TRE CIRCOLARI DEL GENERALE DEI MARIANISTI

TRE ETÀ A CONFRONTO

 

Tentazioni, sfide e opportunità dell’età giovanile, di quella di mezzo e degli ultrasettantenni nella vita consacrata. Tra queste età necessario un costante fecondo dialogo. Per tutti resta sempre valido e attuale l’invito del fondatore dei marianisti, padre Chaminade, a essere “tutti missionari”.

 

Il regalo più bello che il superiore generale dei marianisti, p. David Joseph Fleming, giunto ormai al termine del suo mandato, ha pensato di fare ai suoi religiosi (al momento attuale sono complessivamente 1.390) è stato quello di indirizzare loro, tra settembre e dicembre 2005, una triplice lettera “differenziata” secondo le età: ai non ancora quarantenni (254, pari al 18%), a quelli di mezza età (632, pari al 46%), agli ultrasettantenni (490, pari al 35%). «Sono rimasto colpito, scrive, dal ruolo importante che le diverse generazioni giocano nella società (dei marianisti). Ogni età è portatrice di grazie differenti, di bisogni e di sfide differenti». La sua speranza è quella, ovviamente, che i tre documenti vengano letti da tutti i suoi religiosi, in modo da consolidare un sempre più indispensabile dialogo intergenerazionale.

 

L’ENTUSIASMO

DEI GIOVANI

 

«Siete l’espressione vivente di una varietà culturale quale non si è mai vista nel corso della nostra storia», scrive p. Fleming. Se in passato la maggioranza dei marianisti proveniva dall’Europa e dagli Stati Uniti, oggi le cose stanno radicalmente cambiando, con tutti i conseguenti  processi di inculturazione e di mondializzazione. Proprio per questo «potete esserci di prezioso aiuto nello scoprire ciò che significa impiantare o rinnovare il nostro carisma, perché sia presenza vitale e dono stimolante per il vostro tempo e nell’ambiente in cui siete chiamati a vivere».

In un mondo sempre più globalizzato, omogeneizzato e transnazionale, la sfida più grande da affrontare è quella di saper dare il proprio contributo in ordine a una effettiva inculturazione del proprio carisma.

In una società in cui si assiste spesso a una rimozione di tutto ciò che ha a che fare con l’eredità spirituale cristiana, «spetta a voi, in modo particolare, presentare l’eredità cristiana in tutta la sua profondità agli uomini e alle donne di oggi, offrire dei fondamenti spirituali e teologici solidi e ben pensati». Ciò esige, però, un continuo approfondimento del proprio radicamento nel Vangelo e nel proprio carisma, in modo da saper rendere comprensibile agli uomini di oggi le ragioni profonde e i contenuti delle proprie scelte vocazionali.

La piena consapevolezza che Dio ha un progetto particolare su ciascuna persona, un progetto sul quale c’è sempre qualcosa da apprendere, è il punto di partenza «per ancorarsi profondamente in Dio, per coniugare efficacemente nella propria vita Vangelo e carisma». È ormai lontano il tempo in cui «la nostra eredità poteva essere data per scontata, senza alcun bisogno di particolari approfondimenti personali». Bisogna continuare a diventare «cristiani convinti e bene ancorati nella propria fede», non presumendo mai di avere sempre una risposta pronta per tutti e per tutto, e non accontentandosi neanche di ripetere semplicemente certi slogan dei “bei tempi” del noviziato.

La generazione più giovane, cresciuta nella Chiesa del dopo concilio, rischia di dare per scontati molti aspetti che per gli altri costituiscono ancora delle novità. Basti pensare alla liturgia nella propria lingua, all’impegno creativo rispetto alle richieste sociali del proprio tempo, alla preoccupazione di partecipare a tutti gli aspetti della vita della Chiesa, all’invito al dialogo con gli altri credenti, a una coscienza più viva delle realtà psicologiche e sociali, all’impegno per un ruolo attivo dei laici nella vita cristiana. «Per me, confessa p.  Fleming, tutti questi aspetti sembrano ancora nuovi e da scoprire, e sono per un verso stimolanti. Quanto a voi, non avete conosciuto altro. Che fortuna!».

