PRIMA ENCICLICA DI BENEDETTO XVI

IL PAPA AL MONDO “DIO È AMORE”

 

In un mondo pieno di odio e di violenza come il nostro, mai come oggi è importante parlare dell’amore e lavorare per l’instaurazione della “civiltà dell’amore”. Ed è necessario riprendere la parola amore, di fronte all’abuso che se ne fa, per purificarla e riportarla al suo splendore originario.

 

La prima enciclica che un pontefice emana dopo la sua elezione lascia intravedere, in genere, su quale linea si svilupperà in seguito il suo magistero e la sua azione pastorale. Giovanni Paolo II, per esempio, aveva dedicato la sua al tema di Cristo, Redemptor hominis, redentore dell’uomo; e la proclamazione di Cristo unico salvatore ha costituito poi la trama di tutto il suo magistero e della sua intensissima opera di evangelizzazione. Tutti ricordano l’invito quasi gridato al mondo all’inizio del suo pontificato: «Non abbiate paura. Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo».

Per Benedetto XVI, la parola chiave è invece “amore”. Deus caritas est, “Dio è amore” è infatti il titolo e nello stesso tempo il tema della sua prima enciclica, resa pubblica il 25 gennaio scorso, festa della conversione dell’apostolo Paolo. Perché questa scelta? «In un mondo – scrive – in cui al nome di Dio viene a volte collegata la vendetta o perfino il dovere dell’odio e della violenza, questo è un messaggio di grande attualità e di significato molto concreto». Inoltre, come egli stesso ha spiegato ai partecipanti all’incontro promosso dal Pontificio consiglio Cor Unum, il 25 gennaio mattina, perché «la parola “amore” oggi è così sciupata, così consumata e abusata che quasi si teme di lasciarla affiorare sulle proprie labbra. Eppure è una parola primordiale, espressione della realtà primordiale; noi non possiamo semplicemente abbandonarla, ma dobbiamo riprenderla, purificarla e riportarla al suo splendore originario, perché possa illuminare la nostra vita e portarla sulla retta via».

 

LA TRILOGIA

DIO, CRISTO, AMORE

 

L’enciclica è scritta con uno stile sobrio, essenziale, senza orpelli né sovrabbondanze, quasi “professorale” ed è strutturata secondo un’architettura ben precisa, armonizzata sulla trilogia: Dio, Cristo, Amore, quale asse portante di tutta la fede cristiana. È suddivisa in due parti che, a prima vista, potrebbero dare l’impressione di essere indipendenti tra loro. In realtà, come ha spiegato lo stesso Benedetto XVI all’incontro Cor Unum, «dapprima occorreva trattare dell’essenza dell’amore come si presenta a noi nella luce della testimonianza biblica. Partendo dall’immagine cristiana di Dio, bisognava mostrare come l’uomo è creato per amare e come questo amore, che inizialmente appare soprattutto come eros tra uomo e donna, deve poi interiormente trasformarsi in agape, in dono di sé all’altro. Su questa base si doveva poi chiarire che l’essenza dell’amore di Dio e del prossimo descritto nella Bibbia è il centro dell’esistenza istriana, è il frutto della fede. Successivamente però in una seconda parte bisognava evidenziare che l’atto totalmente personale dell’agape, non può mai restare una cosa solamente individuale, ma che deve diventare anche un atto essenziale della Chiesa come comunità: abbisogna cioè anche della forma istituzionale che s’esprime nell’agire comunitario della Chiesa».

Nella prima parte ci sono due aspetti che illuminano tutto il resto del discorso: il primo è la descrizione dell’immagine di Dio, diversa da quella delle filosofie e culture; il secondo riguarda l’immagine dell’uomo. Questi due aspetti ci mettono davanti a due interrogativi a cui nessuno può sottrarsi: chi è Dio per noi? in quale Dio crediamo? quale Dio annunciamo? E di conseguenza: chi è l’uomo? quale il significato della sua esistenza?

Il papa risponde: il Dio nel quale noi crediamo è il Dio creatore, nel senso che tutta la realtà creata risale a lui, è creata da lui, è l’autore dell’intera realtà. Inoltre, è un Dio che ama l’uomo, lo ama di un amore appassionato e nello stesso tempo di un amore che perdona, reso visibile e tangibile attraverso la venuta del suo Figlio unigenito e la sua morte redentrice. Il papa spiega: «Lo sguardo rivolto al fianco squarciato di Cristo, di cui parla Giovanni (cf. 19,37), comprende ciò che è stato il punto di partenza di questa lettera enciclica: “Dio è amore” è lì che questa verità può essere contemplata. E partendo da lì deve ora definirsi che cosa sia l’amore. A partire da questo sguardo il cristiano trova la strada del suo vivere e del suo amore».

