PARLANDO
DELLA FEDE OGGI
INQUIETUDINI
RISCHI E SPERANZE
La fede è
tutt’altro che un discorso superato, fuori moda, come una certa cultura
vorrebbe far apparire. E ci piace proporlo all’inizio del nuovo anno che
vorremmo fosse illuminato dalla fede di cui noi religiosi dobbiamo essere
testimoni convinti e gioiosi, lampade luminose poste sul moggio.
Che
cos’è la fede? Fino al concilio Vaticano II la fede era considerata soprattutto
nel suo aspetto oggettivo, contenutistico, ossia le verità che sono proposte da
Dio (fides quæ). La fede allora era «la virtù soprannaturale per la quale
crediamo alle verità rivelate da Dio non per la loro evidenza intrinseca, ma
per l’autorità di Dio rivelante» (Catechismo di Pio X).1
Il
concilio Vaticano II ha profondamente rinnovato la definizione della fede: «A
Dio che si rivela è dovuta l’obbedienza della fede con la quale l’uomo si
abbandona tutto a Dio liberamente, prestando il pieno ossequio dell’intelletto
e della volontà e assentendo volontariamente alla rivelazione data da lui» (DV
5). Prima di essere l’accettazione intellettuale di una verità oggettiva,
credere come spiega il papa Benedetto XVI è «trovare un “tu” che mi sostiene e
mi accorda la promessa di un indistruttibile amore»,2 è un atto d’ amore che
risponde a «Uno che mi conosce e mi ama sicché io posso affidarmi a lui con
l’atteggiamento del bambino il quale ha piena consapevolezza che i suoi
problemi sono al sicuro nel “tu” della madre».3 Fede, fiducia e amore sono un
insieme di atteggiamenti inscindibile con cui ci si consegna a Dio, lo si
ascolta con amore filiale (ob-audire, obbedire) e gli si permette di entrare
nella propria vita. Per questo con il p. Bernard Lonergan possiamo affermare
che «believing is to be in love» (credere è essere innamorati).4
ACCETTARE
LA
NOSTRA POVERTÀ
La
fede è il punto di arrivo della maturazione spirituale dell’uomo. Accettare Dio
nella nostra vita nasce da due convinzioni che dovrebbero imporsi a ogni
persona adulta che riflette sulla sua esperienza. Anzitutto che la tensione
vitale che avverte in sé è fondata, ha cioè un senso, un significato e una
direzione; e, secondo, che questo senso non è dato da una creatura, o da una
persona che pur lo ama, perché nessuno può soddisfare in modo completo e
definitivo il desiderio dell’uomo. La tensione vitale dell’uomo postula una
trascendenza, un Altro, altro da sé e dalle creature. Sentiamo cioè che noi non
siamo l’origine di noi stessi, che l’abbiamo da qualche altro, che non siamo
autosufficienti. Passare da questa povertà esistenziale all’accettazione
gioiosa della sua sorgente, che chiamiamo Dio, non ci è possibile senza la
grazia di Dio che viene in aiuto e che, nella Parola fatta carne e fattasi
comunità, rivela al cuore inquieto dell’uomo l’esistenza e la verità di
quest’Altro (cf. Gv 6,44; Ger 31,3). Questo è il senso pieno del credere:
volgersi a chi può appagare pienamente il cuore dell’uomo, a colui nel quale
possiamo finalmente riposare (s. Agostino).
Tuttavia
credere all’esistenza di Dio non basta: «Anche i demoni credono eppure tremano
di paura» (Gc 2,19). La fede in Dio deve passare dalla conoscenza alla
rinascita (Gv 3,3.5). La fede non ha nulla da spartire con la proposta gnostica
che vorrebbe farci percorrere un cammino personale di liberazione da questo
mondo per andare a Dio (un cammino verso una «salvezza senza salvatore»5 che ha
come protagonista nessun altro se non l’ io). La fede ci porta ad accettare di
essere rigenerati (cf. Gv 3,5) dalla forza dell’acqua viva che è lo Spirito.
Questa
scelta produce nella vita dell’uomo una specie di rovesciamento delle
prospettive, un’autentica rivoluzione: quello che prima era importante diventa
secondario, ciò che era assoluto relativo, il necessario accessorio. È la
conversione, il cambio della mentalità e delle prospettive (metanoia), inizio
cosciente di una vita nuova, nella gioiosa certezza di aver trovato la Realtà,
di essere attraversati dalla forza creatrice, di essere immersi in un oceano di
vita, sostenuti da un immenso amore.
Si
comprende che la fede autentica in Dio, che rende coscienti della propria
povertà e insufficienza, fonda – paradossalmente – la grandezza e la forza
dell’uomo, e quindi la gioiosa decisione di lasciarsi guidare da Dio : «Tutti
saranno ammaestrati da Dio» (Gv 6,45; Is 54,13). La fede è «l’esercizio di una
fiducia per cui nella ricerca ci si abbandona al Vero, nell’amore ci si lascia
guidare dal Bene, nel progettare ci si affida alla Giustizia, nel creare forme
nuove ci si ispira al Bello, nel portare tutte le situazioni all’esistenza si
consente alla Vita di esprimersi».6
In
questa luce noi comprendiamo perché il concilio affermi che anche chi si
dichiara ateo può avere una fede salvifica e può pervenire al regno di Dio (LG
16), anche se è convinto che non esista quel Dio che altri gli hanno
presentato.