È un fatto che i giovani sentono maggiormente l’esigenza di relazioni profonde e personali.  Questa è una buona cosa. Ma non dovrebbero mai dimenticare il posto preferenziale da riservare alla propria comunità religiosa, il luogo per eccellenza della fedeltà e dell’amore disinteressato. I giovani dovrebbero sentirsi sempre più liberi, in vista, però, dell’avvento regno di Dio sulla terra, improntando a lucidità, semplicità e libertà interiore le proprie relazioni con gli altri. Non è sempre facile vivere a questi livelli la propria consacrazione religiosa.

Ci si dovrebbe convincere che vale la pena ingaggiare anche una lotta, se necessario, per vivere nel celibato consacrato in comunità e in vista della missione. Imparare a vivere un celibato consacrato autentico, pieno di amore «è un compito specifico del periodo della vita che state attraversando» e che dovrebbe trovare un largo spazio nella direzione spirituale. Purtroppo alcune recenti vicende incresciose, con il coinvolgimento anche di persone consacrate, evidenziano «quanto sia difficile amare le persone con castità e celibato autentici». Eppure oggi non vi è probabilmente nulla di più importante che imparare ad amare, a intessere relazioni autentiche con gli altri, nel pieno rispetto della libertà di tutti.

Anche in non pochi ambienti ecclesiastici è diffusa la condanna del mondo in cui viviamo. Ora una delle primissime cose che padre Fleming chiede ai suoi religiosi non ancora quarantenni è di amare questo mondo nel quale sono chiamati a giocare ancora a lungo un ruolo di primo piano. In un mondo creato da un Dio pieno di amore, non si dovrebbe mai perdere di vista sia la capacità di stupirsi, sia la passione per realizzare opere di bene.

 

SFIDE

E TENTAZIONI

 

Ma proprio nel momento in cui si intende stabilire un approccio positivo e pieno di amore con il mondo attuale, non vanno, però, sottovalutate le sfide, le tentazioni specifiche a cui oggi sono esposti soprattutto i  più giovani, incominciando dalla perseveranza e dalla sempre più scarsa tenuta nel tempo. Sono sempre più numerosi i giovani che abbandonano il loro ideale e gli impegni assunti. È sempre più diffusa una cultura fatta di sperimentazioni e di relativismo, che non lascia spazio alcuno a impegni definitivi. «È facile, oggigiorno, ritenere che tutto può cambiare, e quindi legarci in modo soltanto provvisorio in tutto ciò che concerne le relazioni sociali, personali, istituzionali. Siamo abituati a vivere in un mondo in cui i nostri desideri possono essere immediatamente soddisfatti; per cui, quando si presenta qualche realtà insolita e senza soluzione immediata, capitoliamo facilmente».

Ora in una situazione del genere «la vita religiosa in comunità perde ogni consistenza». La perseveranza negli impegni assunti è sempre stata difficile. Oggi più di ieri. Sono sempre più numerosi, anche nella vita consacrata, e non solo nel matrimonio o nell’attività professionale, quanti vagheggiano degli impegni totalmente aperti, privi di qualsiasi prospettiva di carattere definitivo. Senza un solido ancoraggio cui fissare la propria esistenza, è facile diventare ansiosi e terribilmente soli. Quante volte si entra nella vita consacrata con degli obiettivi ben precisi. Ma poi, strada facendo, più o meno progressivamente tutto cambia.

Non basta verificare in se stessi una progressiva evoluzione positiva, soprattutto quando si è supportati da una buona comunità e da una sapiente direzione spirituale. Un religioso deve essere pronto anche a dire che intende perseverare stabilmente per tutta la vita sulla strada scelta, nonostante i mutamenti, i rischi e le sfide che si presentano.

Anche una eccessiva prudenza da parte dei giovani può essere una sfida pericolosa. Non è raro imbattersi in giovani con una scarsa fiducia in sé stessi, eccentricamente perfezionisti.

«Non vogliono commettere errori. Non si ritengono mai pronti a lanciarsi, a impegnarsi in un servizio particolare da rendere a determinate persone o in determinati luoghi». Ora, non è possibile passare tutto il proprio tempo «a provare a decidersi, a prepararsi a impegnarsi in qualche cosa». È impensabile vivere in attesa del “grande momento”, del momento, cioè, in cui le condizioni di vita e di lavoro siano ottimali e nel quale possa essere pienamente valorizzato il peculiare talento dell’uno o dell’altro religioso. Non è che così facendo, mentre da una parte si ricercano comodità, vantaggi materiali e l’approvazione di tutti, dall’altra si tende a diventare autoritari ed esigenti quando si assumono determinate responsabilità?

