UNA
“PROVVIDENZIALE” CRISI
SOTTO LA LENTE DEL
GIUDIZIO CRITICO
La vita religiosa deve essere concepita
come cammino, per incontrare in modo sempre rinnovato Cristo, e aprirsi verso
orizzonti di ampio e mai concluso respiro. Non c’è posto né per il dogmatismo
né per la tranquillità.
Gli intellettuali
– ricordava tempo fa Umberto Eco celebrando i 50 anni di Politica e cultura di
Norberto Bobbio – hanno il compito con la loro creatività di mettere in crisi
le idee correnti, recepite dai più senza la necessaria capacità critica, spesso
con una passività figlia di una tradizione mai verificata seriamente. I
religiosi – a differenza degli intellettuali, molte volte pieni di sé e rivolti
esclusivamente all’esterno – sono coloro che prima si mettono in crisi e poi,
forti delle acquisizioni e del patrimonio riscoperto, mettono in crisi i
parametri, i valori, i giudizi di una certa cultura, a cominciare dalla
propria. Confortato anche dall’articolo Dateci del vostro olio,1 credo che sia
salutare l’attuale riconosciuta crisi della vita consacrata in alcune sue espressioni.
E che sia giunto il momento di sfruttarla nelle sue ricche potenzialità.
Infatti, crisi nella sua accezione ricca e completa, comprende: la presa di
coscienza di una realtà, il giudizio positivo o negativo su tale realtà, la
volontà di superare quanto si è giudicato negativo. Si possono riassumere – a
mio giudizio – in tre momenti (senza la pretesa di esaurirli) gli aspetti della
vita consacrata che oggi vanno messi sotto l’impietosa lente del giudizio
critico.
CRISI
DELLE PAROLE
Non si può che
condividere le riflessioni di Rino Cozza nell’articolo ricordato, là dove
rileva la scarsa incisività dei capitoli sulla vita concreta delle comunità.
L’impegno a elaborare programmi articolati e piani di ampio respiro, a produrre
documenti più o meno storici, ad annunciare iniziative per raccogliere le sfide
dell’oggi, è senz’altro lodevole, ma occorre riconoscere che poi molto spesso
non passa là dove dovrebbe essere continuato e applicato. E questo non sempre
per cattiva volontà, ma perché le indicazioni appaiono non rispondenti alla
realtà vissuta dalle comunità. Inoltre non si sfugge al pericolo di legiferare
con formule più o meno brillanti, ma logore e piene di luoghi comuni, che
dicono tutto senza dire – di fatto – nulla di nuovo. Perciò alla fine prevale
il “tutto resta come prima” e la vita dei singoli e della comunità continua sui
binari consolanti tradizionali.
“La produzione
di parole” denuncia l’entrata della vita religiosa nella corsa alla novità a
tutti i costi, tipica della nostra epoca. E allora non si ha più il tempo di
considerare la radici profonde della vita consacrata, di fare analisi
consistenti, concrete, e non “dovute” per obbligo istituzionale, di affrontare
con serenità e coraggio i problemi veri dell’istituto. In questa corsa lo stile
evangelico – silenzio, ponderazione, luce dello Spirito, percezione, con lo
sguardo “in alto”, non orecchiata dei segni dei tempi – è molte volte percepito
come un fastidio, perché intralcia la propria corsa e visione delle cose e come
un pericolo, perché lo si vede come un rallentatore delle novità.
In questo
contesto, allora, il “rumore” prende il posto dell’ autentica “parola” e gli
spazi per la riflessione sono ridotti o nulli, non si ammette la feconda
ricerca dubbiosa (una perdita di tempo!), non si accolgono e non si accettano
differenze o si accantonano come non dette. La “corsa” richiede l’unanimismo,
seguito possibilmente dal soporifero conformismo. Invece il cambiamento della
vita consacrata, che tutti riconosciamo indilazionabile e diciamo di volere,
sarà prodotto da idee forti e non da ilari vagheggiamenti, dalla capacità di
comunicare, dai capitoli e assemblee assortite ai religiosi e da questi alla
società, convinzioni accertate e vissute, rese credibili dalla testimonianza e
rispondenti alle vere attese.
CRISI
DEL DOGMATISMO
La vita
religiosa, come ogni vita realmente tale, non è una condizione statica, una
vocazione accertata e conclusa una volta per sempre dalla professione. Non è
certo poi immobilità nel tempo, al massimo soggetta a un periodico e rituale
rinnovamento, che resta appunto “rituale”. Invece è un cammino, una continua
ricerca per tutti e per tutto il tempo della vita. È un cammino per incontrare,
come singoli e come istituto, in modo sempre rinnovato Cristo, che viene incontro
nelle vicende della storia continuamente deciso a sconvolgere i piani
prefabbricati e la vita comodamente pianificata, prospettando orizzonti sempre
nuovi, di ampio e mai concluso respiro.
Chiama non alla
produzione di parole, ma all’accoglienza della sua Parola, a lasciarsi
continuamente permeare dalle sue ricchezze per poi annunciarle come un’urgenza
che si sente improrogabile perché la Parola è divenuta componente vitale della
propria esistenza.
