I DEHONIANI E LA VII CONFERENZA GENERALE
IN CAMMINO VERSO LA GENTE
In vista di
questa conferenza generale, tutta la congregazione sarà coinvolta nella
riflessione per vedere come infondere nuovo impulso all’impegno missionario, in
particolare alla missione “ad gentes”, e delineare i criteri pratici da
seguire.
La congregazione dei padri dehoniani – sacerdoti del Sacro
Cuore di Gesù – si sta preparando a celebrare la sua VII Conferenza generale
che avrà luogo in Polonia, a Varsavia, dal 16 al 24 maggio prossimo. La
Conferenza è un organismo di consultazione previsto dalle costituzioni come
strumento di dialogo e di corresponsabilità di tutta la congregazione in vista
del bene comune.
Indetta con un anno di anticipo, nel maggio del 2005, dal
superiore generale, p. José Ornelas Carvalho, avrà come tema, secondo le
indicazioni del XXI capitolo generale del 2003, Dehoniani in missione “ad
gentes”. Tre sono gli obiettivi che si propone: coinvolgere la congregazione in
una riflessione sull’attività missionaria; dare nuovo impulso all’impegno
missionario all’interno della congregazione; tracciare i criteri e orientamenti
pratici per l’impegno in missione.
In un momento in cui l’istituto è in espansione nelle
regioni dell’Asia e dell’Africa, nonostante la scarsità di vocazioni nelle
province dell’Europa e dell’America, pur sapendo che oggi la missione è
dovunque, anche qui nei nostri ambienti, si è voluto privilegiare per questo
incontro la missione ad extra, ossia quella della internazionalità e
dell’interculturalità. Sono questi infatti gli aspetti che la congregazione sta
attualmente affrontando nel suo sevizio al Regno, per rispondere al quale
avverte urgente una maggiore preparazione e il reperimento degli strumenti
adatti.
Nello Strumento di lavoro¸ preparato da un’apposita
commissione, vengono spiegate le ragioni di questa rinnovata attenzione alla
missione, soprattutto a quella ad gentes. Essendo la congregazione stata
suscitata dallo Spirito nella Chiesa per il bene di tutti, il servizio alla
missione è per essa costitutivo. Ciò è in sintonia con quanto affermano le
costituzioni: «L’attività missionaria è per esso (l’istituto) una forma
privilegiata del servizio apostolico» (Cst. 31).
In definitiva essa si ricollega con le radici stesse della
sua spiritualità, ossia con quello “spirito di oblazione” che la caratterizza e
che predispone alla disponibilità per abbandonare le sicurezze che derivano da
una cultura conosciuta, per staccarsi dall’ambiente familiare, dalla propria
terra per andare a portare il messaggio del Vangelo in ogni parte della terra.
Inoltre si riallaccia anche con l’altro polo della sua spiritualità che è lo
“spirito di riparazione” che invita a un impegno per cercare di porre rimedio
ai tanti mali causati dal rifiuto di Dio e che appunto nella missione ad gentes
trova un’espressione significativa e provocatoria. Pertanto, come rileva lo
strumento di lavoro, «la missione ad gentes ci aiuta a vivere la nostra
vocazione e, a sua volta, la nostra spiritualità ci spinge alla missione e la
caratterizza… Per noi la missione ad gentes rappresenta anche un impegno di
fedeltà allo spirito di p. Dehon, al suo desiderio di collaborare alla venuta
del Regno e un’opportunità per radicare e attuare il processo di rifondazione
che vogliamo percorrere». In forza di questo spirito, pertanto, il missionario
dehoniano deve sentirsi spinto a fare della propria vita un dono e a impegnarsi
a costruire il regno di Dio “nelle anime e nella società”, come diceva il
fondatore.
Questa rinnovata spinta missionaria, inoltre, si inserisce
il quel nuovo slancio missionario auspicato da Giovanni Paolo II, il quale
nell’enciclica Redemptoris missio così scriveva: «Il numero di coloro che
ignorano Cristo e non fanno parte della Chiesa è in continuo aumento… Per
questa umanità immensa, amata dal Padre che per essa ha inviato il suo Figlio,
è evidente l’urgenza della missione» (RM 3). Un argomento su cui lo stesso
pontefice è ritornato nuovamente con rinnovata convinzione al termine del
grande giubileo del 2000 con la lettera apostolica Novo millennio ineunte dove
scriveva: «La Chiesa, pertanto, non si può sottrarre all’attività missionaria
verso i popoli, e resta compito prioritario della missio ad gentes l’annuncio
che è nel Cristo, «Via, Verità e Vita» (Gv 14,6) che gli uomini trovano la
salvezza» (56), e invitava a spingersi al largo a gettare le reti.