La
fede adulta comincia a essere tale quando diventa personale e autonoma, quando
cioè è assunta in modo personale e trova la sua collocazione armonica,
unificante e critica nell’universo della persona e attraverso lei della
cultura. Essa diventa allora principio di discernimento del bene dal male e di
libertà dalla dittatura del relativismo e dell’istinto.
EROSIONE
SECOLARISTICA
E
FEDE «DEBOLE»
Ma
questa fede, punto di arrivo della maturazione della persona, «non è di tutti»
(2Ts 3,2). Se ci guardiamo attorno, non possiamo non essere inquieti vedendo
che la fede è sottoposta a interpretazioni o è vissuta in modi nuovi che ne
minacciano l’esistenza. Esaminiamo cinque rischi e altrettante inquietudini.
La
prima di queste si riferisce all’accantonamento della fede in nome della
ragione. La tendenza non è di oggi. Già dal sorgere della modernità, e poi con
l’affermarsi dell’illuminismo, l’uomo ha rivendicato un’autonomia totale dalla
fede, non più considerata come una luce che illumina la ragione, ma come
impaccio alla libertà umana fino al punto da escluderla e farle guerra. Più
recentemente in altri la fede non è sopravvissuta al passaggio dal regime della
cristianità a un regime di fede personalmente assunta. Il fenomeno della
secolarizzazione, che ha provvidenzialmente liberato la fede da sovrastrutture
sacralizzanti, restituendo alla giusta laicità le realtà secolari,7 ha portato
individui e società al laicismo e al secolarismo, a emanciparsi da ogni
riferimento al Creatore. Correndo dietro al sogno di far da solo,8 l’uomo ha
voluto vivere e organizzarsi come se Dio non ci fosse (etsi Deus non daretur),
con il risultato che, non riconoscendo più alcuna autorità o istanza morale al
di fuori di sé, ha compromesso anche la sua stessa libertà,9 come ha mostrato,
anche troppo chiaramente, il «secolo breve» (Eric Hobsbawn10) che ha fatto
vedere a tutti il fallimento della modernità e dell’illuminismo radicale, senza
peraltro portare il mondo a un serio ripensamento, facendolo anzi sprofondare
nel nichilismo e nel pensiero debole.
Al
posto di Dio sono subentrati dei surrogati, quali il «capo», il partito, la
causa, oggi il mercato… nuovi padroni violenti e spietati. Perciò presto è
rinata nel cuore dell’uomo la nostalgia «di un padre-madre accogliente nella
libertà e nell’amore».11 Così la secolarizzazione ha portato a un paradossale e
ambiguo «ritorno del sacro», che nessuno si sarebbe atteso, ma che non è un
ritorno della fede come forza che coinvolge la persona e la società.
Il
post-moderno, caratterizzato dalla debolezza del pensiero, dal relativismo e
dall’agnosticismo, è nato ammalato di «mancanza di passione per la verità».12 Esso
non ha più interesse per la ricerca di una verità forte, universale, si
accontenta di ciò che è immediatamente fruibile, calcolabile e consumabile. Il
pensiero debole ha portato a una fede, e a un’etica, debole. Tutto questo non
facilita la ripresa della fede e accresce l’inquietudine per il suo futuro.
Oggi molti hanno messo da parte la fede e la religione oppure se la compongono
à la carte (Jean-Louis Schlegel), scegliendo e assemblandola non più sulla base
della parola di Dio e del magistero ecclesiale, ma secondo il bisogno del
momento, secondo i gusti alla moda e secondo la propria personale convenienza.
Così
la fede viene spesso confusa con gli happening, momenti d’esperienza religiosa,
di tipo neognostico,13 momenti religiosi segnati dall’emozione del momento, dal
soggettivismo individualistico e da un sincretismo spiritualistico. Allora la
fede, se tale ancora può dirsi, è vissuta come ricerca nostalgica di un grembo
in cui ritrovare se stessi dopo esserci tagliati fuori da Colui che, fonte della
nostra stessa esistenza, si è fatto carne tra noi e con noi per guidarci alla
pienezza del nostro essere umani.
