DOPO LA VICENDA DELLE VIGNETTE SU MAOMETTO
DIALOGO ORA PIÙ URGENTE
È giunta l’ora
di abbandonare, lo pseudodialogo dei salamelecchi, per abbracciare il duro
cammino di un dialogo a caro prezzo, nella verità e nell’impegno. Altrimenti, è
lasciato campo libero ai seminatori di discordie e ai provocatori di
professione. Anche l’Europa deve fare un serio esame di coscienza.
È stata solo una fiammata d’orgoglio islamico?
L’esito peggiore del vibrante fremito identitario provocato
(o suscitato ad arte, come si è ipotizzato) dalla triste vicenda delle
cosiddette vignette sataniche sarebbe di fingere rapidamente che non sia
accaduto nulla, e riprendere vita e costumi alla maniera di prima. A ruota, un
risultato esiziale consisterebbe nell’acquisizione diffusa a macchia d’olio che
il paventato clash of civilization (scontro di civiltà) sia ormai
definitivamente in atto, per cui occorrerà attrezzarsi sin d’ora alla bisogna.
Al contrario, ha ben sintetizzato il presidente del Pontificio consiglio per il
dialogo interreligioso, Michael L. Fitzgerald, è proprio di fronte a quanto
accaduto – la reiterata pubblicazione dei discussi disegni satirici da parte di
periodici europei, le violenti proteste di massa e l’assassinio brutale di don
Andrea Santoro, martire a Trabzon dell’incontro fra cristiani e musulmani – che
il dialogo tra le grandi religioni monoteistiche è diventato ancora più
importante e necessario. Mentre le ragioni della pazienza, dell’ascolto,
dell’accoglienza – agli occhi del credente nel Dio unico – dovrebbero ancora
prevalere, nonostante tutto, sul risentimento, sulla volontà di vendetta, sulla
chiusura a riccio.
Tanto si è scritto al riguardo, per la verità non sempre a
proposito. Qui, senza ripercorrere per intero il caso ormai ben noto
all’opinione pubblica, ci limiteremo a esporre tre considerazioni, fra le
svariate che ne potrebbero emergere: le intitolerei, rispettivamente, la guerra
dei simboli; l’asimmetria fra croce e mezzaluna; e un dialogo difficile ma
necessario. Forse può essere vero che, come recita un antico proverbio, non
tutto il male viene per nuocere; e che persino da una storia amarissima come
questa si potrebbe ricavare una morale in grado di aiutarci a imparare come
camminare insieme.
LA GUERRA
DEI SIMBOLI
Il primo spunto. Nell’ultima stagione – anni di rivincita di
Dio e di diaspora del sacro, nonché di una sua (penosa) strumentalizzazione
politica – si è verificato, in parallelo, un inatteso ritorno di fiamma dei
simboli e dell’immaginario religiosi, su cui sempre più spesso si discute in
pubblico: si tratti del crocifisso o del velo islamico, del presepe e
dell’albero natalizi, del turbante dei sikh, della kippà ebraica, e così via. È
la guerra dei simboli, si è sintetizzato giornalisticamente. Oggetti materiali,
quasi sempre, che vengono investiti di una carica simbolica enorme, perché il
linguaggio simbolico non argomenta né vuole persuadere, ma celebrare e narrare
la storia dell’incontro dell’uomo con le situazioni, gli altri uomini e lo
stesso Dio: fino a penetrare ben al di là dell’effettiva appartenenza di chi si
scandalizza per la mancanza di una croce in un’aula scolastica o per una
ragazza musulmana priva di foulard… belonging without believing è la formula di
rito al riguardo: appartenere senza credere, dunque, come nel caso degli atei
devoti, oggi così in voga. Soprattutto dopo l’11 settembre 2001, e alla luce
dell’ulteriore solco scavato dagli atti terroristici e dalla guerra preventiva
come unica risposta ad essi, arduo stupirsi per le masse frustrate della umma
(comunità islamica) che si stracciano le vesti di fronte a un gesto che
percepiscono come dichiaratamente blasfemo e provocatorio. Che ferisce non solo
ciò che hanno di più caro, ma piuttosto l’unica cosa loro rimasta nel quadro
della profonda e acclarata crisi mondiale dell’islam, l’appartenenza a un
condiviso universo di codici. E come sempre, è l’accordo sul nemico comune a
produrre identità, reti di solidarietà, sdegno che si riproduce a dismisura
grazie ai nuovi meccanismi dell’informazione (dagli sms alle reti internet).
