UNA VIRTÙ DA RISCOPRIRE
SEMPLICITÀ FA RIMA CON VERITÀ
La semplicità è
una condizione indispensabile per essere in un rapporto luminoso e sereno con
se stessi, con Dio e con il prossimo. Chi la vive possiede una meravigliosa
libertà; è una sorgente da cui promana gioia e fiducia.
Ci sono diversi modi di descrivere la semplicità: essa può
essere definita autenticità, integrità, genuinità, passione per la verità.
Vincenzo de’ Paoli, quand’era un po’ avanti negli anni, la scelse come stella
che lo guidasse a conoscere ciò che doveva dire e fare. «È la virtù che amo di
più», scrisse a un suo amico sacerdote, François de Coudray; e alle Figlie
della carità, l’istituto fondato da Louise de Marillac: «Essa è il mio
Vangelo».
Padre Robert Maloney, ex superiore generale per due mandati
successivi della congregazione della Missione, parlando della semplicità nella
rivista Review for Religious1 ne traccia un parallelo mettendola in relazione
con la verità. La semplicità, scrive, consiste “nell’essere nella verità”. E
coloro che la vivono, possiedono una meravigliosa libertà; sono persone che
emanano gioia e serena fiducia.
Per le persone semplici, osserva, il regno di Dio diventa il
punto focale della loro vita, l’ideale che integra tutto quello che sono e che
fanno. Certamente, osserva il padre, la crescita nella semplicità davanti a
Dio, nella purezza di intenzione, è un processo che dura tutta la vita. La
nostra peccaminosità interrompe la nostra unità con le intenzioni di Dio. A
volte ci sono degli obiettivi limitati, come per esempio la promozione di sé,
che ci distraggono da questa limpidezza di ricerca del regno di Dio; peggio
ancora, possono sostituirsi a esso. Nella nostra condizione di peccato, noi non
siamo in grado di racchiudere la nostra vita in un’opera compiuta una volta per
sempre. Anche coloro che sembrano esservi riusciti cadono spesso, e a volte
molto malamente. La nostra intergità finale viene solo dall’amore
misericordioso e sanante di Dio. È un dono.
La semplicità è verità. Essa ha un’importanza enorme nelle
relazioni umane e coincide con l’onestà. L’uomo, scrive p. Maloney è un essere
socievole. Le relazioni umane perciò non sono un’aggiunta alla sua natura. Esse
aiutano un individuo a diventare ciò che egli è, formandolo gradatamente. Avere
degli amici, innamorarsi, formare una famiglia, entrare a far parte di una
comunità, essere membro di una nazione, di un’istituzione, di un movimento:
tutte queste forme di unione con gli altri sono possibili solo se c’è una
comunicazione basata sulla verità, da cui deriva come consequenza la fiducia.
Nei rapporti di fiducia con gli altri, la semplicità ha il
suo significato più ovvio nell’onestà. La fiducia nella parola di un altro è la
condizione per poter vivere insieme, per l’amicizia, il matrimonio, la
comunità, le cooperazioni commerciali, e ogni altro genere di relazioni. La
menzogna provoca la disintegrazione delle comunità, la rottura dei matrimoni,
la caduta dei governi. Essa non è solo verbale; può esprimersi anche con i
fatti. I matrimoni falliscono a causa dell’infedeltà. Le famiglie crollano a
causa di interessi occulti e contrastanti. Le amicizie si disfano a causa del
tradimento occulto.
Essere nella verità vuol dire invece tenere unite le
persone, mentre la falsità divide. In una parola: la semplicità unisce; la
doppiezza divide.
Per quanto sia necessario, osserva p. Maloney, dire la
verità con coerenza nella vita religiosa è difficile. Noi siamo infatti tentati
di offuscarla per convenienza o per imbarazzo. È difficile essere sempre fedeli
alla propria parola quando le circostanze cambiano. Sul momento le nostre
affermazioni possono essere in se stesse vere o false. Ma se ci si impegna per
il futuro, saranno vere solo se si mantengono. In definitiva la verità è
fedeltà. È in questo senso che Gesù è vero con noi. Egli promette di essere con
noi ed effettivamente lo è, fino alla fine. Anche noi siamo chiamati a essere
veri alla stessa maniera: ai voti, all’amicizia al nostro impegno a servire.
La semplicità, prosegue p. Maloney, ci invita all’integrità,
all’autenticità.
Ma nel cammino verso la pienezza spesso facciamo
l’esperienza della nostra fragilità. Avvertiamo un’intima contraddizione,
qualcosa di rotto, delle fratture nella nostra personalità. Spesso cadiamo a
pezzi. La filosofia, la psicologia e la sociologia hanno descritto queste
polarizzazioni che la persona avverte dentro di sé: corpo/spirito,
sentimento/pensiero, cuore/mente, inconscio/conscio.
Essere veri con se stessi non è così facile come sembra.
