IL VATICANO II E IL DIALOGO INTERRELIGIOSO

UN CAMMINO TUTTORA APERTO

 

Nel contesto del 40° anniversario dell’approvazione dei documenti conciliari Ad gentes e di Gaudium et spes, è giusto che riflettiamo sul dialogo interreligioso per chiederci quanto questo sia stato preparato e sostenuto dalla dottrina conciliare.

 

Possiamo dire che la posizione della Chiesa nei confronti delle tradizioni religiose e del dialogo interreligioso è nata in occasione del concilio. Non c’è dubbio che questi erano, solo fino a un certo punto, dei temi nuovi, perché già prima del concilio si dibattevano da parte di qualche teologo più sensibile. In questo senso il concilio non è stato un punto di partenza ma di arrivo, e tuttavia un punto di arrivo che, a sua volta, ha rilanciato, con nuovo vigore, la riflessione e la pratica dell’incontro e del dialogo con le tradizione religiose non cristiane, oggi più che mai attuali.

 

LA RIFLESSIONE

CONCILIARE

 

Prima del concilio il problema delle religioni veniva affrontato dalla prospettiva tradizionale che considerava il cristianesimo come la religione-vertice, punto di arrivo di tutti i valori positivi presenti nelle altre tradizioni religiose. Per questo la teologia delle religioni non cristiane era percepita – quando era percepita, perché spesso era un tema marginale lasciato a certi esperti – come una «teologia del compimento»: le religioni non cristiane dovevano arrivare alla religione cristiana nella quale trovavano se stesse, come dei fiumi che confluiscono nel grande mare. Le religioni non cristiane erano viste nel quadro della pedagogia divina come una “preparazione al Vangelo” (Ireneo e Clemente Alessandrino). I grandi teologi che lavoravano come esperti al concilio, Jean Danielou, Henry de Lubac, Yves Congar, Karl Rahner, erano tutti, con qualche variazione, rappresentanti di questa corrente. Però la riflessione conciliare sulle religioni non era entrata nella preparazione al concilio, come la liturgia, la rivelazione, la Chiesa ecc. Poco si era detto delle religioni non cristiane nella fase preparatoria.

Il concilio inaugura invece una stagione di singolare apertura per ciò che si riferisce alla salvezza individuale di tutti gli uomini. Non si parla più della possibilità della salvezza dei non cristiani, ma delle modalità in cui tale salvezza si realizza. Valga per tutti un testo della costituzione pastorale: «Cristo infatti è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina, perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contato, nel modo che Dio conosce, con il mistero pasquale» (Gaudium et spes 22). Un approccio nuovo e inaudito, corredato poi dall’ammissione della presenza di elementi positivi nelle tradizioni religiose non cristiane. Nel contesto ecclesiocentrico di quarant’anni fa, si inaugurava una nuova epoca di apertura positiva verso le religioni non cristiane. Nello stesso tempo, volendo raggiungere il più ampio consenso tra i padri conciliari, si doveva evitare con cura un giudizio troppo positivo sul pluralismo religioso, che anche solo insinuasse un indebolimento della posizione assoluta del cristianesimo. Di fatto il risultato del compromesso è che il concilio ha riconosciuto il pluralismo religioso di fatto, ma non di diritto, in altre parole, ha dovuto ammettere che la sfera spirituale dell’umanità non è totalmente occupata dalla sola Chiesa, ma che esistono delle altre religioni che verosimilmente non si lasceranno mai ridurre alla Chiesa cristiana.

 

LE ALTRE RELIGIONI

NEI DOCUMENTI CONCILIARI

 

Nell’insieme dei dieci documenti conciliari sono circa 34 i riferimenti alle tradizioni religiose. Il numero maggiore si trova in Ad gentes, Apostolicam actuositatem, Nostra ætate, Lumen gentium, Gaudium et spes e Dignitatis humanæ. Qui non ci possiamo soffermare che sulle più importanti, quelle che più direttamente hanno riferimento al dialogo interreligioso.