A questa immagine di Dio corrisponde l’immagine dell’uomo, in quanto essere amato e creato per amare. Questo amore, iscritto nella sua stessa natura, all’inizio appare soprattutto come eros tra uomo e donna, ma è destinato a trasformarsi interiormente in agape, in dono di sé all’altro.

In questa visione si comprende che l’uomo diviene veramente se stesso quando corpo e anima si ritrovano in intima unità. La sfida dell’eros, scrive il papa, può dirsi pertanto veramente superata quando questa unificazione è riuscita. L’eros degradato a puro “sesso” diventa merce, una semplice “cosa” che si può comperare e vendere, anzi l’uomo stesso diventa merce. La fede cristiana, al contrario, ha sempre considerato l’uomo come essere uni-duale, nel quale spirito e materia si compenetrano a vicenda, sperimentando proprio così ambedue una nuova nobiltà…».

Ma, si chiede a questo punto il papa, è possibile amare Dio, pur non vedendolo? E, l’amore si può comandare? In effetti, se nessuno ha mai visto Dio, come potremmo amarlo? E ancora: se l’amore non si può comandare, vuol dire che esso non può essere creato dalla volontà. La risposta a queste obiezioni si trova nel contesto della prima lettera di Giovanni dove viene sottolineato l’amore inscindibile che esiste tra amore di Dio e amore del prossimo. Entrambi infatti si richiamano così strettamente che l’affermazione dell’amore di Dio diventa una menzogna se l’uomo si chiude al prossimo o addirittura lo odia. L’amore al prossimo è una strada per incontrare anche Dio così che chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi anche di fronte a Dio. L’amore al prossimo, osserva il papa, «consiste appunto nel fatto che io amo, in Dio e con Dio, anche la persona che non gradisco o neanche conosco. Questo può realizzarsi solo a partire dall’intimo incontro con Dio, un incontro che è diventato comunione di volontà arrivando fino a toccare il sentimento. Allora imparo a guardare quest’altra persona non più soltanto con i miei occhi e con i miei sentimenti, ma secondo la prospettiva di Gesù Cristo. Il suo amico è mio amico. Al di là dell’apparenza esteriore dell’altro scorgo la sua interiore attesa di un gesto di amore, di attenzione… Io vedo con gli occhi di Cristo e posso dare all’altro ben più che le cose esternamente necessarie: posso donargli lo sguardo di amore di cui egli ha bisogno. Qui si mostra l’interazione necessaria tra amore di Dio e amore del prossimo».

Ma per avere questo sguardo non basta essere persone “pie” e adempiere bene ai propri doveri religiosi. Infatti, spiega il papa, «se nella mia vita tralascio completamente l’attenzione per l’altro, volendo essere solamente “pio” e compiere i miei “doveri religiosi”, allora s’inaridisce anche il rapporto con Dio. Allora questo rapporto è soltanto « corretto », ma senza amore. Solo la mia disponibilità ad andare incontro al prossimo, a mostrargli amore, mi rende sensibile anche di fronte a Dio. Solo il servizio al prossimo apre i miei occhi su quello che Dio fa per me e su come egli mi ama».

Sono principi questi che stanno al cuore del messaggio e di tutta la vita cristiana, e che hanno delle risonanze enormi sul mondo di guardare il mondo e di rapportarsi ad esso.

Tutta la seconda parte dell’enciclica riguarda proprio questo aspetto, ossia l’esercizio dell’amore da parte della Chiesa per costruire nel mondo una “civiltà dell’amore”.

L’amore al prossimo, radicato nell’amore di Dio, osserva il papa, è un compito che riguarda ogni singolo fedele, ma è anche un compito dell’intera comunità ecclesiale, a tutti i livelli: dalla comunità locale fino alla chiesa universale nella sua globalità. Per la Chiesa, infatti, la carità «non è una specie di attività sociale che si potrebbe anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura, è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza». Ed essendo essa “la famiglia di Dio”, deve fare in modo che nessuno soffra per mancanza del necessario, come ci ha lasciato un luminoso esempio la storia della comunità primitiva e quella della stessa Chiesa lungo i secoli.

 

IL RAPPORTO

CARITÀ E GIUSTIZIA

 

Il papa si sofferma a questo punto a sviluppare il discorso del rapporto tra carità e giustizia. È nota l’obiezione del pensiero marxista secondo cui i poveri non avrebbero bisogno di opere di carità, ma di giustizia. Le opere di carità – le elemosine – sarebbero infatti per i ricchi un modo di sottrarsi all’instaurazione della giustizia e di acquietare la coscienza, conservando le proprie posizioni e frodando i poveri nei loro diritti. Bisognerebbe piuttosto adoperarsi per creare un giusto ordine, nel quale tutti ricevano la loro parte dei beni del mondo e quindi non abbiano più bisogno delle opere di carità.