METTERSI
IN CAMMINO
Su questo impegno della congregazione nella missione ad
extra, in vista della prossima Conferenza generale, si è soffermato a lungo
anche il superiore generale, p. J. Ornelas, nell’omelia della solennità
dell’Epifania di quest’anno. Attirando l’attenzione sul modo con cui Gesù
annunciava il Vangelo, ha affermato che egli non rimaneva ad aspettare che la
gente andasse da lui. Nella dinamica propria dell’incarnazione, era lui che
andava incontro a loro nel posto e nella situazione in cui si trovavano. Sapeva
di essere portatore di qualcosa di molto importante e non si fermava. Dal
racconto dei vangeli sinottici su questo primo annunzio di Gesù si ricava
l’idea di un continuo andare da un luogo all’altro, da un popolo all’altro,
perché per tutti lui era stato inviato.
Un altro tratto importante dell’atteggiamento di Gesù è costituito
dai gesti che accompagnavano la sua parola: Gli conducevano i malati, gli
afflitti da malattie e dolori… ed egli li guariva (Mt 4,24). Quest’annunzio per
lui non è soltanto parola di consolazione e di speranza. È accompagnato da
gesti concreti di interesse e da guarigione, che fanno sentire che Dio è
veramente vicino, che s’interessa dei dolori dei suoi figli e viene loro
incontro portando salvezza e cambiando la realtà in cui vivono.
Padre Ornelas, ha voluto quindi attirare l’attenzione sul
fondamento stesso della missione. Gesù, ha detto, prima di iniziare la sua
missione s’inoltra nel deserto per lasciarsi guidare dal Padre nelle sue parole
e nelle sue azioni. Nel momento del battesimo al Giordano i cieli si aprono e
si ode la voce del Padre, mentre si manifesta la presenza dello Spirito. Queste
manifestazioni, ha sottolineato il padre, non sono un episodio isolato, ma
l’espressione della comunione di Gesù con il Padre, alimentata da una
solitudine popolata dalla sua presenza consolatrice e illuminante. «Questo è il
punto di partenza della missione: Dio. Chi non lo trova non annunzia niente.
Potrà fare discorsi, ma non porta il Vangelo. Non c’è apostolo senza colui che
lo invia; non si possono proferire parole di Dio se non lo si ascolta. Questo è
il fondamento della nostra missione: tornare a Dio; ascoltare per parlare;
ritrovare la solitudine del deserto per poter annunziare buone notizie». Solo
dopo il missionario può mettersi in cammino.
E la missione di Gesù è proprio un continuo mettersi in cammino.
Missione pertanto significa andare incontro alla gente, ossia, come diceva
anche p. Dehon, uscire dalle sagrestie e andare là dove si trova la gente.
Pertanto, ha commentato p. Ornelas, «Non possiamo ridurre la nostra vita a
essere dispensatori di servizi religiosi, aspettando che la gente venga da noi.
Forse, particolarmente nei nostri paesi di tradizione cristiana, ci siamo
abituati all’idea di cristianità, abbiamo organizzato il nostro servizio
religioso e continuiamo a pensare che il mondo intorno a noi continui a essere
cristiano. Ma non è vero. Se continuiamo ad aspettare nelle nostre chiese, ci
troveremmo con un gruppo sempre più piccolo e invecchiato di persone. Bisogna
cambiare modello, mettersi sulla strada della nostra gente».
APERTURA
ALLA MISSIONE UNIVERSALE
L’Epifania, ha proseguito p. Ornelas, è la festa
dell’universalità. Questo aspetto della festa liturgica gli ha offerto lo
spunto per entrare nel tema specifico della prossima conferenza generale. Nel
tema cioè dell’universalità, che appare anche in quanto Gesù ha detto ai suoi
discepoli: “Andiamo altrove, nei villaggi vicini, per predicare anche là. Per
questo, infatti, sono venuto” (Mc 1,28). Questa, ha sottolineato il padre, è
una caratteristica della missione che ha una grande tradizione nella
congregazione dehoniana «ma che deve essere aggiornata alla luce delle
condizioni attuali». In altre parole, «l’idea che il missionario è qualcuno che
proviene soprattutto dall’Europa ed è diretto ai paesi del sud del pianeta, non
è più attuale. Oggi la nozione di “paesi di missione”, come concetto
geografico, ha necessità di essere rivista. La missione ad gentes è in tutto il
mondo e i missionari del vangelo partono da tutto il mondo e in tutte le
direzioni… Come tradizione della congregazione e come dovere di contribuire
all’universalità della missione ecclesiale, nessuna entità della congregazione
può essere veramente adulta se non partecipa a questa missione generale
dell’istituto… Se rimaniamo autarchicamente chiusi nelle nostre province,
moriremo e non daremo alla Chiesa quello che Dio chiede».
Naturalmente «non vogliamo un turismo missionario»; ciò che
occorre è piuttosto «un vero interscambio di persone tra di noi, che sia
testimonianza dell’universalità della Chiesa di cui facciamo parte, espressione
di solidarietà ministeriale e nello scambio di esperienza ecclesiale nei
diversi contesti culturali».
L’universalità e la multiculturalità sono del resto anche un
dato di fatto del mondo d’oggi che la globalizzazione ha cooperato ad accentuare.
