IL RITORNO DELLA QUARESIMA

TEMPO DI CONVERSIONE

 

La quaresima è un tempo privilegiato nel cammino cristiano. È tempo di conversione. Ma non tutti si rendono conto di averne bisogno, perché bene o male portano avanti i loro impegni cristiani. In questo modo rischiano di giungere alla Pasqua senza che nella loro vita sia successo nulla.

 

Nella spiritualità cristiana la quaresima è un tempo turgido di vita come le piante che si preparano a germogliare con la primavera. Sullo sfondo c’è la Pasqua con il compimento di una speranza inaudita: nel Risorto siamo destinati a risorgere e con lui condividere per sempre la vita divina.

Prima della risurrezione del corpo c’è la rinascita della persona come “creatura nuova” (2Cor 5, 17), a immagine di Dio. Un cammino che vede nel periodo quaresimale il momento favorevole, stando a quanto dice la liturgia attraverso il testo paolino: “Fratelli vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio. Egli dice infatti: Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso (Is 49, 8). Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza” (2Cor 6,1-2). È il periodo propizio per un profondo rinnovamento di tutto l’essere in vista delle feste pasquali.

Ora, il rinnovamento comporta una trasformazione. E proprio per cogliere più profondamente il cammino quaresimale, vorrei porre sullo sfondo una considerazione di Benedetto XVI il quale, presentando la sua lettera Deus charitas est, nel corso di un incontro promosso da Cor unum, confessava di aver scelto come tema della sua prima enciclica l’amore in quanto voleva tentare di esprimere, per il nostro tempo e la nostra esistenza, qualcosa di quello che Dante nella sua visione ha ricapitolato in modo audace. Il poeta parla infatti di una “vista” che “s’avvalorava” mentre egli guardava e lo mutava interiormente (cf. Paradiso, XXXIII, vv. 112-114). Poi il papa ha proseguito: «Si tratta proprio di questo: che la fede diventi una visione-comprensione che ci trasforma» (Discorso del 23 gennaio 2006).

A questa stupenda intuizione facciamo riferimento nel rimetterci davanti all’invito quaresimale del “convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1, 15), fino a ricostruire la propria persona sui valori cristiani e a ritrovarsi man mano con uno sguardo interiore conformato a quello del Signore Gesù.

 

PER GUARDARE

CON OCCHI NUOVI

 

I grandi convertiti hanno esperienza di una luce misteriosa che ha trasformato la loro vita. In realtà si è trattato di un incontro con Cristo, come dice bene la figura emblematica di san Paolo, rimasto come abbagliato sulla via di Damasco. Quella luce dà uno sguardo nuovo sulla realtà, sulle persone, sulle cose; ma poi pian piano richiede tutto un adeguamento della persona alla verità contemplata, un lasciarsi “adattare” alla nuova condizione di figli della luce.

Ma non esistono solo i casi clamorosi di coloro che hanno ritrovato Dio. Quando il ritorno del tempo pasquale ci parla di conversione, vuole intendere la necessità di quel continuo esodo da noi stessi senza il quale non è possibile orientarsi verso la pienezza dell’incontro con Dio-Amore. E anche questo è questione di luce: una luce che mentre attrae fa cogliere nello stesso tempo la distanza dalla santità di Dio.

Tutti i santi si sono sentiti grandi peccatori e fino in punto di morte hanno chiesto preghiere per la loro conversione. Proprio chi è più vicino a Dio acquisisce quell’anima ecclesiale che lo fa identificare alla Chiesa, santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, per cui avanza continuamente lungo il cammino della penitenza e del rinnovamento (cf. Lumen gentium, 8).

Quindi la conversione riguarda ogni persona: “Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo” (Lc 13, 3). Non è una minaccia da parte del Signore Gesù, ma un educarci al convincimento che per la vita cristiana la conversione è sempre irrinunciabile ed è sempre possibile. Tuttavia non è facile rendersene conto. In tanti pensano di non averne bisogno perché non solo sono cristiani, ma anche praticanti; tanto più questo può avvenire quando si è consacrati e, bene o male, si portano avanti gli impegni del proprio stato di vita. Camminando in questo modo può succedere che arrivi la Pasqua e non si riesca a coglierne il fulgore con occhi nuovi.

