IL PUNTO SULL’ECUMENISMO

UNA FASE DI TRANSIZIONE

 

Il papa Benedetto XVI ha assicurato che l’ecumenismo rimane una priorità del suo pontificato. Senza ignorare i colloqui ad alto livello, sembra che oggi si debba investire maggiormente su un ecumenismo popolare per far sì che tutta la Chiesa acquisti uno stile di vita ecumenico.

 

 “Se due o tre si riuniscono per invocare il mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20): ecco il versetto biblico suggerito alla meditazione delle comunità cristiane di tutto il mondo per l’edizione 2006 della tradizionale Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Una parola di consolazione e di speranza, dunque, tanto più significativa in quanto scelta per l’occorrenza dalle chiese dell’Irlanda: un paese che nel corso del novecento ha registrato, com’è noto, profonde lacerazioni e violenze a ripetizione, e in cui lo stesso appello religioso è stato volentieri strumentalizzato e usato ad arte per sacralizzare il conflitto in atto.

La Settimana, anche quest’anno, rappresenta un’opportunità privilegiata per sondare lo stato di salute del movimento ecumenico. Gli studiosi del quale, solitamente, per indicarla, prediligono ricorrere a metafore atmosferiche, a partire – almeno in chiave cattolica – da quella pietra miliare che resta il decreto conciliare Unitatis redintegratio: di seguito, ci sarebbe stata una primavera calda di ottimismi e poi più tiepida, cui sarebbe succeduto un inverno più realista del re, che ha riportato alla luce tutta una serie di questioni dimenticate – ma non risolte – nell’entusiasmo tanto comprensibile quanto un po’ ingenuo di quegli anni sessanta-settanta. Ora, sembra che, come si dice rischiando il luogo comune, siano sparite le stagioni (e ancor più le mezze stagioni): per cui improvvisi temporali si abbattono dopo alcune timide schiarite, e sui nuovi germogli piombano gelate improvvise, che riportano il barometro sul tempo plumbeo…

 

TRA CHIUSURE

E APERTURE

 

Fuor di metafora, in sintesi, l’ecumenismo sta attraversando una classica fase di transizione, contrassegnata alternativamente da chiusure (tante), incertezze (ancor di più) e aperture (qui e là). Per molti motivi. «Grazie all’immigrazione – avverte mons. Aldo Giordano dal suo osservatorio privilegiato di segretario del Consiglio delle Conferenze episcopali europee (CCEE) – in Europa si vive oggi un pluralismo religioso e culturale che deve spingere i cristiani a interrogarsi su come contribuire a un incontro tra religioni e culture favorendo il dialogo interreligioso, ma anche su come annunciare il Vangelo alle altre religioni. La difficoltà del confronto emerge soprattutto sulle questioni etiche, dove spesso ci sono distanze notevoli. Bisogna superare l’ecumenismo eurocentrico, ma soprattutto non si può andare avanti nel dialogo ecumenico se non si conosce e vive il cristianesimo in modo pieno e autentico». Gli spunti sono intriganti: tanto più che fra poco più di un anno e mezzo si terrà la terza assemblea ecumenica europea (AEE3; info www.eea3.org), dopo Basilea 1989 e Graz 1997, organizzata dal CCEE e dalla Conferenza delle Chiese europee (KEK) sul tema La luce di Cristo illumina tutti. Speranza di rinnovamento ed unità in Europa. Tremila delegati ufficiali delle chiese e dei movimenti cristiani del vecchio continente si riuniranno nella città romena di Sibiu per quella che sarà solo la tappa finale di un articolato percorso – il processo assembleare è stato pensato come una sorta di pellegrinaggio ecumenico – che passa attraverso una serie di incontri continentali, nazionali e locali. Per avviare la macchina, già dal 24 al 27 gennaio prossimi, 150 delegati di chiese, conferenze episcopali, organismi, comunità e movimenti ecumenici d’Europa s’incontreranno a Roma: l’idea è appunto di realizzare un pellegrinaggio simbolico per incontrare le ricchezze delle diverse tradizioni cristiane europee. La terza tappa si svolgerà in Germania, a Wittenberg-Lutherstadt (15-18 febbraio 2007), mentre la seconda tappa vedrà una serie di incontri nazionali e/o regionali da programmarsi in tutta Europa fra la seconda metà del 2006 e l’inizio del 2007. Tanti i nodi che quell’assemblea sarà chiamata a tentare di sciogliere: fra questi, i difficili rapporti tra confessioni, le sfide interne al movimento e i problemi nel rapporto con la società. Fra gli altri, e non da ultimo, il grado di ricezione della Charta Oecumenica, stipulata a Strasburgo nell’aprile 2001 e auspicabile legge-quadro delle relazioni fra le chiese europee.