NON
RIUSCIAMO
A
TRASMETTERLA
In
un regime di cristianità, noi eravamo abituati a trasmettere (tradere e
traditio, tradizione) e a ricevere la fede, nello stesso tempo e nello stesso
modo in cui si trasmetteva la vita, il pensiero e la cultura. Era come
un’eredità normale del nostro essere figli di una cultura occidentale. Essa
dava senso alla nostra vita per cui il cristiano era, secondo la bella
espressione di Paul Ricœur, «l’avversario dell’assurdo, il profeta del
significato».14
Oggi
invece diventa sempre più difficile trasmettere la fede alle nuove generazioni,
dare un senso solido e duraturo alle realtà in cui viviamo. La prima ragione di
questo fatto è legata alla cultura della globalizzazione per la quale la verità
di un’ affermazione o di una scelta è legata all’opinione della maggioranza,
frutto d’indagine demoscopica più che alla Verità ricevuta da Dio e ai valori
della tradizione, trasmessi cioè dai genitori ai figli, quali ad esempio
l’adorazione di Dio, il rispetto della persona umana e dei suoi diritti, la
famiglia, il senso della comunità e della comunione, il senso del bene comune.
A questa prima ragione, si devono subito aggiungere le contraddizioni prodotte
dalle incoerenze di noi adulti che non viviamo e non testimoniamo una fede
convinta e appassionata, ma una fede stanca e debole che si vive in una
religione del dovere e dell’abitudine. Così sta crescendo una cultura che di cristiano
ha solo il nome, fatta di un individualismo radicale, di narcisismo, di
disinteresse per la polis e per il politico. La gente fa perciò fatica a
definire la propria identità. È questa la ragione per cui i sociologi parlano,
giustamente, di identità patchwork,15 di identità fluida, di identità
frammentata, di corto respiro, provvisoria, quindi fragile e incerta e tenuta
insieme in modo molto estrinseco dalle cosiddette esperienze (happening).
La
CEI nel suo documento Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia ha
sottolineato con preoccupazione il crescente numero di battezzati che si dicono
«persone senza religione», il crescente analfabetismo religioso delle giovani
generazioni, per tanti versi ben disposte e generose, il diffondersi di «posizioni
lontane dal Vangelo e in netto contrasto con la tradizione cristiana», una
«vera e propria eclissi del senso morale»,, una «scarsa trasmissione della
memoria storica», l’assenza di senso critico cristiano che produce un
appiattimento sul presente, che accetta gli idoli propri della globalizzazione,
come la logica del più forte, la competizione, l’accumulo della ricchezza in
mano di pochi e l’ineluttabilità della povertà.16 Tutto ciò porta alla
constatazione, amara ma obbligata, che la fede non è significativa per molti
della nostra generazione e, secondo, che non siamo capaci di trasmetterla alle
nuove generazioni. Da questo punto di vista è meglio (ossia più vero) che le
radici cristiane non siano menzionate nella Costituzione dell’Unione Europea,
anche se esse sono un indiscutibile dato storico.
SE
NON È INCARNATA
NON
TRASFORMA LA STORIA
Paolo
VI affermava che «la rottura tra Vangelo e cultura» costituisce «il dramma
della nostra epoca».17 In altre parole c’è il rischio che la fede non diventi
vita e cultura, che non informi le scelte sociali e politiche della nostra
società. A distanza di quasi trent’anni, non possiamo che constatare la verità
dell’affermazione. Il mondo non è stato trasformato dalla fede in Gesù Cristo.
I cristiani riescono a metabolizzare acriticamente gli squilibri del mondo, il
sottosviluppo, l’analfabetismo, le guerre, le ingiustizie strutturali e le
hanno perfino giustificate con argomentazioni pseudo-religiose. Dobbiamo
riconoscere che la nostra fede non è abbastanza critica e contagiosa e non
evangelizza la storia, l’economia, la politica, come se queste realtà non
fossero soggette al giudizio del Vangelo.
La
fede – e con essa i fedeli – corre in realtà il rischio di vivere fuori da
questo mondo in forme di spiritualismo,18 come se la fede fosse cosa dell’anima
che si dissolve nell’immaginario interiore, senza riferimento ai modi ordinari
di vita, alla famiglia, al lavoro, ai rapporti sociali, alla politica. Le forme
in cui si esprime sono determinate dalla cultura odierna che ha il suo asse
portante nella privatizzazione delle coscienze e nell’individualismo tipico
della società dei consumi. Questa tendenza coinvolge anche la Parola, la
liturgia e l’impegno della carità, praticati con forme estetizzanti o come beni
di consumo senza che diventino principio di vita nuova. E si mostra
all’evidenza in quelle forme di religiosità esoteriche, da iniziati, oppure in
quei gruppi e movimenti che rincorrono apparizioni e locuzioni e che vivono la
fede in chiave di avvenimento spettacolare e disincarnato, priva di spessore
etico (caratteristici sono certi «gruppi di preghiera»).19
Ancora
troppi cristiani sono convinti che la fede sia un fatto privato, senza
incidenza politica nella società. Altri, impauriti o delusi dagli eccessi del
Sessantotto, oppure scossi dalle polemiche seguite alla condanna della teologia
della liberazione, comunque stanchi della fatica di discernere, privilegiano
una vita cristiana «in pantofole», ripiegata su se stessa e a una sola
dimensione. Basterebbe pregare di più – si dice – sacrificarsi come si faceva
una volta. Con il rischio ridurre la fede a “salvarsi l’anima”. Non è forse
questa la maniera di svuotare la parola di Dio
del
suo mordente profetico e genuinamente rivoluzionario?