Allora bisognerà coniugare il concetto di conversione con quello di impegno alla santità. Certo, ci sono vari livelli di conversione, ma questa comporta sempre il passaggio dalla consapevolezza di ciò che siamo davanti a Dio a ciò che possiamo diventare con lui: quell’essere in Cristo che dà risorse divine al nostro vivere. Di qui il cammino verso un di più di vita evangelica mai definitivamente raggiunto.

L’adeguamento del nostro essere al dono della vita divina non si dà senza una luce interiore. Giorno dopo giorno la parola di Dio, la preghiera costante alimentata dalle virtù infuse, la presenza silenziosa della grazia aprono gli occhi dello spirito e trasformano il nostro vivere. Siamo in un divenire.

Lo dice bene il percorso dell’amore come ci è presentato da Benedetto XVI nella sua enciclica sul tema. Sono orizzonti larghi che esaltano la persona umana e la aprono a capacità inaudite: «Il modo di amare di Dio diventa la misura dell’amore umano» (ivi, 11). E tutte le dimensioni dell’amore vengono salvate purché si accetti la conversione dall’io a Dio, in quanto proprio nell’ambito dell’amore appare chiaramente come l’egoismo uccida quel che è un dono divino e sciupi la persona: «L’eros ebbro e indisciplinato non è ascesa, “estasi” verso il Divino, ma caduta, degradazione dell’uomo. Così diventa evidente che l’eros ha bisogno di disciplina, di purificazione per donare all’uomo non il piacere di un istante, ma un certo pregustamento del vertice dell’esistenza, di quella beatitudine a cui tutto il nostro essere tende» (ivi 4).

Se si è ben disposti ad accoglierla, anche questa sorprendente luce sull’amore che viene oggi dal magistero della Chiesa è di quelle che, accanto a tante altre, aprono lo spirito. Sarebbe triste non lasciarsi raggiungere per Pasqua da qualche grazia che vivifichi e trasformi.

 

UN VANGELO

NON MODELLATO SULL’UOMO

 

Tante volte nella conversione, o nelle ricorrenti conversioni che in modo provvidenziale segnano il cammino di ogni seria vita cristiana, avviene che il Signore prima apra gli occhi e innamori il cuore, poi pazientemente attenda – certo non in modo passivo – che la persona ritrovi quel volto con cui è stata creata. E questo, come intuiva Dante, è ancora opera di quella luce che mentre egli la guardava acquistava sempre più valore e lo trasformava interiormente.

Il fatto è che la verità in cui siamo chiamati a entrare non è a misura dell’io degradato dal peccato. Scriveva san Paolo ai Galati: “Vi dichiaro, fratelli, che il Vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo; infatti non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo” (Gal 1, 11-12). Si tratta di dare fiducia a Cristo: questa è la fede. In tal modo il contenuto stesso della fede diventa il criterio che decide del nostro stile di vita.

Uno stile che, come già ai tempi di Paolo, crea una rottura con la mentalità del mondo: “Non comportatevi più come i pagani nella vanità della loro mente, accecati nei loro pensieri, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro e per la durezza del loro cuore… Ma voi non così avete imparato a conoscere Cristo... dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici. Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4, 17-24). Si tratta di un cambiamento radicale che porta l’essere umano a rinnovarsi dall’interno, fino a diventare realmente a immagine di Dio. Cadono le barriere che derivano dalla storia di peccato e la persona ritrova se stessa riunificata.

Nel corso dell’udienza dell’8 gennaio 1975, in pieno travaglio post-conciliare, Paolo VI suggeriva un esame di coscienza per vedere quanto la nostra mentalità derivi dalle verità che Cristo ci ha insegnato. E poi proseguiva: «Abbiamo noi, da noi stessi, l’intuizione del vero e del giusto, così da rivendicare, di fronte a ogni richiamo del magistero cattolico, una legittima autonomia? E gelosi come siamo della nostra indipendenza, della nostra libertà, possiamo davvero sostenere che la nostra mentalità è libera? O invece non dobbiamo ammettere che a formare questa mentalità entrano, in folla, altri fattori che non il nostro proprio cosciente giudizio? Chi non vede come il nostro modo di pensare, e quindi di vivere è soggetto a soverchianti influssi dell’ambiente, dell’opinione pubblica, dei mezzi di comunicazione sociale, o di stimoli passionali, tutt’altro che fautori della nostra vera libertà?».

