IL CARISMA: TERRENO PER LE VOCAZIONI

OCCHI PER VEDERE E CUORE PER CAPIRE

 

Basterà la significatività a salvare l’istituto? La crisi vocazionale è relativa al carisma o all’istituzione; è un fenomeno soggetto alla globalizzazione? Sono queste alcune delle domande con cui è necessario confrontarsi se si vogliono affrontare i problemi reali.

 

Uno dei temi  ricorrenti è quello della significatività… Sarà il ricupero di  questa che salverà i nostri istituti?

 

Diceva p. Timothy Radcliffe: «Noi siamo in un nuovo mondo, nel quale ciò che circola principalmente sono i segni e i simboli… I pubblicitari sanno  che quello che consumiamo oggi non sono tanto i prodotti quanto i segni culturali». Allora anche per la vita consacrata la necessaria creatività carismatica non può non confrontarsi, nello stile di vita e nelle scelte apostoliche, con la dimensione simbolica. Una data attività deve rispondere alla domanda: ciò che sto facendo è importante per il servizio che rende o per la significatività in ordine alla  missione? Il male di cui soffre la vita religiosa e che l’ha portata pian piano alla emarginazione non è l’improduttività ma l’insignificanza. Nessuno investe la vita in ciò che non ha significato, cioè senso, per me, oggi. La significatività non è standardizzabile, varia da cultura a cultura, dunque da un’area geografica ad un’altra, anzi da territorio a territorio; e una forma che è significativa oggi non è detto che lo sia domani perché tende alla cristallizzazione com’è avvenuto nel corso dei secoli relativamente a vari suoi valori: ad esempio la vita di comunione tende a materializzarsi nel vivere sotto lo stesso tetto; la vita di povertà, nel chiedere i permessi; la preghiera, nelle pratiche di pietà; il Dio solo mi basta, nelle grate. Ogni carisma ha la necessità di assumere, inventare, dare nuovi volti, nuove espressioni alla dimensione simbolica per la cultura entro cui è inserita.

La seconda parte della domanda messa a tema diceva: sarà il ricupero di  questa che salverà i nostri istituti? Penso che la soluzione venga da come un dato istituto risponderà ad altre previe domande a partire dalla situazione di fatto che accomuna tutti gli istituti, cioè la dimensione numerica, anagrafica dei religiosi/e e il tasso di nostalgia. Alcune di queste domande sono: siamo in grado di dare nuove espressioni a quella creatività carismatica, che pure è nel patrimonio genetico di ogni istituto, perché è da quella che siamo scaturiti? In quali settori, in quali spazi della vita e della cultura di oggi è possibile offrire nuovi segni, nuovi simboli? Siamo capaci di radicamento nei contesti concreti di vita delle persone, nella loro vita personale e comunitaria?

I carismi, quelli veramente tali, che hanno dato origine alle varie forme di vita religiosa, certamente non verranno meno perché opera dello Spirito, mentre le forme storiche opera dell’uomo e del tempo, seguono la parabola umana che è quella di nascere, crescere, invecchiare e morire. Il darsi da fare principalmente per progetti di mantenimento è il sistema usato per ignorare la crisi. Scrive p. F. Martinez: «La fenomenologia degli esercizi di sopravvivenza in questo tempo è molto ampia nella vita religiosa; è ampia a livello personale e lo è anche a livello istituzionale». Sembra prevalere la logica di chi dice: «Fin che la barca va lasciala andare».

Il teologo Chino Biscontin, parlando alla recente assemblea CISM-USMI del nord-est, ebbe a dire: «Un treno in corsa, anche se il motore si fermasse, continuerà la sua corsa. Qualcuno potrebbe avere l’impressione che questo andare serva anche se non porta da nessuna parte?». È un andare avanti come se nulla fosse successo. Questa distrazione è ancora oggi molto frequente. Agli istituti  non rimane che sviluppare progettualità, prima ancora che progettazioni. Progettualità significa capacità di guardare oltre il dato immediato nell’equilibrio tra concretezza e utopia e nella tensione fra essere e poter essere non disdegnando di intraprendere dei fuori pista nella ricerca di sorgenti più profonde di vita, a partire dalla consapevolezza che la paura è l’elemento che mina alla base ogni progettazione. Si dice che p. Arrupe ripetesse: «Abbiamo paura del rischio e per questo non cambiamo; ma il rischio maggiore è non rischiare»;1 e p. Arnold: «moriamo perché siamo troppo prudenti e saggi». Lo Spirito nella sua follia non trova più la breccia attraverso cui penetrare per mobilitarci».2

 

Da una parte sono contento del primato numerico di vocazioni del mio continente asiatico in confronto con l’Europa; dall’altra, però, mi fa riflettere il fatto che l’Europa in molti settori (non solo economico) è immagine prefigurativa di ciò che anche noi saremo… Tale fenomeno (globalizzazione) non inciderà anche sul concetto di vocazione e poi sul numero di vocazioni?