In questa argomentazione, osserva il papa c’è del vero, ma ci sono anche molte cose sbagliate e la storia si è incaricata di dimostrarlo. Indubbiamente l’impegno per la giustizia rimane fondamentale anche per la Chiesa ed essa ha elaborato a questo riguardo un’approfondita dottrina sociale a cui far riferimento. Si pensi per esempio alle varie encicliche Rerum novarum, di Leone XIII (1891), Quadragesimo anno di Pio XI (1931), Mater et magistra di Giovanni XXIII (1961), Populorum progressio di Paolo VI (1967) e la lettera apostolica Octogesima adveniens dello stesso pontefice (1971); inoltre alla trilogia di encicliche sociali di Giovanni Paolo II: Laborem exercens (1981), Sollicitudo rei socialis (1987) e la Centesimus annus (1991). Questa dottrina poi ha trovato una sua elaborazione organica nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa (2004) a cura del Pontificio consiglio Iustitia et pax.

Il marxismo, sottolinea il papa, aveva cercato nella rivoluzione mondiale e nella sua preparazione la panacea per la problematica sociale: attraverso la rivoluzione e la conseguente collettivizzazione dei mezzi di produzione avrebbe dovuto andare tutto in modo migliore. In realtà «questo sogno è svanito».

Tramontato il marxismo, oggi si pongono altri problemi con l’avanzare di nuove problematiche come quelle relative alla globalizzazione, e ancora una volta la dottrina sociale della Chiesa è diventata un’indicazione fondamentale.

Riguardo all’impegno per la giustizia e il servizio della carità bisogna, osserva il papa, tenere presenti due principi concreti fondamentali. Anzitutto che l’instaurazione del giusto ordine della società e dello stato è compito centrale della politica. Resta fondamentale pertanto la distinzione tra ciò che si deve a Cesare e ciò che si deve a Dio, ossia la distinzione tra stato e Chiesa, o come scrive il concilio, l’autonomia delle realtà temporali. Pertanto, «La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell’argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare. La società giusta non può essere opera della Chiesa, ma deve essere realizzata dalla politica. Tuttavia l’adoperarsi per la giustizia lavorando per l’apertura dell’intelligenza e della volontà alle esigenze del bene la interessa profondamente».

L’altro principio è che «l’amore sarà sempre necessario anche nella società più giusta», per cui «non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio d’amore». Infatti, «ci sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine. Sempre ci saranno anche situazioni di necessità materiali nelle quali è indispensabile un aiuto nella linea di un concreto amore al prossimo. Lo stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un’istanza burocratica che non può assicurare l’essenziale di cui l’uomo sofferente – ogni uomo – ha bisogno: l’amorevole dedizione personale». Quindi «non uno stato che regoli e domini tutto è ciò che ci occorre, ma invece uno stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto. La Chiesa è una di queste forze vive: in essa pulsa la dinamica dell’amore suscitato dallo Spirito di Cristo».

Nella Chiesa, il compito immediato di operare per un giusto ordine nella società è proprio dei laici. Come cittadini dello stato essi sono chiamati a partecipare in prima persona alla vita pubblica.

Le organizzazioni caritative della Chiesa invece costituiscono un opus proprium, un compito a lei congeniale. Essa infatti «non può mai essere dispensata dall’esercizio della carità come attività organizzata dei credenti e, d’altra parte, non ci sarà mai una situazione nella quale non occorra la carità di ciascun singolo cristiano, perché l’uomo, al di là della giustizia, ha e avrà sempre bisogno dell’amore».

Il papa richiama infine alcuni importanti principi: anzitutto che l’attività caritativa cristiana deve essere indipendente da partiti e ideologie; in secondo luogo, che la carità non deve mai essere un mezzo in funzione del proselitismo: «Chi esercita la carità in nome della Chiesa non cercherà mai di imporre agli altri la fede della Chiesa… Il cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di lui e lasciar parlare solamente l’amore». In terzo luogo, che la carità deve essere la Magna carta dell’intero servizio ecclesiale. Infine che «è venuto il momento di riaffermare l’importanza della preghiera di fronte all’attivismo e all’incombente secolarismo di molti cristiani impegnati nel lavoro caritativo. Ovviamente, il cristiano che prega non pretende di cambiare i piani di Dio o di correggere quanto Dio ha previsto. Egli cerca piuttosto l’incontro con il Padre di Gesù Cristo, chiedendo che egli sia presente con il conforto del suo Spirito in lui e nella sua opera. La familiarità col Dio personale e l’abbandono alla sua volontà impediscono il degrado dell’uomo, lo salvano dalla prigionia di dottrine fanatiche e terroristiche».

Dalla lettura di questa enciclica, anche se ciò non è detto esplicitamente, noi religiosi dobbiamo ricordarci che l’amore a Dio amato sopra ogni altra cosa e l’amore al prossimo costituiscono l’asse portante della nostra vita consacrata, delle nostre regole e dei nostri carismi.

 

A. Dall’Osto