Non meno preoccupante, infine, è una certa mancanza di trasparenza. «Non è mai facile essere aperti, veri nella comunicazione dei propri pensieri e dei propri sentimenti più intimi». La tentazione di tenere nascosti interi settori della propria vita è un fatto molto più preoccupante di tutti i possibili conflitti intergenerazionali e interculturali. Quante volte si tende facilmente a «custodire dentro di sé, a tenere nascosti dei problemi difficili o anche notevoli divergenze di opinione, ad avere dei comportamenti sconvenienti, noti ai propri simili ma non portati a conoscenza dei responsabili, lasciando in tal modo, però, libero corso alla maldicenza». Quando, prima o poi, questi problemi vengono alla luce, sono allora inevitabili grandi sofferenze e un’atmosfera fatta di diffidenza e di risentimento.

A questa diffusa tentazione si può rispondere solo attraverso un reciproco rapporto trasparente, affrontando apertamente le difficoltà e non nascondendo le divergenze. Diversamente viene inevitabilmente compromessa quella coraggiosa creatività apostolica che molti giustamente si attendono proprio dalle forze più giovani.

«Se riuscite a vincere tali tentazioni, conclude padre Fleming, sarete in grado di fornire a tutti noi un valido contributo per la missione». Quando si è giovani è facile sentirsi, in qualche modo, dei pionieri nel campo della povertà, dell’emarginazione, della giustizia, della pace, del rispetto per il creato. In qualunque campo di apostolato è fondamentale non considerarsi mai come dei «semplici custodi, incaricati di conservare a occhi chiusi e senza alcuna creatività un’eredità del passato». Dal momento che è sempre possibile innovare l’esistente o dar vita a “nuovi” impegni di apostolato, «siate pronti a imparare dagli altri, a lavorare in stretta collaborazione con essi, facendo tesoro della loro esperienza». Non serve a nessuno agire da franchi tiratori. Solo quando non si avrà nessuna paura nel prendere il largo con uno spirito creativo, sarà possibile realizzare il grande sogno del fondatore dei marianisti di vedere tutti i suoi figli “missionari”.

 

AI CONFRATELLI

DI  MEZZA ETÀ

 

La categoria che va dai 40 ai 70 anni è la più consistente non solo numericamente ma anche operativamente. Solo eufemisticamente, dice padre Fleming, non lontano anche lui dai 70, si può definire di mezza età, dal momento che di fatto si trova sulla soglia di un pensionamento attivo. «La nostra vita è stata segnata dalla fine di un’epoca. Siamo stati coinvolti da profondi ripensamenti e trasformazioni. Abbiamo conosciuto molti grandi cambiamenti a livello politico, tecnologico, economico e sociale».

In campo ecclesiale l’evento più significativo è stato sicuramente il concilio. La Lumen gentium e la Gaudium et spes hanno interamente ridisegnato i rapporti sia all’interno della Chiesa che sul versante del mondo contemporaneo. «Molti di noi si sono fatti i promotori delle grandi aperture conciliari». E proprio in quegli anni «molti amici della nostra generazione hanno scelto di abbandonare la vita religiosa e l’impegno apostolico, e questo doloroso esodo ci ha segnati profondamente».

Uno dei tratti più caratteristici di questa età di mezzo è quello di trovarsi tra due mondi per certi versi irriducibili l’uno all’altro: da una parte quello di «persone segnate da una mentalità d’altri tempi, nostalgiche della Chiesa della loro giovinezza, solida come una roccia, che hanno ancora l’impressione di avere perso qualche cosa», dall’altra quello dei giovani «che non conoscono nulla della Chiesa preconciliare e che spesso hanno bisogno di essere formati nei fondamenti della vita cristiana». È difficile, a volte, sottrarsi a sentimenti di tristezza e di delusione di fronte alla Chiesa di oggi. Quante speranze deluse, quante attese non realizzate, quante riforme non verificate, quante aspettative cadute nel vuoto!