 

Il  concetto di vita consacrata intesa come vita totalmente donata a Dio e ai fratelli,  che sia memoria vivente del modo di esistere e di agire di Gesù, era, è, e rimarrà lo stesso in qualsiasi continente, ma, nel tempo,  cambia ciò che fa decidere per essa perché frutto di molti fattori, differenti in ogni area geografica. Per alcuni versi il motivo per cui oggi in Europa scarseggiano le vocazioni è lo stesso per cui un tempo c’erano. Mi spiego con un esempio: circa 60 anni fa il seminario di Trento (maggiore e minore) contava circa 1.000 alunni. Nella stessa diocesi esistevano altre 26 case di formazione di religiosi/e con circa 1.700 presenze. Attualmente i seminaristi sono 12, e 15 i religiosi/e (del Trentino) in formazione. Dunque si è passati da 2.700 a 27!

Si è soliti giustificare il fatto con il dire che oggi ci sono meno figli, meno fede, ecc… motivazioni evidentemente vere ma non congrue perché né la fede, né i figli sono vertiginosamente diminuiti in quella proporzione, mentre non si porta sufficientemente l’attenzione ai problemi che la scelta vocazionale risolveva. Ad esempio nelle vallate non c’erano scuole medie e superiori e anche il lavoro mancava, per cui per sopravvivere si emigrava o si studiava: erano le uniche possibilità per uscire dalla situazione di precarietà materiale e culturale che permettessero di raggiungere una posizione di vita meno dura. Per studiare ci si doveva portare nelle scuole di città, difficilmente raggiungibili, oppure in seminario o in una sede di formazione dei religiosi/e. Se a quel tempo questi bisogni contribuivano a riempire le strutture formative, oggi questi stessi bisogni, diversamente soddisfatti, sono uno dei motivi rilevanti per cui i seminari e le scuole apostoliche si sono svuotate. Con questo non intendo dire che a dare origine alla vocazione sia il bisogno materiale ma che certamente questo rende disponibili a prospettive che agevolano la soluzione di alcuni problemi dell’esistenza. Pure questo può spiegare il fatto che aree per un verso fortemente svantaggiate siano invece molto favorite vocazionalmente.

In una assemblea dei superiori maggiori del sud-est asiatico mons. Tan Chee, parlando di vocazioni, ebbe a dire: «Di proposito uso il termine moderno perché quello di postmoderno non è ancora applicabile in Asia anche se alcuni influssi sono già avvertibili. Ci sono paesi come Myanmar, il Laos e la Cambogia in cui mi domando se persino il termine moderno possa essere applicato».  Quanto durerà il premoderno?

Chiaramente non sono soltanto queste le motivazioni all’origine della attuale situazione vocazionale in Europa. Un altro fattore, per esempio, è che a date forme di vita religiosa si era orientati in larga misura per motivazioni di carattere caritativo e sociale che andavano a costituire un «proprio» della vita religiosa; ora in presenza di tali motivazioni molti giovani scelgono una professione che li qualifica di più nel settore specifico.

A questo punto, tuttavia, mi pare ci sia un dato debole nel mio argomentare che è quello di relegare il concetto di vocazione unicamente alle forme di speciale consacrazione. Uno dei meriti dell’attuale ecclesiologia è proprio quello di aver fatto aprire gli occhi su varie appropriazioni indebite quali quelle di limitare i concetti di operai della messe, ministero, vocazione, soltanto ad alcune forme di discepolato. Se per vocazione intendiamo una particolare elezione da parte di Cristo a investire la vita in prospettive di missionarietà evangelica, questa chiamata non è riservata soltanto a quei pochi che si riconoscono in alcune forme istituzionali. San Paolo scrivendo ai cristiani di Tessalonica (1Ts 1,1-4) diceva: «Noi ben sappiamo, fratelli amati da Dio che siete stati eletti da lui». «Ringraziamo sempre Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere, continuamente memori davanti a Dio e Padre nostro del vostro impegno nella fede, della vostra operosità nella carità».

