GRATITUDINE RISORSA INASPETTATA

SAPER DIRE GRAZIE

 

La gratitudine sboccia nel cuore di chi è capace di avere uno sguardo contemplativo sulle meraviglie che Dio opera. Essa permette nella vita di tutti i giorni di scoprire potenzialità positive persino nelle situazioni difficili. È una straordinaria risorsa propulsiva sia per la persona, sia per la vita comunitaria.

 

Ad attirare l’attenzione su questo aspetto della vita spirituale è stato l’abate generale degli olivetani, dom Michelangelo Tiribilli, nella lettera inviata all’ordine in occasione del Natale scorso, in cui invita i confratelli a fermarsi a contemplare il grande dono che Dio ha fatto al mondo inviando a noi il suo Figlio, e ad allargare lo sguardo a tutti gli altri doni che devono diventare fonte di un continuo rendimento di grazie.

Ma la gratitudine non è un sentimento del tutto ovvio, come potrebbe sembrare. «Non sempre – scrive infatti l’abate Tiribilli – ci è facile far vibrare il nostro animo di riconoscenza; restiamo chiusi nella nostra rassegnazione, nella nostra abitudinarietà. Le tensioni interiori, i risentimenti e le recriminazioni, provocate dal nostro rifiuto della realtà, così come ci sembra essere, c’impediscono di apprezzare le tante cose buone ricevute dal Signore direttamente, o per mezzo di altri… Talvolta siamo oppressi dalle lamentele nostre e di altri, dalle polemiche, da recriminazioni; continuiamo a piangerci addosso con continue geremiadi…».

Se vissuta, «la gratitudine ci apre gli occhi di fronte alle mille cose buone che ci circondano, anzi, ci spalanca gli occhi del cuore, permettendoci di scoprire potenzialità positive anche in situazioni difficili. Sì, la gratitudine può essere la spinta propulsiva che ci permette di scorgere nei momenti critici soluzioni inedite». Si tratta di una scoperta che «ci spinge gradualmente a non sentirci più vittime, bensì responsabili e capaci di valorizzare al meglio tutto quello che riceviamo dal Padre, datore di tutto. Questa attenzione ci fa uscire dalla gabbia del nostro passato negativo e magari dalla irrealtà, che noi ci siamo costruiti e che ci chiude in noi stessi di fronte ai confratelli, alle consorelle, alla comunità, all’abate».

«La gratitudine, prosegue la lettera, è una luce che ci illumina su un presente assai più ricco dei nostri pessimismi, dei nostri piagnistei (per qualcuno, per qualcuna è diventata un’abitudine inveterata…). È la consapevolezza del divino in azione. Per questo ci conduce a vivere in quel necessario atteggiamento di gioiosa umiltà che ci permette di apprezzare il nostro posto speciale nel luogo e nel tempo che viviamo, come la migliore opportunità che il Signore ci offre per la nostra felicità, “perché la felicità non è semplicemente ciò che non ho e che o spero di avere, ma anche ciò che gusto”» (P. Ricoeur).

Essa si trasforma in una grande «risorsa per la crescita della nostra vita spirituale personale e comunitaria». Infatti, «più impariamo a coltivarla per i piccoli e per i grandi doni, e più ci capiterà di fare attenzione, di sentirei riconoscenti, anzi di stupirci per il dono immenso che in Cristo ci viene dato dal Padre: sì in Cristo ci viene donato tutto nel tempo e nell’ eternità beata: “Della sua pienezza infatti noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia”» (Gv 1, 16). Ed è «un’ opportunità per la nostra vita comunitaria, spesso appiattita nel rimpianto del passato, rassegnata e inerte sul presente, priva di speranza per il futuro». Dom Michelangelo si domanda: «Perché, confratelli e consorelle carissimi, in qualche vostra riunione comunitaria, invece di criticare le cose che non vanno, non la iniziate con l’evidenziare ciascuno le cose buone che ci sono nella comunità, in ciascuno dei confratelli, e insieme ringraziare il Signore?».

 

DOVE SFOCIA

LA GRATITUDINE

 

«La riconoscenza gioiosa e ammirata del dono – e il ringraziamento di lode per averlo ricevuto –  osserva ancora l’abate, ci apre conseguentemente alla contemplazione, a questo elemento essenziale della spiritualità monastica, anzi in fondo anche di quella cristiana; … e ci spinge ad approfondire il senso, il fine, le motivazioni per quanto abbiamo ricevuto; in altre parole ci fa sentire la necessità di abituarci ad avere uno sguardo contemplativo».

A suscitare e a tenere desto un tale questo sguardo coopera grandemente la liturgia che «se celebrata con una partecipazione attiva, consapevole, piena, ci sollecita a una contemplazione operosa, provocata dalla dinamica celebrativa; contemplazione che si sviluppa nell’ adorazione, nell’ ammirazione, che è gratitudine, affetto, attrazione, obbedienza gioiosa, senso della beata presenza», e si rilette di conseguenza sul comportamento e le decisioni.

In effetti, «è proprio l’attitudine a questo sguardo contemplativo che ci rende capaci di una lettura profonda, di discernimento della realtà, delle persone, degli eventi, delle esperienze di vita; dà ad essa una valenza diversa provocata dalla luce della fede e dal contatto assiduo con la parola di Dio. Per questo Giovanni Paolo II ha detto ai consacrati: “Il vostro primo impegno non può non essere nella linea della contemplazione. Ogni realtà di vita consacrata nasce e ogni giorno si rigenera nell’incessante contemplazione del volto di Cristo”» (omelia del 2 febbraio 2001).