Lumen gentium afferma che «quelli che non hanno ancora ricevuto il Vangelo sono ordinati al popolo di Dio», hanno cioè un posto nel popolo di Dio, vi sono destinati da Dio. In una graduatoria di appartenenza al popolo di Dio prima vengono i cristiani cattolici, poi i non-cattolici e infine «tutti gli uomini chiamati alla salvezza» (LG 13), tutti parte del disegno divino. Questa riflessione è fondata sull’idea che la Chiesa cattolica, sacramento universale di salvezza, possiede pienamente i mezzi della salvezza. Quest’idea apre degli spazi all’azione invisibile della grazia, per cui Lumen gentium, riprendendo il tema dell’ignoranza invincibile, afferma che Dio non nega gli aiuti necessari alla salvezza «a coloro che senza colpa da parte loro non sono ancora arrivati a conoscere esplicitamente Dio, ma si sforzano di condurre una vita retta» (16). Non potremmo attenderci in Lumen gentium un giudizio sulle religioni non cristiane, ma notiamo che qui è chiaramente espressa la «teologia del compimento» e della “preparazione al Vangelo”, perché si riconosce la presenza di elementi di valore salvifico nel cuore delle persone, nei riti e nelle culture dei popoli. Questo riconoscimento tuttavia non nega, anzi postula, la missione di portare esplicitamente il Vangelo proprio per portare a compimento e perfezione il bene che già c’è (LG 17).

Le stesse idee sono alla base del decreto Ad gentes, secondo cui lo Spirito è all’opera già prima della glorificazione di Gesù Cristo (AG 4) e le nazioni sono abitate da una «segreta presenza di Dio in mezzo alle genti» e ricche dei “germi del Verbo” (AG 9). Questi elementi positivi operano non solo nell’intimo delle persone, ma anche nelle “iniziative religiose”, nei riti e nelle culture. Anche in Ad gentes si afferma la presenza di elementi “di verità e di grazia” (AG 9) nelle tradizioni religiose dei popoli, che attendono di essere condotti alla loro“pienezza escatologica” (ibid.), ma bisogna riconoscere che questo tema è rimasto in ombra nel decreto che è preoccupato soprattutto di salvaguardare la missione come essa era considerata prima del concilio. Questo fatto evidenzia una lacuna del concilio: missione ad gentes e dialogo interreligioso non sono stati colti nella loro necessaria articolazione. Sarà per più tardi.

Gaudium et spes nel suo approccio ottimista guarda anche al dialogo della Chiesa con il mondo e riconosce nelle tradizioni religiose dei ”preziosi elementi religiosi e umani” (GS 92). Il paragrafo 22, che abbiamo citato sopra, permette di considerare il valore delle tradizioni religiose all’interno del disegno misterioso di Dio, il quale fa giungere alla salvezza attraverso strade che egli solo conosce, strade comunque sue! Gaudium et spes, che vede il dialogo come il motore che mette la Chiesa «al servizio degli uomini e del mondo d’oggi con una generosità sempre più efficace» (GS 93), afferma che in questo servizio la Chiesa vuol essere in compagnia dei cristiani e di tutti quelli «che amano la giustizia» (ib.). La Chiesa promuove il dialogo e cerca di entrare in relazione con tutti nel rispetto della loro piena dignità spirituale (GS 23), e questo a partire dall’interno della Chiesa per raggiungere tutti i cristiani e anche tutti i cercatori di Dio.

In Dignitatis humanæ il discorso sulla libertà religiosa rivede la teoria, comune fino a quel tempo, secondo cui solo la verità ha diritto di esistere e di essere difesa, con evidente rischio di provocare l’intolleranza religiosa. Questo principio di rispetto della religione altrui sarà fondamentale per una dinamica dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso.

Ma è il decreto Nostra ætate sulle religioni non cristiane che esprime al meglio l’apertura al pluralismo religioso da parte della Chiesa nei confronti delle tradizioni religiose. Attraverso un percorso molto accidentato il concilio è giunto ad approvare questo testo che insiste in modo esemplare su due atteggiamenti nuovi e importanti: il rispetto e l’accoglienza delle altre tradizioni religiose. L’universalità della salvezza porta a considerare tutti parte di una sola famiglia avvolta nell’amore di un Dio di bontà (NÆ 1) in cui tutte le tradizioni religiose sono considerate come la «risposta agli oscuri enigmi della condizione umana» (ib.). Il concilio riconosce gli elementi positivi presenti nelle religioni che «riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini» (NÆ 2). Possiamo lamentare che il concilio non abbia accolto la proposta di considerare il pluralismo religioso e la sua positività all’interno del misterioso disegno di Dio, perché anche in questo documento si è accontentato della «teologia del compimento». Nello schema proposto c’era un testo di Ireneo (Adv Hær. IV,28,2) che parlava della varietà e della ricchezza delle vie di salvezza nel disegno di Dio, ma esso non è entrato nel testo approvato, per evitare ogni ambiguità e raggiungere un più vasto consenso.