La via per non sbagliare è quella normale dei comandamenti e dell’osservanza dei voti per chi ha fatto una professione di vita religiosa. Qui si trova il terreno più adatto per lasciar morire dolcemente quel chicco di grano che ciascuno vuol essere, destinato poi a rinascere come spiga. E in quest’ottica si impara a leggere la croce, ogni croce, con gli occhi di Dio.

Tante volte, però, ci si lascia prendere da una sorta di “indulgenza” verso la mentalità del mondo: non è la comprensione pur sempre dovuta alle persone, ma l’offuscamento dei valori autenticamente evangelici. E per quanto riguarda il vivere pratico ci si apre volentieri a banalità che rendono l’esistenza più facile, ma intorpidiscono quel rimanere a livello dello Spirito nel quale si nutre una piena e costante comunione con Cristo. Si legge sulla tomba del beato Angelico: “Chi fa cose di Cristo, con Cristo deve stare sempre”.

 

SGUARDO CONFORME

A QUELLO DI CRISTO

 

Dall’unione con il Signore nasce quel sano distacco che è luce evangelica sulla valutazione delle cose e delle persone. Rinati “dall’alto” (Gv 3, 7), anche i gusti cambiano. È un canto di vita nuova. Non interessano più i desideri di un tempo, quando si era nell’ignoranza – come dice Pietro. E poi aggiunge: “a immagine del Santo che vi ha chiamati diventate santi anche voi in tutta la vostra condotta” (1Pt 1, 15).

La conversione raggiunge anche il cuore. Il “cuore nuovo”, il “cuore di carne”, promesso da Dio attraverso il profeta Ezechiele (36, 26) comincia a pulsare. E, misteriosamente, questo cuore è tutt’uno con quello di Cristo. Non per nulla l’opera di ogni apostolo è innanzitutto quella di formare Cristo nelle anime, partorendole di nuovo nel dolore (cf. Gal 4, 19).

Come dando seguito al discorso già aperto sull’amore con l’enciclica, il santo padre ha voluto porre all’inizio del suo messaggio per la quaresima 2006 l’annotazione evangelica secondo cui “Gesù, vedendo le folle, ne sentì compassione” (Mt 9, 36). E in questa luce si sofferma a riflettere sulla questione dello sviluppo, affermando in pratica che se non si impara a guardare gli altri con lo “sguardo” misurato su quello di Cristo, poco si fa per dare agli uomini ciò di cui hanno realmente bisogno.

A proposito della nostra compassione tante volte puramente sentimentale, tornano alla mente le parole con cui l’allora cardinal Ratzinger commentò l’ottava stazione della Via Crucis al Colosseo, il Venerdì Santo del 2005: «Non serve compiangere a parole, e sentimentalmente, le sofferenze di questo mondo, mentre la nostra vita continua come sempre. Per questo il Signore ci avverte del pericolo in cui noi stessi siamo. Ci mostra la serietà del peccato e la serietà del giudizio. Non siamo forse, nonostante tutte le nostre parole di sgomento di fronte al male e alle sofferenze degli innocenti, troppo inclini a banalizzare il mistero del male?… Il male non può continuare a essere banalizzato di fronte all’immagine del Signore che soffre».

Allora – dice il papa nel suo messaggio – il digiuno e l’elemosina che, insieme con la preghiera, la Chiesa propone in modo speciale nel periodo della quaresima, sono occasione propizia per conformarci allo “sguardo” di Cristo. L’umanità non può farne a meno. Nessuna iniziativa sociale o politica riesce a sostituire l’amorevole dedizione personale e «quel dono di sé all’altro nel quale si esprime la carità». In questa logica i santi si sono fatti carico dei bisogni materiali e spirituali del prossimo, ma ben sapendo che “chi non dà Dio dà troppo poco”.

Lungo il cammino di quell’ “umanesimo plenario” di cui parlava Paolo VI, la quaresima vuol condurre a una salvezza integrale in vista della vittoria di Cristo su ogni male che opprime l’uomo. Una speranza che si affida anche a Maria, “di speranza fontana vivace”.

 

Paola Moschetti