesimo: inabissiamoci con lui per poter salire alla gloria». E dopo aver presentato il battesimo del Signore, commentando la pagina evangelica, così conclude: «Tutto è stato fatto perché voi diveniate come altrettanti soli, cioè forza vitale per gli altri uomini. Siate luci perfette dinanzi a quella luce immensa. Sarete inondati del suo splendore soprannaturale. Giungerà a voi, limpidissima e diretta, la luce della Trinità, della quale finora non avete ricevuto che un solo raggio, proveniente dal Dio unico, attraverso Cristo Gesù nostro Signore, al quale vadano gloria e potenza nei secoli dei secoli. Amen» (Discorso 39).

Nel pieno possesso della luce divina sta, dunque, il nostro fortunatissimo destino, sta la nostra somma beatitudine. È una beatitudine che, come dono immenso di Dio, è sì in attesa di colmarci per sempre il cuore, ma che ci sollecita già ora, giorno dopo giorno, ad aprirle il più possibile il nostro cuore. Sì, una “Beatitudine” di eternità, che si viene preparando e costruendo attraverso le “beatitudini” delle nostre giornate terrene.

Ce ne parla un sacerdote, Simeone il Nuovo Teologo (949-1022), che nella contemplazione della luce divina ha proposto di interpretare la vita cristiana come vita luminosa (cf. Trattati teologici ed etici 10).

Che il Signore, luce del mondo, doni anche a noi non solo di proclamare ma anche di vivere queste beatitudini: le beatitudini degli “illuminati”. Sì, «nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo».

Beati quelli che hanno accolto il Cristo venuto come luce nelle tenebre (Gv 1, 5), perché sono divenuti figli della luce e del giorno.

Beati quelli che ogni giorno si nutrono del Cristo, nella contemplazione e nella conoscenza, come il profeta Isaia del carbone ardente (Is 6, 6), perché saranno purificati da ogni macchia dell’anima e del corpo.

Beati quelli che ogni momento gustano questa luce ineffabile con la bocca dell’intelligenza, perché cammineranno con compostezza come in pieno giorno (Rm 13, 13) e passeranno il tempo nell’allegrezza.

Beati quelli che vivono stabilmente nella luce del Cristo, perché ora e nei secoli sono suoi fratelli e coeredi e lo saranno per sempre.

Beati quelli che hanno acceso la luce nel loro cuore e non l’hanno lasciata spegnere, perché dopo questa vita andranno con splendore davanti allo sposo (1 Tess 4, 17) e, portando le fiaccole, entreranno con lui nella camera nuziale (Mt 9, 15).

Beati quelli che si sono avvicinati alla luce divina, vi sono penetrati e sono divenuti interamente luce fondendosi con essa, perché si sono spogliati interamente del loro abito di impurità e non piangeranno più lacrime amare.

Beati quelli che vedono la loro veste brillare come se fosse il Cristo, perché subito saranno colmati di una gioia ineffabile; e, nella loro costernazione, piangeranno di felicità davanti alla prova che sono già divenuti figli ed eredi della risurrezione.

 

Dionigi card. Tettamanzi