Per quale ragione, si domanda l’abate, ho ritenuto opportuno, anzi necessario prendere il vostro tempo per spronarvi a riflettere su questa dimensione della nostra fisionomia monastica? Perché,  risponde, anche noi, come tante comunità, meritiamo il rimprovero che Giovanni Paolo II ha paternamente rivolto ai cristiani del nostro tempo (vedi n.15 della sopraccitata Lettera apostolica)». Infatti, «anche noi monaci e monache in questo tempo di continuo movimento che giunge spesso all’agitazione, rischiamo più di fare e che di essere; oppure non solo la Chiesa e i vescovi, ma anche gli uomini d’oggi, quasi stomacati di troppo materialismo, cercano, attendono dalle comunità monastiche un aiuto per uscirne fuori, domandano a noi di condividere la nostra esperienza contemplativa, ci lanciano messaggi, magari trasversali, con i quali ci sollecitano a rendere anche loro capaci di sguardo contemplativo. Per questo essere contemplativi significa essere uomini e donne del nostro tempo».

 

UNO SGUARDO

NUOVO

 

Approfondendo questo argomento, dom Michelangelo osserva: «Contemplare è vedere la realtà alla luce della fede per ri-comprenderla, fondandosi sulla misericordia del Padre, con l’amore di Cristo, che si fa oggetto di preghiera, di penetrazione nella fede, nella consapevolezza che Dio è presente in essa, allo scopo di discernere quello che è o tende a essere conforme al progetto di Dio da quello che è influenzato dallo spirito del male.

Affinando il nostro sguardo contemplativo, si diventa capaci di percepire nell’oggi i “semi del Verbo”, facendone oggetto di stupore e di gioia profonda, di sperimentare uno stato d’animo di speranza teologale, che crede che il presente è opportunità di salvezza, e in ogni presente c’è un germe di futuro; il contemplativo è una persona che ha l’istinto della speranza e la sa comunicare ai fratelli, perché sa che il futuro migliore è “già” in germe ora.

Sviluppare questa dimensione contemplativa nella nostra vita, significa esperimentare a livelli di profondità una serenità, che il viavai quotidiano e le immancabili contrarietà non possono turbare.

Inoltre l’attività contemplativa ci dà una capacità di solidarietà con quanto c’è di Dio in ogni persona, in ogni avvenimento, in ogni situazione, perché ha il senso di Dio.

Naturalmente, come afferma la Chiesa, “senza una vita interiore di amore che attira a se il Verbo, il Padre, lo Spirito, non può, esserci sguardo di fede; di conseguenza la propria vita perde gradatamente senso, il volto dei fratelli si fa opaco ed è impossibile scoprirvi il volto di Cristo, gli avvenimenti della storia rimangono ambigui quando non privi di speranza “, la missione monastica decade in attività dispersiva (cf. Ripartire da Cristo 25).

Recuperare e incrementare questa nostra caratteristica monastica significa vivere in stato di oblatività, disposti a fare in tutto la volontà di Dio, in qualunque modo si manifesti; significa vivere il silenzio nel cuore dell’azione, silenzio che permette di vivere nella vigilanza, nella speranza, nella preghiera, nell’ anelito di quanto manca; ne fa oggetto di supplica, perché il Signore colmi la nostra impotenza con la sua grazia, a favore dell’umanità. Proprio per questo il contemplativo fa storia, quella di Dio, con la costanza, la forza e l’amore dello Spirito».

un linguaggio

non sempre accettato

«Sì, lo comprendo – commenta l’abate –  questo linguaggio non sempre è accettato, ma la forza dei fatti sta a dirci che come in passato, anche oggi l’autentica vita monastica è sempre attuale. I monasteri anche nel nostro tempo, con il loro ambiente, in un equilibrato rapporto fra salmodia e lavoro, con il silenzio e nella comunione fraterna, possono realizzare comunità di contemplativi, che accolgono e fanno proprio il mistero dell’accondiscendenza divina verso l’uomo, verso ogni uomo, essa ha toccato il suo culmine nella Incarnazione redentrice.

Il mistico Divo Barsotti, ormai novantenne, parlando della contemplazione e della mistica nella postmodernità, ha detto: “È per il mistero della incarnazione che non solo vengono superate le barriere, ma si realizza pienamente un rapporto che è comunione di amore. Dio, facendosi uomo, può parlarmi e io posso parlare a lui...

Essendo Dio che si fa uomo, il rapporto diviene personale... L’uomo vivrà sempre per l’Assoluto, e l’Assoluto soltanto potrà dare una risposta ai suoi problemi più profondi. E noi monaci e monache dobbiamo essere capaci di rispondere. Non è forse un segno dei tempi che si registri oggi nel mondo, nonostante gli ampi processi secolarizzazione, una diffusa esigenza di spiritualità... Noi abbiamo il dovere di mostrare a quali profondità possa portare il rapporto con lui” (Nmi 34). E tanto più noi monaci e monache! Insisto ancora!».

La lettera dell’abate Tiribilli cita anche quanto hanno scritto i vescovi italiani nella nota pastorale Questa è la nostra fede del 22 maggio 2005: «Non meno decisivo e prezioso è l’apporto delle comunità monastiche alla evangelizzazione. La partecipazione radicale al mistero pasquale della morte e risurrezione del Signore da parte di donne e uomini che lasciata la vita secondo il mondo, si dedicano alla celebrazione della santa liturgia, alla meditazione della parola di Dio, al cammino ascetico e al lavoro quotidiano – fa dei monasteri un segno trasparente di vita nuova, capace di contribuire incisivamente alla edificazione della Chiesa e alla costruzione della stessa città terrena, in attesa di quella celeste» (22).

Concludendo, l’abate attira l’attenzione su Maria «modello della fecondità della sintesi tra contemplazione e impegno, tra l’Ora et Labora» e invita ad affidarsi fiduciosi alla sua materna intercessione.