L’accurata conoscenza di sé è rara. Eppure essa è essenziale nella vita. Il
filosofo Wittgenstein (1889-1938) osservava: «Voi non potete scrivere di voi
stessi nulla di più veritiero di ciò che voi stessi siete. C’è una differenza
tra lo scrivere di voi stessi e scrivere di cose esteriori. Non state su dei
trampoli o su una scala ma a piedi per terra».
CONFESSIONE
E DIREZIONE SPIRITUALE
Per una conoscenza di sé mezzi molto importanti sono la
confessione e la regolarità di quella che chiamiamo la “direzione spirituale”.
Un confessore perspicace o una guida spirituale sono come uno specchio che
riflette su di noi ciò che non siamo in grado per quel che ci riguarda. In una
relazione del genere, dire la verità è essenziale. Noi scegliamo un’ “anima
amica” in modo che con il suo aiuto possiamo crescere nella vita spirituale e
discernere quelle cose che promuovono il regno di Dio. È essenziale, perciò,
che questa relazione sia caratterizzata dall’apertura di sé, evitando di tenere
degli “angoli nascosti” della nostra vita. Abbiamo bisogno di sentire l’eco di
ciò che sta o non sta avvenendo nel nostro viaggio verso il Signore. La qualità
della guida spirituale dipende ampiamente dalla semplicità con cui ci apriamo.
I filosofi e i teologi, osserva p. Maloney, hanno
riconosciuto fin dai primissimi tempi che l’esistenza umana è inseparabile
dalla materia. Noi non siamo puri spiriti, abbiamo un corpo. Il filosofo
Merlau-Ponty (esponente dell’esistenzialsimo) ci ricorda: «Io sono il mio
corpo». Noi siamo riferiti alla terra e dipendiamo dalla terra, come ci mostra
il libro della Genesi nel racconto della creazione. Il cibo, l’acqua, l’aria,
la luce del sole e gli altri elementi nutrono la nostra esistenza. Perciò, se
vogliamo essere nella verità verso Dio in quanto creatore, con noi stessi come
esseri incompleti e con gli altri dobbiamo essere nella verità anche con
l’universo creato. In altre parole, l’essere pienamente umani implica anche
aver cura della terra. In termini più ampi, vuol dire prendersi cura
dell’universo che ci circonda, le cui proporzioni sono stupefacenti e persino
incomprensibili a noi.
Noi non abbiamo una teologia ecologica esauriente, ma alcune
suoi fondamenti sono del tutto visibili e hanno fatto parte per secoli della
tradizione cristiana: la presenza di Dio in tutta la creazione; la bontà di
tutto ciò che Dio ha fatto; la provvidenza di Dio nell’accompagnare la storia e
la continua creazione; la gratitudine, la meraviglia, la contemplazione e la
cura dei doni di Dio come risposta a questi suoi doni.
SEMPLICITÀ DELLA COLOMBA
PRUDENZA DEL SERPENTE
Pur avendo un punto di riferimento ben chiaro – una “stella
guida” – la vita cristiana è piena di paradossi: iniziativa-obbedienza,
flessibilità-stabilità… creatività-umiltà, servire-governare,
semplicità-prudenza… Il vangelo di Matteo riconosce che la semplicità della
colomba deve convivere nella stessa persona con la prudenza del serpente. Del
resto anche il senso comune e la prudenza insegnano che non sempre si può dire
chiara e tonda la verità. L’esperienza ci dice che virtù quali la veracità, la
carità e il rispetto della privacy e del buon nome degli altri a volte sono in
conflitto tra di loro. Nei momenti di evidente conflitto, è la prudenza che ci
mette in grado di equilibrare e armonizzare queste virtù contrastanti.
Nel corso dei secoli, i moralisti hanno scritto interi
volumi sui dilemmi che sorgono circa il dire la verità. Qui basti solo qualche
accenno.
La verità viene da Dio. è riferita alla bellezza. Ma il modo
di dire le “verità” a volte può essere brusco, freddo, arrogante. Affermazioni
quali: «Ora te la dico io la verità!» possono essere una facile scusa per usare
parole aspre o per dare sfogo alla propria rabbia. Nella tradizione cristiana,
al contrario, la verità e l’amore sono inseparabili. Crescere nell’amore vuol
dire penetrare nella verità profonda della persona che si ama, comprendere gli
altri non tanto in superficie, ma in profondità.
Allo stesso modo, crescere nella verità significa muoversi
verso una comunione più profonda, superare le difficoltà, “ cercare la verità
più grande che abbracci la mia e quella degli altri” come ebbe a dire p.
Timothy Radcliffe. Nella ricerca della verità c’è una delicata interazione tra
mente e cuore. Come disse Pascal: «Il cuore ha delle ragioni che la ragione non
conosce». Lo esperimentiamo in una quantità di cose. E Antoine de Saint-Exupéry
nel Piccolo Principe esprime la medesima convinzione: «Solo con il cuore uno
può vedere giustamente; ciò che è essenziale è invisibile all’occhio».
