NEL DESERTO DELLA NOSTRA PREGHIERA

 

Nel cammino spirituale il desiderio di Dio può farsi invocazione “affamata”

e “assetata”: preghiera che si nutre dell’essenziale per perseverare nell’oscurità.

 

Molti pensano alla domanda come alla forma più bassa del pregare; più in alto c’è il ringraziamento, la lode... Ma se diamo uno sguardo anche superficiale ai Salmi o ad alcuni testi del Nuovo Testamento (a cominciare dalla preghiera del Padre Nostro), con stupore ci si accorge che la preghiera di domanda è quella più attestata e qualificata nella Scrittura.

La preghiera di domanda, di fatto, si fonda sulla coscienza della propria debolezza, della creaturalità, ed è possibile solo a partire dal riconoscimento della propria radicale condizione di bisogno e di povertà.

Questa è la preghiera dell’uomo biblico.

L’uomo oggi fugge la domanda, la elimina dalla sua preghiera, oppure la strumentalizza, probabilmente perché si sente autosufficiente, contento di sé. È la struttura umana a costruire spesso la cultura d’oggi.

Una preghiera si libera dall’ingordigia che anestetizza il desiderio di Dio quando si colloca nel deserto, nel luogo arido in cui il cibo e l’acqua sono sufficienti per sopravvivere. Questa preghiera sa accontentarsi di poco, di quel tanto che Dio gli invia per poter continuare, nell’attesa, la sua ricerca, il suo viaggio spirituale. Potremmo paragonare questa preghiera all’esperienza di Elia al torrente Cherit (cf. 1Re 17,2-6): un’esperienza di solitudine, di inattività, di aridità, di sopravvivenza; ma anche un’esperienza della fedeltà di Dio, della sua provvidenza nel deserto.

Questa preghiera “affamata”, perseverante, nell’assenza di parole, povera, dipende dalla grazia di Dio; si nutre con ciò che viene dato, non è certamente un’abbondanza, però è il sufficiente per perseverare nell’oscurità.

Essa passa attraverso varie esperienze, che ne costituiscono l’itinerario faticoso e duro.

Anzitutto l’esperienza della fame. In questa esperienza primordiale dell’uomo, quando si sente il bisogno urgente ed essenziale di cibo, si percepisce la propria dipendenza da qualcosa al di fuori di sé. Allora ci rendiamo conto che non possediamo la vita in noi stessi. La preghiera che vive in questa situazione si pone di fronte alla domanda essenziale: da che cosa dipende la mia vita? Ecco perché questa esperienza apre la preghiera alla ricerca di ciò che dà senso alla nostra vita: « Mostrami il tuo volto! Il tuo volto, Signore, io cerco!».

Si comprende allora l’antica prassi ecclesiale, liturgica e monastica, di unire la preghiera al digiuno; limitare il proprio bisogno fisico significa dare libertà, nello spazio della preghiera, al nostro desiderio di vita vera.

Nella fame, sgorga l’autentica preghiera di domanda in cui il credente innalza il suo bisogno e lo trasfigura in desiderio, ponendo un’attesa tra il bisogno e il suo esaurimento ed esercitando un discernimento dei bisogni per compiere la volontà di Dio.

Un’altra esperienza che s’incontra in questo cammino è quella della sete.

È l’aridità che rende così desolato il terreno della preghiera, luogo di solitudine, vero deserto vuoto, senza presenze; quasi un luogo inospitale, da fuggire.

La prova, l’aridità può essere terribile, ma è proprio a partire da questa situazione che si impara a domandare l’acqua. Si impara, cioè, a domandare lo Spirito, l’unico che permette di sopravvivere nel deserto della propria preghiera.

Tale esperienza acquista la sua intensità quando l’assenza percepita è Dio stesso. Esperienza lacerante nella vita del credente, e, pur con diverse intensità, imprescindibile da ogni cammino di fede, ha la sua icona tipica nel Cristo crocifisso. In quella parola gridata nel Salmo 21 con la quale Gesù morente invoca una risposta dal Padre, ma il Padre sta in silenzio. «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?»; Gesù muore con un perché rivolto al Dio della vita, e in questo perché sono racchiusi i silenzi e le parole di ogni uomo che si sente abbandonato da Dio.

Ma sulle labbra di Gesù questa preghiera, paradossalmente senza un interlocutore apparente, diventa una testimonianza di fedeltà.

 

Adalberto Piovano

da La qualità della preghiera cristiana, Ediz. Glossa,

Milano 2002.