«Una
fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente
pensata, non fedelmente vissuta», ha ricordato Giovanni Paolo II alle chiese
d’Africa.20 L’impegno per un’autentica inculturazione della fede molto
proclamato nelle intenzioni, è invece lontano dall’essere onorato, e non solo
nelle giovani chiese nate dalla missione ad gentes. Solo una coraggiosa
inculturazione permetterà alla fede di essere vitale e socialmente
significativa. Noi di solito puntiamo il dito sulle contraddizioni delle
giovani chiese del Rwanda e del Burundi, dove i cristiani sono il 70% della
popolazione, in cui si sono perpetrati genocidi e massacri che hanno fatto
inorridire il mondo. Ma siamo sicuri che qui da noi la nostra fede sia ancora
capace oggi di fermentare la cultura con i valori evangelici? Come la mettiamo
con il vento di xenofobia che soffia sulle nostre terre, con la proposta di
usare i cannoni per tener lontani gli extracomunitari che cercano libertà e
lavoro da noi, con i crack economici che rivelano il degrado etico della nostra
società, con i tentativi di tutto concedere alla ricerca scientifica perché se
no i cervelli europei e italiani emigrerebbero altrove? Non ci condanneremmo
forse da soli all’accusa di ipocrisia collettiva, se mettessimo per davvero le
radici cristiane nella costituzione europea?
Una
cultura che avvalla e metabolizza la shoah e le pulizie etniche, il crescere
della povertà e dell’emarginazione, che non insorge quando l’uomo è calpestato,
quando il viandante cade nelle mani dei briganti sulla strada da Gerusalemme a
Gerico, che non osa alzarsi in difesa di chi non ha voce, è una cultura
informata dalla fede e quella fede che è sazia di riti e non sente più la fame
dei poveri e la loro rabbia, può ancora dirsi la fede del Signore Gesù?
UNA
FEDE CHE È
O
DIVENTA FONDAMENTALISTA
Con
l’attacco dell’11 settembre 2001 e con quelli che si sono succeduti a Madrid e
a Londra, la fede ha subito un altro duro contraccolpo. Nel nuovo scenario,
delineatosi con lo scoppio del terrorismo internazionale, molti vedono uno
scontro di civiltà e di religioni, dove l’islam, umiliato da tanti secoli di
progressiva esclusione, avrebbe ripreso a combattere quel mondo cristiano che
da Lepanto in poi sarebbe diventato il suo grande avversario. Questa analisi
del terrorismo internazionale non è né completa né giusta. L’ha esclusa anche
Benedetto XVI parlando con i giornalisti la scorsa estate. Infatti questa
spiegazione dimentica che ci sono altri elementi di carattere economico,
sociale e politico che hanno fatto scoppiare quest’eccesso di terrorismo.
Ma
c’è un altro fatto increscioso e rischioso per la nostra fede: il
fondamentalismo islamico sta spingendo anche molti cristiani su posizioni
fondamentalistiche. E un altro fatto altrettanto inquietante: che, cioè, il
jihad rischia di portare anche i cristiani alla guerra di religione e a cadere
in forme simmetriche di avversione, a una fede intollerante che cancella tutta
una stagione di dialogo interreligioso. Rimproveriamo agli islamici il loro
fondamentalismo e l’integrismo senza renderci conto che spesso ne ripetiamo,
quasi spontaneamente e senza accorgercene, le stesse mosse. Esprime bene questa
tendenza il presidente George W. Bush quando dice: «Noi combattiamo la guerra
giusta del bene contro il male, perciò Dio è dalla nostra parte».
La fede diventa allora ragione per difendersi
dall’invasione islamica, appello a difendere la nostra cultura cristiana.
Invece di cercare di ravvivare in noi la fede in quel Dio che è padre di tutti
e che tutti chiama alla comunione, sentiamo il bisogno di prendere le armi per
salvare la nostra maniera di essere cristiani oggi. Possiamo tentare di
esorcizzare questo rischio, di chiamarlo con altri nomi. Non sarà una guerra di
religione, anche se molti la sentono così, non sarà quello «scontro di civiltà»
previsto da Samuel P. Huntington.21 Eppure il rischio che la nostra fede corre
è di diventare sempre più chiusa su se stessa, esclusiva, selettiva, militante
contro le altre religioni. Così Dio diventa il “mio” o il “nostro” Dio, un Dio
escludente ed esclusivo, che produce in noi l’illusione, orgogliosa e
arrogante, di partecipare alla sua unicità. Possiamo dirci ancora evangelici?