La stessa vita religiosa respira a pieni polmoni questo clima di disagio, soprattutto nell’emisfero nord. Teoricamente si è tutti convinti della sua importanza. Di fatto, poi, fatica, anche più dei laici, a trovare il suo posto nella Chiesa. «È probabile che, in questo momento della storia,  siamo ridotti a  essere semplicemente una “presenza alternativa”, a promuovere uno stile e una visione di Chiesa che fa fatica a entrare in sintonia con le categorie abituali». Ma «se dovessimo unicamente sostenere la Chiesa per migliorarne il funzionamento senza rimettere nulla in discussione, si chiede padre Fleming, saremmo veramente fedeli a ciò per cui siamo stati chiamati?».

 

DEI PONTI 

TRA GIOVANI E ANZIANI

 

Anche e soprattutto i religiosi della cosiddetta mezza età sono chiamati a costruire ponti con i giovani, da una parte, e con gli anziani, dall’altra. Quando si incontrano giovani orientati più verso il passato che non verso il futuro, dando quasi l’impressione di rinnegare certe sofferte conquiste, si deve operare in vista di «una nuova sintesi di vita cristiana per le generazioni future». Ma insieme ai giovani vanno incoraggiati gli anziani, dai quali c’è sempre molto da apprendere. Vanno incoraggiati a «vivere soprattutto nella verità con se stessi, coinvolgendoli nella vita dell’insieme della comunità, ascoltandoli, persuasi che la loro saggezza e la loro esperienza continuano a essere quanto mai preziose».

Molte difficoltà, oggi, sono strettamente legate al problema dell’inculturazione. È un dato di fatto che la maggior parte dei religiosi, nei diversi istituti, è ancora oggi di estrazione europea e nord americana. Ma la vita di domani sarà sempre più multietnica. Da qui, allora, l’importanza «di comprendere e di apprezzare le culture e i punti di vista di coloro che provengono da contesti storici, educativi e familiari radicalmente diversi da quelli a noi noti». Non è più assolutamente giustificabile il tentativo di “occidentalizzarli”, neutralizzando la loro diversità culturale. Ora, però, l’esperienza insegna che la mediazione  tra culture diverse non è facile. Le provocazioni, in questo campo, sono imprevedibili. Nulla è più compromettente quanto l’irrigidimento sulle proprie posizioni. Ci si dovrebbe convincere, invece, che Dio anche oggi intende realizzare qualcosa di nuovo, sia attraverso la ricchezza delle varie culture e l’esperienza e la prudente saggezza degli anziani da una parte e l’idealismo e la trasparenza dei giovani, con tutta la loro generosità e creatività, dall’altra.

Valgono soprattutto per la categoria di religiosi dell’età di mezzo due particolari attenzioni, la fedeltà creativa e la facoltà di generare la vita. Questo infatti «è il tempo delle grandi responsabilità, in cui plasmiamo l’eredità che trasmettiamo a quelli che vengono dopo di noi». In un mondo caratterizzato da rapidi mutamenti, è importante la creatività, anche se non tutto ciò che è nuovo e creativo è anche necessariamente buono. Invece di ritenersi dei “campioni” in fatto di fedeltà creativa, col rischio di adagiarsi nelle posizioni acquisite, edulcorando la propria eredità e aggrappandosi saldamente al passato, non si dovrebbe mai interrompere lo sforzo di dar vita a qualcosa di nuovo che possa durare anche nel futuro.

Dai propri genitori, poi, i religiosi dovrebbero apprendere la loro fondamentale esperienza di “produrre vita nuova”. I genitori, infatti, dopo aver generato i figli, sentono anche il bisogno di trasmettere loro dei valori di fondo. Come religiosi si dovrebbe analogamente percepire l’esigenza «di comunicare alla generazione che cresce i nostri tesori di fede e di saggezza, il nostro vissuto legato a dei valori, alla cultura». Ora questa fecondità è un aspetto caratteristico della missione delle persone di mezza età, e lo si deve saper fare nel pieno rispetto della individualità e della libertà di ogni persona.

 

I “TRABOCCHETTI”

DELL’ETÀ DI MEZZO

 

Non si presterà mai una sufficiente attenzione ai trabocchetti nei quali rischiano di cadere le persone di mezza età, quando, nel pieno delle loro attività, occupano posti di grande responsabilità. Diamo pure il nome che vogliamo a questi “trabocchetti”: accidia, indolenza spirituale, demonio meridiano. Ma convinciamoci, osserva Fleming, che «le principali difficoltà di ordine spirituale ci aggrediscono nel cuore stesso della vita quotidiana». È  il caso, ad esempio, dell’egoismo. «La maggior parte di noi ritiene di avere ormai raggiunto un grado di maturità tale da consentirci di cavarcela da soli». Dopo aver fatto tutte le scelte possibili e dopo aver acquisito particolari specializzazioni, «possiamo cadere facilmente nell’attivismo, lasciandoci fagocitare da un lavoro che sembra dipendere unicamente da noi». E così, un malcelato senso di superiorità, un’attività coercitiva, un’ambizione incontrollata rischiano di compromettere seriamente ciò che Dio stesso vuole realizzare in noi.