 

E OGGI

A CHE PUNTO SIAMO?…

 

Questo è ciò che abbiamo ereditato dal concilio. Possiamo essere dispiaciuti che esso non abbia recepito tutta la positività delle religioni non cristiane e non abbia fatto una chiara connessione tra la missione ad gentes e il dialogo interreligioso, perché il tempo non era ancora maturo. Il testo che abbiamo oggi rispecchia il pensiero della maggioranza dei padri conciliari, rivela la complessità teologica del tema, la composizione dell’episcopato di quel tempo e l’importanza della posta in gioco. Possiamo ciononostante affermare che il concilio ha messo in moto un processo d’apertura e di dialogo con le altre tradizioni religiose e ha legittimato una prospettiva più positiva nei loro confronti. Mantenendo ferma la dottrina sul carattere assoluto e definitivo del cristianesimo nel quadro di un orizzonte ecclesiocentrico, il concilio permette la ricerca teologica sul pluralismo religioso che oggi si sta sviluppando e che, secondo certi teologi, è il grande orizzonte della teologia del nostro secolo e autorizza la pratica del dialogo interreligioso. Il compianto padre Jacques Dupuis sj diceva che chi guarda indietro al concilio con la sensibilità pluralistica di oggi, può sentirsi magari sconcertato e rimanere un po’ deluso e insoddisfatto, ma non deve scoraggiarsi.

Per iniziare sarà bene ricordare che il dialogo con le altre religioni «fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa» (Redemptoris missio 55). Si dovrà quindi procedere a una migliore e positiva conoscenza delle altre tradizioni non per combatterle, ma per entrare in dialogo con loro. Sarà anche necessario preoccuparci della “purificazione del linguaggio teologico” a proposito delle religioni non cristiane, il quale spesso rivela una visione delle altre religioni che, se non è negativa, certamente non è positiva. Quando, per esempio, con il concilio parliamo del cristianesimo come della “unica e vera religione” (DH 1), provochiamo una brutta sensazione in coloro che appartengono alle tradizioni religiose non cristiane e la stessa cosa, quando, con precisione teologica, per altro ineccepibile, noi rivendichiamo il possesso esclusivo dell’automanifestazione di Dio o dei mezzi di salvezza. Siamo sempre attenti a non ferire la sensibilità altrui, pur nella necessaria attenzione alla verità? Che cosa dobbiamo fare?

Ci troviamo veramente in un impasse laddove l’affermazione giusta e doverosa della nostra fede, come noi oggi la sentiamo, sembra chiuderci al dialogo. Lo si è percepito all’apparire dell’Istruzione Dominus Jesus nell’agosto 2000. L’esistenza di una sensibilità pluralista esige da tutti ormai una reale trasformazione nella maniera di vedere, comprendere e cogliere la dinamica religiosa dell’alterità. L’altro sarà sempre un mistero, un enigma, una novità che porta con sé un patrimonio spirituale in grado di arricchire il nostro. Dobbiamo ricordare che abbiamo davanti a noi un’alterità che non potrà mai essere trasformata o separata dalla sua irrevocabile particolarità, perché l’essenziale non potrà mai essere condiviso in modo radicale, rimarrà sempre una scoperta che in qualche caso potrà magari sgomentarci. Il dialogo sarà sempre la ricerca dell’«identità nella differenza» nella quale una parola, un gesto, un silenzio, uno sguardo lasciano intravedere un nuovo possibile modo della realtà. A noi di rimanere positivamente aperti e pieni di benevolenza.

 

Gabriele Ferrari s.x.

 

1 Lo fa Faustino Teixeira, docente di teologia all’Università de Juiz de Fora (RJ, Brasile) in un articolo della rivista Spiritus (Hors de série 2005, pp. 74-88) a cui si rifà il presente articolo.