A fronte di un simile panorama, la sensazione è che ancora
le istituzioni del vecchio continente fatichino a fare seriamente i conti con
la dimensione post-secolare delle società dopo la fine dei Grandi racconti, con
relativo ritorno delle religioni in prima pagina. Basterebbe guardare a casa
nostra, andando persino alla rinfusa: ricordando la mancata intesa con l’islam
italiano (e non solo), la legge sulla libertà religiosa perennemente in stallo,
la scomparsa totale dell’interculturalità nella riforma della scuola, la
mancata scelta di un modello di riferimento per la gestione degli immigrati,
l’irrisolutezza sul tema della cittadinanza. E si potrebbe continuare con le
contraddizioni, mettendo nel conto anche la diffusa, singolare e ricorrente
tentazione per i cristiani di vedersi offrire rispettabilità politica e largo
spazio sociale nell’ambito pubblico a condizione che l’esperienza della fede
accetti di ridursi a pura e semplice religione civile. Il rischio incombente di
un tale depauperamento del simbolo e dell’immaginario, in nome di un illusorio
compromesso col potere politico che riconosca le chiese quali depositarie
uniche di quella civil religion necessaria a fungere da collante sociale, a mio
parere, balza all’occhio. Si tratta, infatti, del pericolo quanto mai
realistico di smarrire quella differenza, quello scarto, quella radicalità che
sono caratteri propri del messaggio evangelico di Gesù.
Una prima considerazione sul dopo-vignette riguarda appunto
la necessità di un colpo d’ala da parte della politica, nei singoli paesi ma
soprattutto in quell’Europa che prova pudore per le proprie radici cristiane e
che sottovaluta il ruolo del dialogo interreligioso nei processi sociali.
Occorrono studi, scambi, campagne, ricerca, e soprattutto scelte coraggiose
nella direzione di una maggiore conoscenza reciproca, di una rielaborazione dei
legittimi timori, di un’educazione al pluralismo delle fedi. Certo, è difficile
trovare risposte pronte, e importante non cedere alla tentazione del pensiero lineare,
che banalizza la complessità di quanto avvenuto. Soprattutto, direi,
bisognerebbe sforzarsi di assumere il doppio disagio che deriva tanto dalla
nostra incertezza quanto dalla frustrazione altrui.
L’ASIMMETRIA
FRA CROCE E MEZZALUNA
Una seconda riflessione va fatta sull’ennesima dimostrazione
della fatica che la cultura occidentale dimostra a comprendere le dinamiche
dell’islam attuale. Sul perenne stupore di fronte a reazioni giudicate troppo
banalmente premoderne e/o insensate: atteggiamento tanto più grave se si
considera che ormai l’islam è anche occidente, è qui e ora e nel futuro lo sarà
ancor più.
Come se il tradizionale virus eurocentrico fosse l’unico
metro di giudizio di fronte alla realtà, al modo della famosa storiella
dell’uomo ignorante per la prima volta allo zoo, di fronte ad una giraffa, che
– dopo un bel po’ di tempo e visibilmente stizzito – scrolla le spalle, non
avendone mai vista una prima di allora, bofonchiando che “un animale così non
esiste”.
Eppure, l’islam esiste eccome, quattordici secoli dopo il
Profeta, col suo impasto spesso indigesto di modernità e ancestralità, richiami
primordiali e fughe in avanti, misticismo e laicismo, fede autentica e
strumentalizzazioni politiche, fascinazione e disprezzo per l’occidente. Piaccia
o no, c’è un’evidente asimmetria fra l’islam e l’occidente, realtà molto meno
monolitiche di come vengono presentate di solito, e la questione principale –
per noi, qui – concerne semmai l’urgenza di negoziare apertamente coi musulmani
di casa nostra, per condividere regole e valori minimi ma fondamentali, dal
rispetto per i diritti civili alla valorizzazione della condizione della donna,
fino all’accettazione del pluralismo democratico e del suo gioco, a cominciare
dalla laicità delle istituzioni. E al rigetto in ogni caso e a ogni costo di
un’azione violenta, a fronte di qualsiasi sgarbo, reale o presunto. In questa
chiave, va salutato con favore l’avvio dei lavori della Consulta per l’islam
italiano, voluta dal ministro degli interni Pisanu e finalmente ritrovatasi per
la prima volta proprio nei giorni della crisi. Resta peraltro – l’ha
puntualmente annotato il monaco Enzo Bianchi su La Stampa – l’amarezza pur
realistica di dover misurare una volta di più la non contemporaneità delle
nostre civiltà, uno sfasamento di tempo che ci fa dimenticare come, fino a non
molti anni fa, reazioni simili erano normali anche nella nostra emancipata
Europa (la ex-Yugoslavia confina con l’Italia): quadri di valori unanimemente
condivisi che sono andati scomparendo nel nostro occidente, mentre ci
comportiamo come se questo fosse vero ovunque, senza renderci conto che il
sentimento religioso di interi popoli è cosa diversa dalla larghezza di vedute
di qualche intellettuale islamico ormai a proprio agio in una cultura secolarizzata.