È il caso, inoltre, delle precedenze a corto raggio. «Con le numerose responsabilità che assumiamo, possiamo ridurci a dei semplici uomini affaccendati, completamente presi dall’espletamento delle “nostre” incombenze», scambiando i mezzi con i fini e il lavoro con la missione. Quando si è orientativamente impegnati nella ricerca del successo, della buona reputazione, dei risultati accademici, di amici influenti, è facile dimenticarsi che anche dopo svariati anni di vita religiosa si può diventare superficiali e negligenti. Convinti di aver raggiunto la maturità, «si pretende di aver diritto al massimo rispetto e fiducia da parte degli altri, ci si ritiene dispensati dal rendere conto ad altri di ciò che facciamo». Ma in questo modo può essere facilmente compromesso il significato dei voti stessi.

Proprio quando ci si sente più sicuri di sé, più capaci, più efficienti, si diventa anche più impazienti. Non si sopportano e non si rispettano più i limiti, i ritmi di vita e di crescita  degli altri. Se poi sopravviene qualche insuccesso, è allora facile andare soggetti alla paralisi e allo scoraggiamento. Quante volte il peso delle proprie responsabilità invece di essere affrontato come una grande opportunità, blocca sul nascere ogni possibilità di risposta e di decisione.

Ma la tentazione più insidiosa rimane sempre l’individualismo. «La comunità costituisce una provocazione particolare alla nostra età. Molti di noi si sono fatti delle cerchie di amici che ci guardano come particolari punti di riferimento. Riteniamo di poter riuscire con i nostri mezzi e non avvertiamo alcun bisogno degli altri. Rischiamo di centrarci troppo su noi stessi, di convincerci che siamo indispensabili, di porre l’accento esclusivamente sul proprio percorso carrierista, senza preoccuparci sufficientemente del pieno sviluppo degli altri».

Tutti questi trabocchetti avrebbero vita breve se solo si prendesse sul serio l’invito del fondatore, padre Chaminade, a essere realmente dei missionari apostolici, a essere, cioè, persone inviate a evangelizzare un mondo non cristiano, persone responsabili della Chiesa nel suo insieme e capaci di elaborare nuove strategie per raggiungere le categorie di persone più trascurate e lasciate ai margini dei circuiti ufficiali della grazia. Non per nulla, in occasione della sua beatificazione, Giovanni Paolo II aveva sottolineato il suo spirito missionario creativo, la sua capacità di coinvolgere i laici e la sua particolare preoccupazione per i lontani dalla Chiesa.

 

PIÙ FIDUCIA

AI LAICI

 

Nella parte conclusiva della lettera indirizzata ai confratelli della età di mezzo, viene richiamata la loro attenzione su tre compiti specifici: la precedenza assoluta nella formazione della fede, la vicinanza ai poveri, l’attenzione ai laici. I religiosi dovrebbero essere, anzitutto, delle persone cariche di un’autentica esperienza delle vie dello Spirito. «Con l’esperienza che abbiamo acquisito, alla nostra età, possiamo essere noi queste persone che mettono le proprie risorse e la propria esperienza al servizio dell’accompagnamento spirituale». Si tratta ovviamente di impegni meno spettacolari rispetto a quelli in cui entrano in gioco tutta la perizia e le energie nel dar vita a progetti ingegnosi. Eppure, oggi come sempre, non c’è un ministero più prezioso o più necessario nella Chiesa di quello di questo accompagnamento.

Sul piano concreto dell’impegno apostolico, poi, al primo posto andrebbero sempre posti i poveri. La prima generazione della famiglia marianista, del resto, ha sempre saputo dare una sovrabbondante testimonianza in questo campo. Ma anche la Chiesa oggi, in modo più esplicito che mai, vede in questa solidarietà una parte integrante della propria missione.