UNA
FEDE CHE DIVENTA
RELIGIONE
CIVILE
Un’ultima
inquietudine mette in crisi la fede dei cristiani: la tentazione che la fede
diventi una religione civile. Parlando del futuro del cristianesimo, Maurice
Bellet mette in guardia dal rischio che la fede si dissolva in una religione
che si identifica con la civiltà occidentale.22 È un rischio subdolo, cui la
fede deve far fronte, proprio mentre si dibatte nella crisi attuale che la vede
ormai minoranza. La fede è tentata oggi dal fascino irresistibile di un
cristianesimo solido, visibile e misurabile, visto innanzitutto come cultura di
un popolo, identità nazionale, presenza significativa e ineludibile, forza per
ricompattare la società, a partire dall’equazione «cristianesimo uguale
occidente».
Questa
tentazione si infiltra negli ambienti di Chiesa solleticata dalle attese dei
politici che, superate le antiche pregiudiziali laiciste, non rifiutano più di
utilizzare la religione, pronti a riconoscerne l’utilità sociale. Il connubio
di fede e politica viene incoraggiato, per un’inconscia nostalgia del mito
della cristianità, come un rimedio salutare per la nostra società frammentata e
smarrita.
Così
certi cristiani ritornano a sognare la fede o, meglio, la religione come
religione di stato riducendo così la Chiesa «a una potente lobby
etico-sociale».23 Una sollecitazione, in questo senso, viene alla nostra Chiesa
da cristiani nostalgici del passato, ma anche da ambienti intellettuali non
cristiani, dagli “atei devoti”, come sono comunemente chiamati, e trova,
purtroppo, accoglienza favorevole da parte di autorevoli ecclesiastici che
sognano di riportare la Chiesa a una posizione forte e visibile ricuperando gli
spazi lasciati vuoti dal crollo delle ideologie.
Così
la Chiesa, ritornata a essere forza di pressione, anche se numericamente
minoranza, applaudita e ricompensata con pesanti privilegi, deve a sua volta
rispondere con una compiacenza che è negazione della parresia, della libertà
evangelica cioè di denunciare le scelte della società civile che sono contro
l’uomo. La comunità dei discepoli perde la sua forza profetica e si identifica
sempre più con il mondo occidentale ricco e potente, con grave nocumento della
sua missione che è deve essere cattolica, cioè universale.
Don
Giuseppe Dossetti l’aveva previsto poco prima della sua morte, quando aveva
lamentato il crescente numero di coloro che pensano «che la fede non possa
sostenersi senza l’appoggio dei poteri, senza politiche culturali, senza
organicità sociale che la presidii e la difenda», senza, insomma, diventare
religione civile,24 nuova versione della civiltà cristiana. Ci meraviglieremo
allora dello sconsolante dibattito sul crocifisso nella scuola e negli uffici
pubblici, che è stato ridotto a simbolo della cultura nazionale, difeso da
coloro che non ci credono, oppure dell’incomprensibile collusione tra religione
e nazione in occasione dei funerali degli italiani uccisi in Iraq?25 «Viene da
pensare che molti cristiani non sappiano essere cittadini leali e responsabili
nella polis e nel contempo appartenenti a quella patria che è nei cieli (Fil
3,20)), che non sappiano dare a Cesare quel che è di Cesare e lo vogliano dare
a Dio».26 Meno male che nella sua visita al Quirinale Benedetto XVI, il 24
giugno 2005, ha ristabilito la giusta distanza della Chiesa dallo stato.27
LE
CRISI DELLA FEDE
DISGRAZIA
O GRAZIA?
Le
voci di inquietudine sono già molte e forse qualcuno potrebbe essere indotto a
credere che la nostra fede abbia i giorni contati o che poco ci manchi. Va
anche aggiunto che la crisi della fede oggi non è solo un problema di metodo
nella trasmissione della fede. Questo problema è stato coraggiosamente affrontato
dal Vaticano II che ha cercato di aprirsi al mondo e superare l’atteggiamento
antimoderno della Chiesa prima di esso. Senza togliere nulla al Vaticano II, si
deve ammettere che esso non ha segnato quel balzo in avanti della missione
della Chiesa che tutti, forse ingenuamente, si attendevano. Lo stesso mi pare
si debba dire della “nuova evangelizzazione” chiesta e iniziata da Giovanni
Paolo II,28 perché «quello che fa problema oggi non è il metodo, ma proprio il
contenuto stesso della fede»,29 che non riesce a interessare l’uomo d’oggi.
Sbaglieremmo
tuttavia se pensassimo che la situazione attuale sia solo crisi. Essa è anche
grazia, opportunità (kairós) offerta alla Chiesa per purificarsi e fare un
passo avanti. Ce lo ricorda la storia del profeta Elia (1Re 17-19), vissuto in
un’epoca non troppo dissimile dalla nostra al tempo del re Acab (874-853). Dopo
il sacrificio sul monte Carmelo (18,22-40), quando la regina Gezabele lo
terrorizzava con le sue minacce di morte, egli fugge (19,3), perché si rende conto
che la sua vittoria ha segnato, nello stesso tempo, il fallimento del suo
ministero. Solo e abbandonato da tutti, chiede a Jhwh di essere lasciato in
pace. Jhwh invece lo invita a ritornare sui suoi passi e a raggiungerlo sul
monte Oreb, il luogo dell’alleanza. Il cammino nel deserto gli permette di
misurare la sua insufficienza e, nello stesso tempo, di rendersi conto che la
provvidenza divina lo accompagna. Sull’Oreb Jhwh gli parla nella «voce di un
silenzio sottile» (1Re 19,12) e gli chiede di rimanere in adorazione e in
ascolto obbediente: «Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore»
(19,11). La fede è l’unico atteggiamento che l’uomo può e deve assumere davanti
a Dio e, nello stesso tempo, la condizione per riprendere il ministero
profetico. A partire da quell’incontro, Elia sarà il restauratore del regno in
Aram e in Israele (19,15-17), oltre che il profeta di Dio per il popolo di
Israele.