In altre epoche storiche, del resto, la contrapposizione in campo religioso era
talmente acuta che l’iconografia cristiana era arrivata a raffigurare lo stesso
Muhammad come un eretico dantescamente relegato all’inferno: ma oggi non si
tratta solo di negare tali episodi storici e di cancellarne le testimonianze
artistiche, bensì di capirli all’interno di una precisa stagione e di
rifiutarli come metodi decisamente non più ammissibili nel dialogo tra
religioni. D’altra parte, per citare un esempio macroscopico, è trascorsa
appena una manciata di decenni dalle nostre fervide preghiere del venerdì santo
pro perfidis judaeis, o dalla rivendicazione dell’insegnamento del disprezzo
(J.Isaac) nei confronti degli attuali nostri fratelli maggiori (Giovanni Paolo
II).
Sarebbe profondamente sbagliato, secondo il priore di Bose,
alimentare nei musulmani la convinzione che l’occidente non rispetti gli
elementi fondamentali della loro religione. Se un conto è la rilettura, anche
critica, dei rispettivi mondi di pensiero, ben altro è l’irrisione di ciò che è
oggetto di fede e di intima convinzione; e un conto è denunciare l’arroganza di
determinate posizioni religiose, altro è il beffarsi della fierezza dei
credenti. Ogni essere umano ha diritto al rispetto dei propri principi etici e
religiosi, delle proprie tradizioni, delle figure fondanti il suo credo e
dovrebbero essere proprio lo stato laico e le sue strutture non solo giuridiche
ma anche culturali – come i mass media – a difendere e diffondere tale
rispetto. Ma il discorso vale in larga misura pure per le diverse religioni che
convivono oggi, sempre più frequentemente, sotto lo stesso cielo, fianco a
fianco. Ed è innegabile che ci siano limiti alla libertà, limiti di buon gusto
ma non solo, persino alla libertà di stampa. In nome della quale (un valore per
noi sacrosanto, si badi, ancorché non assoluto) non è possibile, ad esempio,
incitare al razzismo o all’antisemitismo, all’odio interetnico o alla
bestemmia!
DIALOGO DIFFICILE
MA NECESSARIO
In terzo luogo, quanto accaduto a fine gennaio e febbraio
rimanda giocoforza – come abbiamo già accennato – alla necessità di rilanciare
il dialogo interreligioso, inteso quale forma normale e quotidiana dei rapporti
tra le fedi. Certo, si deve deprecare la carica di retorica di cui è stato
ammantato questo termine negli ultimi anni, insieme al rischio reale che venga
percepito come un semplice, inoffensivo sinonimo di buonismo, o di irenismo. Se
questo è capitato (ed è capitato), è proprio di fronte a simili kairoi che andrà
accelerata un’operazione di affinamento, di investimento più sapiente, di
studio e di collaborazione fattiva. Abbandonando lo pseudodialogo dei
salamelecchi, per abbracciare il duro cammino di un dialogo a caro prezzo,
nella verità e nell’impegno. Altrimenti, è lasciato campo libero direttamente
ai seminatori di discordie e ai provocatori di professione, che purtroppo non
mancano in tutti gli schieramenti e che hanno visibilmente approfittato
dell’accaduto. L’epocale incrocio di culture e di religioni che segnano
radicalmente il mondo attuale, sempre più globalizzato – ha ammesso il
segretario generale del CCEE (Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa),
Aldo Giordano – è oggi vissuto sempre più come paura, piuttosto che come
promessa: «abbiamo bisogno di trovare dove stiano la strada e la luce». Anche
per l’Europa è giunta l’ora di mettersi in ricerca e di fare un serio esame di
coscienza, e la stessa enciclica di Benedetto XVI Deus caritas est potrebbe
spingerci a chiederci l’un l’altro cosa ne abbiamo fatto di quell’amore che
portava i primi cristiani a mettere tutto in comune, piantando il seme di
un’economia nuova che ha rivoluzionato la visione dell’uomo, affermandone
l’unicità e la dignità inviolabile, che ha arginato i deleteri impoverimenti ideologici
e che ha indicato la fratellanza di tutti gli uomini.
Mi viene alla mente, per concludere, la meditazione di un
grande filosofo che ha attraversato il novecento, Hans G.Gadamer, secondo cui
«per noi che apparteniamo alla cultura cristiana l’idea di onorare la
trascendenza che si manifesta diversamente nelle altre religioni è meno
difficile che per altri. Cristo viene rappresentato a braccia aperte, ma non è
certo impossibile che anche altre religioni si aprano all’idea di onorare la
trascendenza negli altri». Perché solo la luce di Dio come caritas sarà capace
di farci uscire dalla tentazione della disperazione e di aprirci alla
dimensione, umana e teologale insieme, della speranza.
Brunetto
Salvarani