A padre Fleming, però, preme ricordare ai suoi coetanei l’attenzione ai laici: «Occorre che coinvolgiamo attivamente i laici nel portare avanti la nostra missione». È una persuasione che nasce dal carisma di fondazione da una parte e dalla sensibilità ecclesiale attuale dall’altra. «Sono convinto che un coinvolgimento effettivo dei laici nella missione sia l’elemento chiave per restare fedeli al mandato che abbiamo ricevuto, come pure per inventare qualche cosa di nuovo per la Chiesa di oggi e di domani».

Del resto «non vi è nulla nell’eredità del concilio che sia in maggior armonia col nostro carisma di questo coinvolgimento attivo dei laici, tanto sul piano della spiritualità che su quello della missione». La sua concreta realizzazione dipenderà, poi, da come si saprà affiancare i laici, animandoli e incoraggiandoli in maniera convinta. È urgente camminare in questa direzione senza «essere tentati di monopolizzare questo coinvolgimento e di ricondurre tutto a noi».

Quante volte si scambia la propria condizione di religiosi o di ministri ordinati, la propria esperienza, la formazione ricevuta come dei titoli di merito in base ai quali ci si sente autorizzati a esercitare un potere e una supremazia sui laici. Non è detto assolutamente che le cose funzionino meglio «quando siamo noi a tenere saldamente il timone in mano!». Bisogna avere il coraggio, talvolta, di «affidare la missione ad altri con maggiore fiducia». Perché non confrontarsi con la santa provocazione di «lavorare per e con gli altri»?  Il coinvolgimento attivo e responsabile di un sempre maggior numero possibile di laici nella missione di pregare, di amare e di servire, conclude Fleming,  «è la stessa ragion d’essere della Chiesa».

 

LA TESTIMONIANZA

DEI “FRATELLI MAGGIORI”

 

Rivolgendosi agli ultrasettantenni, padre Fleming incoraggia subito questi “fratelli maggiori” dicendo che «fra quattro anni anch’io sarò dei vostri, e dunque la vostra situazione suscita in me un interesse esistenziale immediato». Le ragioni di questa lettera sono subito dette: un ringraziamento per quello che gli ultrasettantenni sono stati, per quello che hanno realizzato, per il loro costante e generoso impegno di vita consacrata.

Un tempo, a settant’anni, si era decisamente anziani. Oggi, al contrario, grazie ai benefici della medicina e dell’igiene, «la maggior parte di voi conduce una vita attiva, continuando a rendere vari servizi che suscitano ammirazione, partecipando in modo creativo alla vita di comunità, sia sul piano della preghiera che sul piano della missione». Quanto è stato da loro accumulato «è unico e costituisce oggetto di riflessioni, di scritti e di gruppi di studio tanto nelle province quanto nei nostri capitoli».

Tra i problemi di maggior preoccupazione in questa fascia di età è la costante e progressiva diminuzione di vocazioni. Di fronte a una tale riduzione numerica è facile sentire dovunque lamentele. Ma più «che intonare lamenti sulla nostra realtà, sarebbe preferibile che ci rallegrassimo tutti della ricchezza che rappresenta la vostra vita di religiosi anziani, che ne fossimo riconoscenti, che ci allietassimo delle possibilità creative e generose di cui non smettete di dare prova, e che facessimo tutto il nostro possibile per trasmettere la ricchezza con la quale avete vissuto e ancora vivete il carisma a quelli che vengono dopo voi, quale che sia il loro numero».

Nessuno come gli ultrasettantenni ha visto il mondo cambiare sotto i propri occhi. Hanno iniziato la loro formazione e sono giunti all’età adulta quando la cultura classica europea dominava il mondo. Era un’epoca di duri confronti tra blocchi politici e ideologici. La vita consacrata di quel tempo era un insieme di usanze apparentemente immutabili e di verità intangibili. «Le grandi case di formazione di quest’epoca erano dei simboli eloquenti della solidità apparentemente incrollabile della cultura cattolica e, contestualmente, del mondo marianista. Sembrava che nulla di essenziale dovesse o potesse mai cambiare».

La vita consacrata, in quegli anni, separata dal mondo e contrassegnata da tutta una serie di pratiche tranquillamente accettate da tutti, «sembrava assolutamente centrale nella vita della Chiesa». A differenza dei giovani religiosi di oggi, quelli più anziani avevano assimilato tutta una serie di  pratiche, come la preghiera in latino e il canto gregoriano, la lettura a tavola, il capitolo delle colpe e il piccolo ufficio dell’Immacolata concezione, da tempo cadute in disuso.