Ritrovato
il giusto rapporto con Dio si offre al profeta uno sguardo nuovo sul mondo e
sull’umanità: Elia si accorge che non è vero che il mondo sia totalmente
immerso nell’idolatria e che nessuno adori più Jhwh: ci sono ancora settemila
persone in Israele che non hanno piegato le ginocchia davanti a Baal (cf.
19,18): da essi e con essi Elia può riprendere il suo ministero.
TESTIMONI
GIOIOSI
E
CONVINTI DELLA FEDE
Anche
oggi il ricupero della fede e dell’alleanza deve ripartire dalla scoperta ( o
riscoperta) di Dio e della sua presenza nella nostra storia personale e sociale
per tradursi poi in una testimonianza gioiosa, coraggiosa e contagiosa della
nostra fede in lui, che sarà tanto più incisiva quanto più coerente.
A
una prima lettura del documento della CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo
che cambia, si potrebbe avere la sensazione che i vescovi non abbiano formule
nuove per il rinnovamento della missione della Chiesa in Italia. Ripetono le
espressioni di sempre sul rinnovamento della pastorale in chiave missionaria,
su un’evangelizzazione auspicata ma mai verificata, presentano formule
ideali,30 difficili da tradurre in scelte pastorali operative, che rischiano di
lasciare il tempo che trovano. Siamo davanti a una «confessione di impotenza»,
come la chiama mons. Jozef de Kesel, vescovo ausiliare di Malines-Bruxelles,
«ma di un’impotenza che […] è inerente alla situazione della Chiesa in
occidente».31 All’ora attuale, non disponiamo di una strategia né di una
tattica risolutive del problema. «Non è il caso di negare questa impotenza,
continua lo stesso vescovo, bisogna invece accettarla e viverla dal di
dentro»,32 ritrovando nel Vangelo di Gesù quella speranza che è la proposta
pastorale per l’Europa.33
Leggendo
tuttavia in profondità il documento della CEI, pur non incontrandovi formule
strategiche, troviamo l’invito a tenere lo sguardo fisso su Gesù l’inviato del
Padre (quasi metà della lettera è su questo tema34), a dare il primato alla
contemplazione della Parola e alla formazione dei cristiani a una fede adulta e
pensata (50), a celebrare il mistero cristiano come «luogo di educazione
missionaria della comunità cristiana» (48), a penetrare con l’azione ecclesiale
i diversi ambiti della società per raggiungere così coloro che sono ancora
lontani. È l’invito alla Chiesa a essere prima di fare, a vivere pienamente e
gioiosamente la sua fede per brillare nel mondo, come essere, per dirla con i
termini teologici del concilio, «sacramento universale di salvezza». Per questo
la fede dei singoli e della comunità cercherà di essere chiara e visibile,
gioiosa testimonianza della scoperta di quel Dio che è alla ricerca dell’uomo e
che nel Figlio ha amato questo mondo «fino alla fine» (Gv 3,16; 13,1).
I
credenti e le comunità ecclesiali saranno quella lampada accesa e posta sul
lucernario, «per fare luce per tutti quelli che sono nella casa» (Mt 5,15). Non
dovranno essere ossessionati dalla loro identità, ma proporre semplicemente
quella Parola che è la perla preziosa, oggetto della loro quotidiana, amorosa
ricerca. L’evangelizzazione sarà allora un invito alla gioia e alla speranza,
ma un invito che porta gli evangelizzatori a vivere per primi quello che
intendono trasmettere agli altri: «affinché vedano le opere buone e rendano
gloria al Padre vostro» (Mt 5,16).
TESTIMONI
DISCRETI
Nello
stesso discorso della montagna, Gesù insiste anche su un atteggiamento complementare:
la discrezione dell’evangelizzazione che non vuole imporsi, ma solo proporsi,
attendendo pazientemente la risposta che può avere tempi anche lunghi. Gesù
invita a preoccuparsi non del successo, ma di essere visti solo dal Padre «che
vede nel segreto» (Mt 6, 4.6.18). Questo invito alla discrezione, che è però
invito al dialogo, a una proposta senza imposizioni, alla mediazione culturale,
forse ci sorprende. Non sarebbe forse urgente un invito al coraggio più che
alla discrezione?