Il problema è, sottolinea p. Maloney, che a volte alcuni
usano “la verità” per massacrare gli altri. Col pretesto di essere sinceri, si
distrugge la verità con “la verità”. Dietrich Bonhoeffer, egli stesso martire
della verità, scrisse: «Se staccata dalla vita e dal suo riferimento all’altra
persona concreta, se “la verità è detta” senza tenere presente colui a cui è
indirizzata, allora questa verità ha solo l’apparenza di verità, manca del suo
carattere essenziale. Solo il cinico ha la pretesa di “dire la verità” sempre e
in ogni luogo a tutti allo stesso modo; in realtà egli non mostra altro che
un’immagine inerte della verità. Si circonda dell’alone del fanatico devoto
della verità che non può concedere nulla alla debolezza umana; in realtà, egli
distrugge la verità che vive tra le persone. Ferisce la vergogna, dissacra il
mistero, rompe la fiducia, tradisce la comunità in cui vive, e ride
arrogantemente della devastazione che ha creato e della debolezza umana che
“non è capace di sopportare la verità”».
Dobbiamo imparare, rileva p. Maloney, a dire la verità
tenendo conto di altre verità: la dignità della persona, la loro debolezza
umana come pure la nostra, l’amore che deve caratterizzare ogni relazione
cristiana. La nostra dichiarazione della verità deve armonizzarsi con queste
altre verità. Dire la verità pertanto è un’arte delicata più che un corpo
contundente.
Molto presto nella vita si impara che a volte è dannoso dire
la verità. Fin da piccoli ci è stato insegnato che certe cose personali e
riguardanti la famiglia sono private; gli altri non hanno il diritto di
conoscerle. A mano a mano che si cresce, gli amici cominciano a confidarci dei
segreti. Quando nascono dei problemi nella nostra vita, sentiamo il bisogno di
parlarne con qualcuno, ma solo a condizione che ciò che diciamo sia ritenuto
strettamente confidenziale. Del resto l’esperienza umana universale ha prodotto
una ampia letteratura di carattere etico e legale sul dire la verità, la
segretezza e la confidenzialità. I confessori e i direttori spirituali, i
medici e le infermiere, gli psichiatri e i consulenti, gli avvocati, le
segretarie, i giornalisti e molti altri sono vincolati, in varie circostanze e
entro determinati limiti al segreto professionale.
Paradossalmente, sottolinea p. Maloney, noi abbiamo
l’obbligo morale di dire la verità, ma a volte abbiamo anche l’obbligo di non
dire la verità. Ciò capita spesso nella vita religiosa, in cui altri ci
confidano problemi di coscienza e dove ci sono diversi “problemi di famiglia”
che sono privati e devono rimanere all’interno della comunità. Come allora
proteggere queste verità private e persino “sacre”?
Ovviamente il modo più efficace è il silenzio. In alcune
circostanze, di fronte a certe richieste inopportune, dobbiamo rispondere
educatamente, ma anche con fermezza: «Mi dispiace, ma non sono libero di
parlare di queste cose. Spero che lei capisca». Altre volte si può rispondere
anche con un po’ di umorismo in maniera evasiva.
Per secoli filosofi e teologi hanno insegnato che ci sono
situazioni in cui il silenzio e un atteggiamento evasivo rendono le cose ancora
peggiori e in cui sembra che la cosa migliore consista nel dissimulare la
verità. Per risolvere questo dilemma Tommaso d’Aquino ha parlato di “riserva
mentale”. Altri sono ricorsi alla teoria secondo cui si può comunicare ciò che
si sa a chi ha diritto di saperlo, escludendo quindi quanti non hanno questo
diritto. Ma ambedue le teorie, osserva p. Maloney, sono insufficienti e hanno i
loro punti deboli, anche se riconoscono che a volte si ha l’obbligo morale di
“proteggere” la verità e quindi di mettere fuori gioco domande inopportune o
inappropriate, anche fuorviando chi le pone.
In definitiva, sottolinea ancor il padre, per quanto sembri
strano, dire la verità è qualcosa che si deve imparare. Ogni parola ha il suo
posto, il suo tempo, i suoi ascoltatori. Molto dipende da chi mi invita a
parlare e da ciò che mi abilita a parlare. Ma la verità non solo deve avere il
suo tempo, il suo posto e l’ascoltatore adatto, ma anche una sua pedagogia.
Certe verità hanno il loro “momento” nella storia. Victor Hugo ebbe a dire una
volta che quando per un’idea è giunto il suo tempo, nessun esercito vi può
resistere. Bisogna quindi attendere il momento opportuno e il posto giusto. Non
solo, ma è importante anche sapere come presentarla. La poetessa statunitense
Emily Dickinson (1830-1886) diceva: «Di’ tutta la verità, ma dilla di striscio…
La verità deve risplendere gradatamente».