Le grandi case di formazione e tutte le forme di apostolato tradizionale erano in piena fioritura. L’unica prospettiva immaginabile era quella di una crescita lineare continua. «Mi ricordo perfettamente come negli anni ’60 facevamo delle proiezioni sull’incremento del numero dei religiosi e sognavamo le costruzioni necessarie per ospitare i nuovi membri e le nuove scuole che avremmo potuto aprire». Però, «l’illusione di un’immobilità culturale e ideologica, come pure quella di una crescita lineare sono svanite rapidamente».

I religiosi più anziani si sono visti letteralmente mancare sotto i piedi il loro humus culturale e religioso. È stato ripensato e rimesso seriamente in discussione tutto uno stile di vita. Una buona parte del passato è stata completamente rigettata. Solo più tardi si è incominciato a chiedersi se per caso non era stato perso «troppo e troppo in fretta». Anche se si credeva di avere delle idee precise sul ruolo e la missione della vita religiosa, di fatto, però, le prospettive non erano sempre così chiare. «Molti amici e compagni ci hanno lasciato per seguire altre strade, determinando in noi una certa sensazione di solitudine. Le nostre istituzioni hanno subìto delle trasformazioni che hanno rischiato talvolta di farne perdere l’identità».

 

LA CAPACITA’

DI PENTIRSI

 

Grazie al concilio, i laici sono andati assumendo nuove responsabilità negli istituti religiosi e all’interno della Chiesa, fino al punto da vedere in loro i protagonisti del futuro. Il semplice fatto, però, di essere “sopravvissuti” e di avere tenuto fede a un impegno permanente, come religiosi, in tempi segnati da tali cambiamenti «non è cosa da poco ed è certamente una grazia». Nonostante tutti gli ostacoli e le delusioni «sono convinto che il vostro tempo, nella lunga storia della vita religiosa, sarà ritenuto come un tempo di creatività e di coraggio straordinario. Nulla dei valori ai quali vi siete attaccati andrà perduto».

Non solo, infatti, sono stati mantenuti e difesi i primi impegni apostolici voluti dal fondatore, nel campo educativo e in quello pastorale, ma sono stati creati nuovi apostolati, dall’accompagnamento spirituale e la formazione di comunità cristiane laiche al servizio dei poveri e a nuove forme di educazione con metodi alternativi. Sono nate nuove comunità e nuovi gruppi, religiosi e laici, in una ventina di paesi «dove non eravamo ancora presenti quando siete entrati nella società di Maria». Come insegnanti, autori di libri, parroci, animatori e organizzatori di gruppi giovanili, periti tecnici e uomini tuttofare, amministratori «avete trasmesso il meglio della cultura cattolica e vi siete molto adoperati per sviluppare gli straordinari apporti del Vaticano II». Si è trattato di un adattamento reso difficile dalle rapide trasformazioni in atto e vissuto da ognuno con una sua propria storia particolare. È difficile anche solo ricordare i tanti sofferti stati d’animo di questi anni: dalla negazione dei problemi alla ricerca e all’accusa di un responsabile, dall’accusa alla ricerca di soluzioni, dalla ricerca di soluzioni alla rassegnazione a un inevitabile declino, dalla rassegnazione alla speranza in un avvenire migliore.

A una certa età, ripensando alla propria esperienza di vita religiosa, sono inevitabili risentimenti e dispiaceri. Ma guai a bloccarsi in questi stati d’animo e a non percorrere convintamene le vie della riconciliazione, del pentimento e del perdono reciproco. «Il ritmo meno intenso dell’attuale fase della vostra vita è quanto mai favorevole alla riconciliazione: vi offre l’opportunità di ricominciare da capo, sbarazzandovi di certe vecchie ferite riportate in esperienze passate».