Ancora
una volta non si tratta dell’anonimato o della diaspora. Se la discrezione
dovesse portare a non sapere più chi siamo, essa cancellerebbe ogni ragione di
essere della Chiesa e della missione. Ma senza discrezione l’identità cristiana
(e con essa l’evangelizzazione) rischia di diventare una forma di
autoaffermazione, non di rado presuntuosa e arrogante, che soppianterebbe la
parola della croce, potenza di Dio e sapienza di Dio.
C’è
una seconda ragione che consiglia la discrezione. Nel nostro paese, come
altrove in occidente, la Chiesa ha un passato che non deve essere dimenticato.
La fede cristiana è stata la fede dominante per tanti anni e, se è vero che ha
dato un innegabile decisivo contributo a forgiare la civiltà e le nazioni
occidentali, non ha sempre resistito alla tentazione di auto-affermarsi. La
distinzione tra potere e servizio non è sempre stata chiara e ancora oggi molti
vedono la sua autorità più in termini di potere che servizio della carità
divina. Per questo le ostilità della modernità nei confronti della chiesa, non
sono sempre ingiustificate. Per questo, la chiesa deve tenere una presenza e
un’azione discrete.35
Per
la stessa ragione la fede e la religione cristiana non dovrebbero più ricercare
privilegi o le posizioni di potere del passato. La Chiesa dovrebbe ritornare a
essere, come diceva il p. Yves-M.Congar, servante et pauvre, o, per usare
l’immagine di don Tonino Bello, la Chiesa del grembiule, una Chiesa che è tanto
più se stessa quanto più si mette a disposizione del mondo. Solo così la Chiesa
potrà essere ciò che deve essere, «segno dell’amore di un Dio a mani nude»,36
di un Dio disarmato e povero, ricco solo di tenerezza e di dialogo, che si è
lasciato crocifiggere per amore ed è risuscitato per condividere con noi il
suo
Spirito che ci fa vivere.
La
presenza e la missione dei credenti nel mondo devono rispettare il volto di
Dio, un Dio discreto che non forza nessuno, non si impone neppure per il nostro
bene, e che non cerca il rinforzo della legge o del braccio secolare per
convincere gli uomini di oggi. «Se Dio tocca veramente il cuore dell’uomo,
questo non sarà che per l’opera di Dio. E la Chiesa non potrà che esserne
testimone. La Chiesa infatti è a disposizione di Dio, ma non potrà mai
sostituirsi a lui».37
Non
tocca a noi credenti salvare il mondo: questo è affare di Dio. La nostra
preoccupazione deve solo essere quella di Gesù nel vangelo di Luca (18,8):
«Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà ancora fede sulla terra?». Ecco ciò
che ci deve preoccupare: essere fedeli e conservare la fede nella vigilanza e
nell’orazione. A noi tocca di salvare, in un certo modo, Dio e il suo Regno in
noi, come diceva Etty Hillesum.38 Certo, conserveremo la fede trasmettendola e
la trasmetteremo conservandola, continuando cioè a vivere della fede di Gesù,
quella stessa fede che lo ha sostenuto in vita e in morte e che ci ha donato
nel battesimo.
A
noi, come alla prima comunità (At 2,42-48), è chiesto prima di tutto non di
fare delle cose, ma di essere comunità di cristiani, corpo di Cristo, che vive
del suo Spirito, assidui nell’ascoltare la Parola e nella comunione, fedeli nel
credere, nel prendere il Vangelo con grande serietà. La fede che Gesù Cristo ha
inaugurato non verrà mai meno a condizione che ritorniamo ogni giorno al
Vangelo come se ci fosse proclamato per la prima volta. Oggi ci troviamo come
ad nuovo inizio dell’evangelizzazione,39 una sorta di ground zero della fede. A
questo punto il Vangelo può ancora apparire «come Vangelo, cioè come la parola
inaugurale, appunto, che apre uno spazio di vita? Risponde Maurice Bellet: «Il
paradosso è grande, dal momento che il Vangelo… è vecchio! Ma forse il tempo
delle cose che più contano non è comandato dalla cronologia; forse la
ripetizione può essere la ripetizione dell’inaudito, come, dopo tutto, ogni nascita
d’uomo è una ripetizione banale ma che è, ogni volta, l’inaudito».40
Questa
è la speranza che ci è lecito porre nella forza del Vangelo. Le forme
dell’annuncio possono essere molteplici, ma tutte a esso si rifanno. Noi ne
possiamo individuare tre che riteniamo valide. Anzitutto la “nuova
evangelizzazione” che ci invita a verificare se quello che annunziano è davvero
qualcosa di “nostro”, e se sgorga da un Vangelo vissuto che ne garantisce la
novità; l’inculturazione che ci ricorda che la fede non potrà mai prescindere
da un rapporto di reciprocità con la cultura; e la testimonianza che ci ricorda
che «ogni forma di evangelizzazione non può che dare centralità alla forma
testimoniale della fede».41
La
fede deve aver il coraggio di pensarsi come una sorgente di novità, di cercare
continuamente per essere una risposta alle attese del mondo. Come Abramo e Sara
che a un’età avanzata sono invitati a unirsi per dare vita al figlio della
promessa. Anche Gesù ha avuto il coraggio di pensare cose nuove e ha fondato la
Chiesa. E noi? Smettiamola di pensare che siamo alla fine, che ormai il mondo
sta andando per conto suo. Riprendiamo il Vangelo: viviamone e annunziamolo con
la testimonianza e con la parola, sicuri della sua forza perché esso è “potenza
di Dio e sapienza di Dio” e vedremo che la nostra fede è ancora viva. Sarà
questa la nostra risposta alla domanda di Gesù: «Quando il Figlio dell’uomo
verrà troverà ancora fede sulla terra?» (Lc 18,8).