La vita
religiosa è movimento e perciò non ammette il dogmatismo che addormenta, perché
impedisce di pensare, elimina la ricerca e le novità, accontentandosi
dell’esistente. In queste condizioni il messaggio dinamico di Cristo, sempre da
rendere contemporaneo all’uomo e quindi da reinventare per essere capace di
comunicare la Parola, resta paralizzato e diventa ripetitivo e inerte. Per
tutti la condizione preliminare per essere “fedeli al movimento” è di non
avvolgersi nel dogmatismo. I responsabili per non incorrere nel rischio,
tutt’altro che assente nella vita religiosa, come rilevato da molte parti, di
parlare “dalla cattedra”, con il sottinteso dell’infallibilità o almeno con la
bramosia di non essere rimessi in discussione. Gli altri contenti di essere
esentati dal pensare, dal proporre, accettando per comodità, indolenza o
noncuranza quanto “cala dall’alto”.
Forse va rivista
la concezione di famiglia religiosa se per essa si intende un istituto e una
comunità dove alcuni “padri” pensano e dicono quello che è giusto per i
“figli”, riservando a se stessi il diritto di comunicare il minimo
indispensabile e di decidere ciò che è utile e doveroso per tutti. La storia ci
dice che il parlare soltanto “dalla cattedra” produce quasi sempre un’ideologia
e per lo più conservatrice, per il timore di perdere il potere, e questo è
quanto di più lontano vi è dal messaggio di Cristo e dal compito di
trasmetterlo proprio della vita consacrata. Le sole parole e le varie
coreografie religiose producono non l’evento Cristo, ma soltanto la sua
rappresentazione che sarà spettacolo, ma non certo la sua comunicazione. E così
si rimane nella rassicurante conferma della normalità religiosa che offre
prodotti ben collaudati dalla (immobile) tradizione perché più “sicuri”, si
resta nel quieto tran tran di ogni giorno, attenti a non introdurre alcun
elemento di disturbo. Una strategia che paga la comodità del religioso e ripaga
le parole della “cattedra”, ma che imbriglia il dinamismo dello Spirito
nell’immobilismo del già conosciuto dogmatico.
CRISI
DELLA
TRANQUILLITÀ
Uscire dal
dogmatismo ci porta a sognare la crisi della tranquillità. Uno stato che certo
non può caratterizzare la vita consacrata che, se concepita e vissuta nella sua
autentica e globale dimensione, deve vedere oltre e altro nei confronti di una
cultura con gli occhi rivolti al terreno. Essa, nata non da parole elaborate a
tavolino, ma dall’ “evento-Cristo incarnato” per la salvezza dell’uomo, è
portatrice della vita secondo il Vangelo, un messaggio di valore universale,
che richiede di essere continuamente ripensato per non perdere il suo dinamismo
salvifico. In tal modo la vita consacrata diventa interattiva con la cultura e
interconnessa con le domande e le esigenze dell’uomo contemporaneo. Deve vivere
e operare nell’attualità, non per essere alla moda, ma per rendersi presente
nei luoghi della vita e dell’elaborazione della cultura e del pensiero, nella
concreta quotidianità per non essere comunicatrice di parole che “non dicono”;
sapere costruire un rapporto vitale con la cultura e l’ambiente, perché la sua
esistenza e il suo impegno di evangelizzazione hanno un senso e una direzione
se diventano un cammino comune con la gente del proprio tempo.
Sono
responsabilità che non possono lasciare nella tranquillità del ricevuto e del
conosciuto, del “si è sempre fatto così”, ma che spingono al continuo
interrogarsi se si è in sintonia con la storia con il dovuto vigore
missionario, lo zelo profetico, lo sguardo scrutatore e comprensivo richiesti
dall’essere voce che trasmette il messaggio di Cristo. Il Vangelo è per il
continuo rinnovamento personale e sociale, per l’ insonne ricerca, per un
cammino verso il sempre oltre, è teso al traguardo escatologico, preparato però
nella e dalla nostra storia, e quindi la vita consacrata, che lo deve incarnare
e trasmettere, non può essere un punto di riferimento per la “stabilità”
sociale, uno strumento per acquietare le coscienze e smorzare le attese. Il
rinnovamento – quindi – è parte integrante, costitutivo, della vita consacrata,
che non può, a meno di diventare sale scipito e perdere la sua visibilità di
città costruita sul monte, essere semplice spettatrice dei cambiamenti, al
riparo, nella quiete della comunità, del flusso delle trasformazioni del
proprio tempo. Tanto più che l’atteggiamento di tranquillità personale e comunitario
si accompagna spesso alla recriminazione sulla perdita della fede da parte
della gente, sulla sordità alle nostre parole (appunto!), in una visione
rovesciata (quanto tranquilla?) delle cose.
L’attuale
riconosciuta crisi, nell’accezione completa sopra ricordata, è senz’altro uno
dei segni dei tempi che lo Spirito offre alla vita consacrata per il suo
rinnovamento, richiamandola alla sua missione di incarnazione e comunicazione
del dinamismo evangelico nel nostro tempo, carico di tensioni spirituali e alla
ricerca, nonostante tutto, del senso della vita.
Ennio Bianchi