Se questo è vero, allora è pertinente la domanda: le vocazioni in questi ultimi quarant’ anni sono davvero diminuite? La domanda è suggerita dall’espressione di un parroco che diceva: «Quando si pregava meno per le vocazioni queste c’erano, oggi con giornate, tridui, novene … le vocazioni sono rare».

Se si è disponibili a ripulire il concetto di vocazione da incrostazioni concettuali è possibile accorgersi che le tante preghiere per le vocazioni hanno dato frutto facendo prendere coscienza che i talenti che il cristiano scopre in sé vanno spesi in dimensione vocazionale; infatti nella Chiesa sono cresciuti i carismi e aumentata la ministerialità. Mai come oggi ci sono numerosi laici  che vivono vocazionalmente la propria professione impegnati in molti luoghi di condivisione con i giovani e adulti in difficoltà, nelle nuove povertà  o in terra di missione. Sono cresciuti di numero coloro (giovani e adulti) che mettono a disposizione doti, capacità, attitudini a favore degli altri, come stile di vita  e non soltanto come prestatori occasionali di azioni gratuite. Se poi portiamo lo sguardo all’interno delle tante strutture sanitarie, di accoglienza e scolastiche dei religiosi/e  vediamo che oltre il 90% sono portate avanti da laici e laiche, in molti casi, con non meno passione e non solo per fini lavorativi. Un mio confratello insegnante mi diceva: «Non capisco perché se la scuola la faccio io, si chiama apostolato, e se la fa un laico si chiama lavoro».

Inoltre sono cresciute  le molteplici forme discepolari espresse dai movimenti ecclesiali definiti da  Giovanni Paolo II  «manifestazione di energia e di vitalità ecclesiale da considerarsi certamente uno dei frutti più belli del vasto e profondo rinnovamento spirituale». Se, ancora, portiamo l’attenzione sulle molteplici recenti forme di vita consacrata, che si ritrovano sotto il nome di nuove forme di vita evangelica, viene da dire che anche in Europa la crisi di vocazioni non è profonda come sembra, mentre sono in difficoltà certi modelli deculturati di religioso. A tale asserzione qualcuno potrebbe rispondere: «Ma allora per quale motivo sembrano avere fortuna alcune forme ancorate al passato?». È vero che «pare scattare una certa attrazione, da parte giovanile, verso queste forme un po’ ridondanti di vita comune e di osservanza molto rigorosa. Forse anche per compensare quella carenza interiore personale d’identità, con l’appartenenza a un gruppo forte e ben configurato, preciso nei suoi scopi e ideali, con un’identità collettiva al di sopra di ogni altro dubbio e incertezza».3

Dopo queste argomentazioni rimane la domanda: «Come deve porsi la vita religiosa di fronte a tutto ciò, partendo dal fatto di sentirsi sempre più minoranza?» La risposta ci viene da Ripartire da Cristo (13): «Questo fatto può essere letto come un segno provvidenziale che invita a recuperare il proprio compito essenziale di lievito, di fermento,  di segno e di profezia». Certamente la Chiesa non può fare a meno di persone  che fanno girare tutta la giornata, per tutta la vita su valori evangelici, testimoni gioiosi dell’Assoluto, che si pongono in funzione di fermento (non in funzione di sé) e di sale, (dunque piccolissima porzione), all’interno della pasta. Già da tempo non mancano delle forme di vita consacrata che sono nate e continuano a vivere in evidente funzione, appunto, di fermento. A modo di esempio accenno alla comunità di Taizè che dopo sessant’anni di vita, sempre alla ribalta, conta il ristretto numero di circa 120 membri, pur essendo quotidianamente immersa in grandi numeri di giovani incuriositi dalla loro proposta. Recentemente, dopo la celebrazione di commiato dal fondatore è stato chiesto ad un fratello della comunità se temesse per la stessa. La sua risposta fu: l’impegno di tutti questi anni non è stato quello di promuovere la forma ma il carisma che ha contagiato centinaia di migliaia di giovani che per viverlo non necessariamente si sono fatti fratelli. Dunque il carisma è stato e continua a essere suscitatore di sempre nuove vocazioni inserite nel proprio naturale terreno che è la Chiesa in cui vivono.

 

Rino Cozza csj

1 In Dove ci porta il Signore, Ed.Paoline 2005.

2 ib.

3 A.Cencini, L’albero della vita, ed S. Paolo.