Gabriele Ferrari s.x.
1
Il Catechismo della Chiesa cattolica (1992) presenta la fede come la risposta
dell’uomo a Dio che si rivela e lo invita a condividere la sua felicità (n.
142) e l’assenso dell’uomo alla verità che Dio gli rivela (n. 143).
2
Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana Brescia 20031.
3
Ibid., 47.
4
Bernard J.F. Lonergan, Method in Theology, New York 1972, 105.
5
Giuseppe Lorizio, Rivelazione, in G. Barbaglio, G. Bof e S. Dianich (a cura
di), Teologia, Edizioni san Paolo, Cinisello Balsamo 2002, 1373.
6
Carlo Molari , La fede professata, Paoline 1996, 43.
7
Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes 36.
8
Bruno Forte, L’essenza del cristianesimo, Mondadori, Milano 2002,16.
9
Joseph Ratzinger, L’Europa nella crisi delle cultura, discorso tenuto a Subiaco
il 1 aprile 2005.
10
Eric Hobsbawn, Il secolo breve, Rizzoli Milano 1995, 199816.
11
Bruno Forte, op. cit., p. 19.
12
Ibid., 18.
13
Giuseppe Lorizio, Rivelazione, art.cit. pp. 1372-1374 (una sintesi del
risveglio della gnosi).
14
Paul Ricœur, I compiti della comunità ecclesiale nel mondo contemporaneo, in
Teologia del rinnovamento. Mete, problemi e prospettive della teologia
contemporanea, Cittadella, Assisi 1969, 166.
15
Patchwork è la coperta fatta con pezzi di stoffa ricuciti insieme.
16
Cf. CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, Roma 2001, 40-43.
17
Paolo VI, Evangelii Nuntiandi, Città del Vaticano 1975, 20.
18
Cf. Giuseppe Angelini, La fede, altrove? in Rivista del clero italiano, n. 2,
87-105.
19
Ibid., 102.
20
Giovanni Paolo II, Ecclesia in Africa, Città del Vaticano 1995, 78.
21
Samuel Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale,
Garzanti (MI) 2000.
22
Maurice Bellet, La quarta ipotesi, Servitium Gorle (BG), p. 18, cit. da E.
Bianchi, Quale fede?, Morcelliana Brescia 2002, 27.
23
“Lettera agli amici” della
24
Ibid.
25
Cf. Omelia del Card. Camillo Ruini per le vittime di Nassiriya, Roma,
18.11.2003, in Il Regno Documenti 21/2003, 676.
26
“Lettera agli amici” della comunità di Bose, cit.
27
«Su questa stessa via la Chiesa intende oggi proseguire il suo cammino, senza
mire di potere e senza chiedere privilegi o posizioni di vantaggio sociale o
economico. L’esempio di Gesù Cristo, che “passò beneficando e risanando tutti”
(At 10,3), resta per essa la norma suprema di condotta in mezzo ai popoli».
28
Cf. le affermazioni di A. De Benoist in Credere oggi, n. 148 , 25.
29
J. De Kesel, Annoncer l’Evangile aujourd’hui, in Nouvelle Revue Théologique,
126/1, 2004, 4.
30
CEI, Comunicare il Vangelo … , 32.44.46.56-59.
31
J. De Kesel, art. cit., p. 11.
32
Ibidem.
33
Giovanni Paolo II, Ecclesia in Europa, 28.6. 2003, 1.
34
CEI, Comunicare il Vangelo …, 10-31 sui 68 numeri dell’intero testo.
35
Lo dicono i vescovi del Belgio in Envoyés pour annoncer, Licap Bruxelles, mai
2003, 65. Cf. Nouvelle Revue Théologique 126 (2004) 1, nota 1.
36
Ibid. § 97, citata da Mons. Jozef De Kesel, art.cit., 13.
37
Ibid., 13.
38
Cf. Etty Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 19972, 169.
39
Giovanni Paolo II in Redemptoris Missio afferma a più riprese che “la missione
di Cristo Redentore, affidata alla Chiesa …è ancora agli inizi” ( 1. cf. 30.40
e 86.3).
40
Maurice Bellet, La quarta ipotesi, 20.
41
Ugo Sartorio, Figure di annuncio nella stagione del postmoderno, in Credere
Oggi, 148, 38.