Ma soprattutto, direi, sarà importante capire se il cammino ecumenico è sin d’ora in grado di effettuare quel salto di qualità che appare indispensabile in una stagione di enormi accelerazioni nei mondi religiosi, o è rassegnato a vivacchiare su qualche limitato successo, relegato definitivamente ai margini della vita delle rispettive chiese. Questo, infatti, resta il punto nevralgico: l’urgenza che da parte delle chiese – tutte – s’investa finalmente più e meglio nella direzione di un ecumenismo popolare, operando sulla formazione, purificando i linguaggi, portando lo studio delle confessioni cristiane altre nel cuore dei curricula teologici e nell’insegnamento religioso a scuola, e così via (lo stesso vale, naturalmente, per il dialogo interreligioso, esigenza oggi sempre più pressante). In altri termini, occorrerebbe finirla di pensare le chiese e la loro pastorale divisa in compartimenti stagni: o tutta la comunità acquista uno stile di vita ecumenico, aperto, accogliente, o gli sforzi di qualsiasi itinerario verso l’unità sono destinati a essere vani, inconcludenti. Come argomenta chiaramente l’enciclica di Giovanni Paolo II Ut unum sint (1995): «Il movimento a favore dell’unità dei cristiani non è soltanto una qualche appendice, che si aggiunge all’attività tradizionale della chiesa. Al contrario, esso appartiene organicamente alla sua vita e alla sua azione» (20).

 

PER BENEDETTO XVI

RESTA UNA PRIORITÀ

 

Agli occhi degli ottimisti, di quanti si ostinano a scrutare l’orizzonte per cogliere i minimi segni dell’agognata conclusione dell’inverno ecumenico, non sono mancati, negli ultimi mesi, indizi positivi. A partire dallo stesso avvento al papato di Benedetto XVI, che – nel discorso ai cardinali riuniti nella Cappella Sistina unanimemente letto come un vero e proprio programma di pontificato, il giorno dopo la sua elezione – assicurava di voler proseguire, sulla scia del predecessore, nella via maestra del dialogo con le religioni, le culture e con quanti «cercano una risposta alle domande fondamentali dell’esistenza». Assumendo «l’impegno primario – secondo le sue parole – di lavorare senza risparmio di energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo», ben sapendo quanto tale tremenda frattura costituisca una pesantissima controtestimonianza all’annuncio evangelico. Tema ripreso domenica 24 aprile 2005, durante l’omelia dell’Eucaristia d’esordio, con la poetica sottolineatura della rete da pesca ora strappata (Gv 21,11), in funzione dell’unità dei cristiani, e il giorno successivo, nella sala Clementina, quando di fronte ai rappresentanti delle altre chiese cristiane Joseph Ratzinger riproponeva la direttrice di un ecumenismo spirituale e l’imperativo di Gesù ut unum sint. Per giungere al documento congiunto fra la Chiesa cattolica e la Comunione anglicana su Maria (“Maria: grazia e speranza in Cristo”), reso noto lo scorso 16 maggio a Seattle (USA): una dichiarazione congiunta, attesa da tempo, sul ruolo della Vergine nella dottrina e nella vita della Chiesa frutto della Commissione internazionale anglicano-cattolica (ARCIC). Elaborato nel corso di un lustro da una commissione composta di 18 membri, si tratta del primo dialogo internazionale bilaterale che ha assunto come soggetto il ruolo di Maria nella Chiesa: un evento che uno dei partecipanti alla commissione, il vescovo di Nottingham Malcom McMahon, ha definito davvero storico. E nel quale il segretario del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, il vescovo Brian Farrell, ha ammesso di riporre molta fiducia, perché la dichiarazione «permette di scoprire tutto ciò che abbiamo in comune su Maria, anche con i riformatori anglicani dei secoli XVI e XVII, che erano visti come antimariani, ma non lo erano». Tanto più che essa – come ha precisato il rappresentante vaticano – «affronta la problematica dei dogmi cattolici», e «sarà interessante non solo per il dialogo cattolico-anglicano, ma anche per quello con tutte le comunità sorte dalla Riforma».