Purtroppo questo fenomeno è spesso accompagnato da nuove discriminazioni e
divisioni e persino da odio, tutte cose che mettono a rischio la pace nel
mondo. Come diceva Giovanni Paolo II, occorre dare un cuore a questa
globalizzazione. Noi, come congregazione, ha commentato p. Ornelas, «abbiamo un
ruolo importante in questa universalità. Siamo per natura una comunità
internazionale e multiculturale. Abbiamo sempre avuto l’incontro di culture nel
mondo delle missioni. Quello che è nuovo oggi è la progressiva multiculturalità
dentro le nostre province e comunità. È qui che impariamo a dare un cuore alla
globalizzazione».
I TRE SEGNI DELL’EPIFANIA
E LA NOSTRA MISSIONE
I magi, leggiamo nel vangelo, portano a Gesù oro, incenso e
mirra. Sono tre segni, ha sottolineato p. Ornelas, che esprimono bene anche il
senso della nostra missione.
Anzitutto l’oro: «Il dono dell’oro ha un valore simbolico.
L’oro è simbolo del valore e della preziosità. Per il Vangelo, l’importante non
è sicuramente l’oro come valore contante, anche se i mezzi finanziari hanno un
ruolo rilevante nell’annunzio. Quello che di più prezioso abbiamo sono le
persone. Preziosa per la missione è la varietà delle persone, delle lingue e
delle culture. Di insostituibile valore è la ricchezza di ognuno, nella
diversità delle capacità e dei doni di Dio; utili sono anche i limiti dei
missionari, quando sono occasione di apertura alla misericordia e alla forza
dello Spirito di Dio e all’appello alla collaborazione degli altri.
È questo che portiamo oggi come partecipazione al mistero
dell’incarnazione: noi stessi al servizio della missione. Questa è
l’espressione della disponibilità dehoniana per mettersi in cammino per la
missione».
In secondo luogo, l’incenso: « L’incenso è, in tutte le
culture che lo utilizzano, il profumo per eccellenza dedicato a Dio. Nella
Bibbia è soprattutto simbolo della preghiera che sale verso il cielo.
Portiamo l’incenso della nostra preghiera, del nostro
desiderio di comunione con Dio, per ascoltare la sua voce e per essere capaci
di dire agli altri le sue parole, come portatori di buone notizie; l’impegno di
farci ascoltatori di Dio, per essere profeti del suo amore.
In questo modo, come vedeva Paolo, la missione stessa -
l’annuncio del Vangelo, anche a costo della vita e l’accettazione di quelli che
vi aderiscono - diventa una “liturgia”, un “gioioso sacrificio” a Dio (cf. Fil
2,17)».
Infine la mirra: «La mirra veniva usata per imbalsamare i
corpi dei morti, cercando di sottrarli alla legge della corruzione e della
scomparsa. È chiaramente il richiamo al mistero pasquale, di morte e
risurrezione, tramite il quale si compie la missione.
Non andiamo a conquistare niente e nessuno; andiamo a
proclamare e offrire l’amore e la vita di Dio. Non imponiamo né facciamo
violenza, ma facciamo della nostra vita un dono ai fratelli e sorelle in tutto
il mondo. Con Cristo, diventiamo pane spezzato per gli affamati, consolazione e
speranza per gli afflitti, annunzio giustizia, dignità e pace, per il mondo,
anche a prezzo della nostra vita.
Questa è la nostra oblazione: il dono della vita al servizio
del Vangelo, che contiene in sé anche l’annunzio della risurrezione, secondo la
matura espressione del missionario nella seconda lettera a Timoteo: “Quanto a
me, io sono già versato in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le
vele” (2 Tim 4,6)».
ACCENTUARE
LA FORMAZIONE
Questa visione della missione ad gentes e della sua
universalità, pur non essendo nuova nella congregazione dehoniana, ha però
bisogno, come ha affermato il superiore generale, di essere rivisitata. Ecco
quindi l’importanza della formazione. Lo strumento di lavoro in vista della
conferenza generale di maggio, afferma infatti che l’impegno in questo genere
di missione richiede una lunga preparazione che deve pervadere tutte le fasi
della formazione. Cominciando da quella iniziale, per formare i nuovi candidati
a una spiritualità di unione con Cristo e alla sua oblazione; deve estendersi
alla vita comunitaria, per imparare a progettare, realizzare e valutare
insieme; deve tendere a sviluppare le qualità umane che sono alla base per il
dialogo la disponibilità e il servizio; inoltre deve aiutare ad approfondire la
dimensione apostolica del carisma e la conoscenza e il rispetto della propria
identità culturale e dell’interculturalità; infine, deve educare alla comunione
inter-provinciale e al senso della congregazione. A questo scopo, vengono
suggeriti anche alcuni itinerari per favorirla, tra cui anche uno stage
missionario durante il periodo formativo.
Lo strumento di lavoro quindi insiste anche sull’importanza
di una formazione specifica e permanente di coloro che si impegnano nella
missione ad gentes ; inoltre sull’animazione missionaria e la collaborazione
con i laici.
Sono suggerimenti che la Conferenza generale dovrà esaminare
per indicare poi a tutta la congregazione le nuove strade da percorrere.
A. Dall’Osto