Nessuna età «è esente da rischi». Neanche quella degli ultrasettantenni. I pericoli di lasciarsi prendere dalla stanchezza, dalla tristezza o dal rimpianto sono dietro l’angolo. «È facile lasciarsi assorbire dai malanni fisici e dai limiti del quotidiano. Si può essere ossessionati dai conflitti e dalle seccature della comunità e talvolta dall’incomprensione delle giovani generazioni». Quanto è facile idealizzare il passato, estraniarsi del tutto dalle problematiche del nostro tempo, muoversi nell’ambito ristretto dei propri e molto limitati interessi, in una continua ricerca delle proprie comodità. In tanti anni di vita è facile acquisire una certa abilità nel giustificare se stessi. Si è facilmente portati a razionalizzare il proprio comportamento: «Siamo stanchi. Abbiamo fatto del nostro meglio in questo mondo così difficile. Ora abbiamo diritto a un meritato riposo, e a vivere in pace».  Ma installandosi in una vita apparentemente comoda e tranquilla, spesso contrassegnata dalla noia, è facile trasmettere agli altri una specie di “disperazione cinica” e di perdita di ogni idealismo nella propria vita.

 

NON È MAI

TEMPO DI PENSIONE

 

La tentazione, forse più frequente è, tuttavia, quella di un atteggiamento “burbero e scontroso” di fronte ai numerosi problemi, grandi e piccoli, del quotidiano. «Se cediamo a tali tentazioni, siamo ben lontani dall’essere quei religiosi anziani ponderati, sereni e integrati che aiutano a credere che la vita marianista vale veramente la pena di essere vissuta». Non si tratta, forse, in questi casi, di una abdicazione vera e propria alla propria vocazione?

Progredendo negli anni è esperienza comune anche di tanti religiosi che la vita diventa più semplice e spoglia, centrata sulle poche cose che contano veramente. Si comprende meglio anche l’invito evangelico ad abbandonare prontamente le tante reti che legano una persona al proprio vissuto. «Quando invecchiamo, se non scopriamo nuovamente il Signore, non resterà più nulla», arrivando fino al punto di dubitare seriamente dell’utilità della propria vita.

Traumatizzati dal numero esiguo di confratelli giovani, è facile dimenticarsi che una certa tranquillità e una certa serenità interiore possono venire solamente da una nuova relazione personale con il Signore. Lo stesso fondatore dei marianisti, proprio durante i suoi ultimi anni, quando fu «ignorato e messo da parte dai suoi discepoli», è diventato «un modello di fedeltà, di crescita continua e di mantenimento dello spirito missionario».

Qualunque sia la propria età, in quanto religiosi, «non andiamo mai in pensione». Lasciando alle spalle il passato, non vanno, però, mai sottovalutate le nuove possibilità che si aprono davanti alla vita di un anziano. A quest’età, si dovrebbe avere la possibilità di lavorare per il semplice piacere di farlo piuttosto che per assolvere a un dovere sociale. È possibile essere creativi dando vita a nuove forme di servizio, senza sentirsi condizionati dal reddito o dalla burocrazia. «Il nostro lavoro, offerto gratuitamente, diventa maggiormente fruttuoso e generatore di nuova vita per un domani». Ma proprio per questo è penoso costatare come mentre alcuni religiosi anziani sono tenacemente aggrappati a compiti e funzioni di autorità e di prestigio, altri hanno, invece, tutta l’aria di essere dei “nullafacenti”. È penoso apparire ed essere percepiti come delle persone sterili, senza prole.

Ciò che padre Fleming vorrebbe soprattutto far comprendere ai suoi “fratelli maggiori” è la grande opportunità offerta loro proprio a quell’età. Sono i fatti stessi a consolidare in lui questa convinzione. Molti suoi confratelli anziani, infatti, continuano a essere attivamente presenti nelle comunità dove per lungo tempo hanno reso il loro servizio, mantenendo i contatti con le persone che hanno avuto modo di conoscere durante i numerosi anni di attività, offrendo a tutti «la testimonianza di persone che non cessano di darsi con amore per affrettare l’avvento del regno di Dio». Altri vivono in case di preghiera o in centri di spiritualità, come ricercati maestri di spirito e concretamente impegnati nella pastorale vocazionale. Non mancano, inoltre, quanti sono disponibili all’accoglienza dei poveri, degli immigrati e dei gruppi etnici minoritari, sempre attenti a tutte le forme delle nuove povertà. Non mancano neanche confratelli che «hanno avuto il coraggio di ricominciare la vita marianista in nuovi settori, un po’ come Abramo che ha lasciato le comodità di Ur in Caldea all’età di 80 anni». La testimonianza gratuita di tanti confratelli anziani, conclude padre Fleming, «è una chiara dimostrazione del fatto che Dio non ci lascia mai senza risorse per il servizio degli altri».

 

Angelo Arrighini