Ancora, si potrebbero citare gli ormai ricorrenti appuntamenti dell’ecumenismo di popolo: come il recentissimo incontro europeo della Comunità ecumenica di Taizé a Milano (28 dicembre-1 gennaio). O quello fiorentino di un anno fa, quando oltre trecento giovani presero parte a Osare la pace per fede, un evento dedicato espressamente agli under 30 incentrato su giustizia, pace e salvaguardia del creato. L’aspetto forse più rilevante dell’iniziativa – in una fase complessa in cui risulta sempre assai complicato unire, e tenere assieme realtà diverse in vista di un progetto condiviso – riguarda l’ampiezza del gruppo promotore, oltre alla sottolineatura della dimensione strategica del reale coinvolgimento dei più giovani nel cammino ecumenico.

 

COL PIEDE FERMO

DELLA SPERANZA

 

Per i più pessimisti, del resto, non mancano, parimenti, i motivi di preoccupazione. Come l’ennesima ripresa della possibilità di ottenere un’indulgenza, in occasione del sinodo sull’Eucaristia di pochi mesi fa. O la netta chiusura sull’intercomunione, sempre al sinodo, con relativa delusione particolarmente dell’universo evangelico. Il sostanziale disinteresse per un impegno ecumenico di molte chiese giovani, di stampo pentecostale, peraltro decisamente in auge (come recitano tutte le indagini sociologiche). La fase di stallo delle relazioni fra chiesa cattolica e ortodossa, massime la chiesa di Alessio II, con le reiterate accuse contro quella che viene letta come un’autentica strategia di penetrazione nella Russia postcomunista da parte della chiesa di Roma, tacciata di proselitismo in una terra di solide radici cristiane. Sullo sfondo, la cronica quanto irrisolta divaricazione fra il modello dell’ecumenismo secolare (quello che privilegia la possibilità di vivere la koinonia fra cristiani malgrado le divergenti concezioni nel campo della fede, operando piuttosto per la pace e la giustizia sociale) e l’ecumenismo del consenso (quello per cui invece occorrerebbe lavorare in primis sull’impegno teologico, in funzione di un’unità visibile delle comunità ecclesiali). E si potrebbe continuare (purtroppo)... ma c’è un però.

Il però riguarda il fatto che, se è certo assai triste dover ammettere che per secoli i cristiani si sono divisi, contrapposti e sovente combattuti e che l’ecumenismo è diventato un cammino credibile tra le chiese soltanto da pochi decenni, ora sempre più numerosi sono i cristiani convinti di dover fare tutti gli sforzi per ricomporre l’unità della fede accettando la diversità dei modi di credere nell’unico Signore. Un’unità, quella voluta dal movimento ecumenico, che innanzitutto non è contro qualcuno, che non deve significare uniformità, bensì un’unità plurale in cui le chiese, da vere sorelle, si riconoscono e si pongono al servizio l’una dell’altra.

Bisogna allora non demordere, e andare avanti, col piede fermo sulla virtù teologale della speranza.  «Per i cristiani – ha scritto felicemente il priore di Bose Enzo Bianchi – l’ecumenismo non è un’opzione, una possibilità da perseguire o potenziare a seconda delle stagioni: dovrebbe essere solo la modalità, la forma dell’essere cristiani. È Gesù stesso, infatti, che ha operato e quindi anche pregato affinché ci fosse comunione piena tra quelli che credono in lui e lo confessano come narrazione definitiva agli uomini del Dio che nessuno ha mai visto né può vedere. Essere uniti, essere in comunione, per i cristiani non è neppure una questione strategica o una ricerca della forza necessaria contro gli altri, i non cristiani divenuti magari maggioranza o forza aggressiva». Sì, i cristiani sono uniti in primo luogo perché seguire il Signore Gesù significa fare proprio il comandamento dell’amore reciproco, il servizio all’altro (soprattutto al più povero e debole), nel rinnovamento costante del perdono e quindi del cammino di riconciliazione. Matta el Meskin, il grande monaco copto, sostiene che più i cristiani saranno fedeli al Vangelo, più facilmente s’incontreranno e troveranno unità e comunione: perché la trovano, appunto, nel loro Signore, guidati dallo Spirito nella pratica quotidiana del Vangelo.

 

Brunetto Salvarani