MINISTERO

DELLA COMPASSIONE

 

Come esercitare nella nostra vita il ministero della compassione? Da un punto di vista strettamente religioso, teologico, esercitare un ministero non consiste nel fare ciò che Dio fa, ma piuttosto vivere in modo tale che la compassione di Dio si manifesti nella nostra vita e in quella degli altri; fare in modo che la nostra vita riveli, renda visibile, faccia scoprire la compassione di Dio. Dio è con noi oggi, in questo stesso momento, e noi vogliamo che altri facciano l’esperienza della sua presenza, una presenza che guarisce, conforta e consola. È di questo che si tratta: manifestare, rivelare, rendere visibile la compassione di Dio, di questo Dio onnipotente perché egli è diventato vulnerabile. Come fare questo? Come manifestare la compassione di Dio senza agire come se fossimo Dio? Si tocca qui quello che è il vero ministero di un medico, di un’infermiera, di uno psicologo, di un prete.

Vorrei introdurre due espressioni: “ministero della presenza” e “ministero dell’assenza”. A prima vista, ciò può sembrare un po’ strano. Noi manifestiamo la compassione di Dio con il nostro desiderio di essere presenti agli altri. Sta qui uno dei mezzi più efficaci di guarigione: nel nostro poter essere presenti gli uni agli altri. Dobbiamo essere coscienti di questo potere di guarigione che abbiamo. Noi manifestiamo la compassione di Dio quando crediamo che vale la pena di essere con un altro, anche se non possiamo fare niente, anche se non vediamo alcun risultato, anche se non costatiamo alcun cambiamento.

 

UN MINISTERO

DELLA PRESENZA

 

È difficile per dei preti, pastori, psichiatri e psicologi lavorare accanto a dei malati cronici poiché non si trova alcuna soddisfazione immediata. Il grande dono che noi possiamo fare loro è di essere presenti, con intelligenza, ma essere presenti. È molto importante prendere coscienza di questo immenso potere della nostra presenza e di aiutare gli altri a crederci. Uno dei nostri compiti più importanti è di rendere consapevoli le persone – tutti coloro che fanno parte del popolo di Dio – del loro potere di guarire, della capacità di essere presenti, di ascoltare, ma di ascoltare veramente, poiché ascoltare è diventato un termine troppo tecnico. Molta gente crede che ascoltare voglia dire sedersi e sentire le parole di colui che parla. Ascoltare implica la nostra partecipazione, il nostro impegno, la nostra riflessione. Dobbiamo ascoltare con tutto quello che siamo, mani, occhi, orecchie. Bisogna che l’altro sappia che siamo veramente lì per lui. Essere presenti alla persona, prenderle la mano, farle sapere che vogliamo sentire la sua presenza, che ciò che dice rivela chi è, farle capire che vogliamo non solo ascoltare la sua storia, ma la vogliamo ascoltare con la nostra storia. Ascoltare la storia dell’altro con la nostra storia non vuol dire che abbiamo a parlare di noi stessi, esporre i nostri problemi. Vuol dire semplicemente che dobbiamo ascoltare con l’animo, con il cuore, con il nostro essere in modo che l’altro possa veramente dire che siamo una persona e che siamo con lui. Agendo così, manifestiamo la grande compassione di Dio. Bisogna credere semplicemente che vale la pena di stare insieme e che di qui scaturisce la guarigione; questo è il fondamento stesso di tutti i ministeri.

 

UN MINISTERO

DI ASSENZA

 

Ma possiamo manifestare la compassione di Dio anche con la nostra assenza. Il mistero della memoria è un mistero molto grande nella vita. «È venuto a trovarmi». Tutti abbiamo fatto l’esperienza di questo mistero. Siamo andati a trovare qualcuno e abbiamo parlato di cose apparentemente molto semplici, superficiali, di un incontro di calcio, di un avvenimento politico recente o anche semplicemente di quello che era capitato quel giorno. Ci è sembrato che non fosse che una piccola visita, ma più tardi quella persona ne ha parlato con altri. Anche se ce n’eravamo andati da tempo, quella visita restava efficace. Dobbiamo prendere coscienza che esercitiamo il nostro ministero presso gli altri non soltanto con la nostra presenza, ma anche con la nostra assenza. Quando lasciamo l’altro, la compassione di Dio, che è molto più grande della nostra, si rende manifesta.

Molti di noi si sentono in colpa per non poter fare abbastanza per gli altri. Abbiamo i nostri impegni personali che ci prendono del tempo. E spesso ci rendiamo conto dei bisogni di tanta gente, dei loro problemi, delle loro sofferenze e di continuo sentiamo di non fare abbastanza. Dovremmo vederli più spesso, far loro visita, essere loro più presenti, fare di più, e così dentro di noi cresce il senso di colpa. La nostra vita è piena di promesse che non siamo capaci di mantenere. Ci sentiamo a disagio. Ripetiamo agli altri di sentirci in colpa per non riuscire a mantenere le nostre promesse, di non essere con loro, ma con il nostro senso di colpa. Ci rammarichiamo di non essere Dio. Questo sentimento di dover fare di più, di essere migliori, di rispondere a tutte le esigenze del Vangelo, fa parte della nostra cultura, del nostro modo di vivere. Ma non è questo che ci mostra il Vangelo,

Il Vangelo ci dice che Dio solo è compassionevole, non noi. A noi spetta manifestare la sua compassione, non solo con la nostra presenza ma anche con la nostra assenza, perché, quando lasciamo l’altro, riconosciamo la nostra condizione di esseri umani e che Dio solo è Dio. La compassione di Dio si manifesta attraverso i nostri limiti. Noi non possiamo fare tutto. Dobbiamo lasciar parlare Dio, lasciarlo che si renda presente. Ma lasciare non è solamente una presa di coscienza dolorosa di non poter fare tutto, lasciare è la gioiosa celebrazione di una certezza: Dio è colui che rimane mentre noi partiamo. È quanto Gesù ha detto ai suoi discepoli: «È bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ho vissuto la vostra vita, ho sofferto e sono morto con voi. Io vi resto presente. Ma è bene che me ne vada poiché, con la mia partenza, vi rivelerò chi sono e chi è Dio».

Ecco ciò che è essenziale nel nostro ministero: rivelare Dio non solo con la nostra andata, ma anche con la nostra partenza. Dobbiamo perciò poter dire: «Ho passato un momento con te, siamo stati insieme, ma è bene che me ne vada. Non mi sento più colpevole. È tempo per me di partire perché Dio possa meglio manifestarsi a te. Io sono la via, ma anch’io sono sulla via». Molti di noi, sia nella vita di famiglia sia nel ministero, sentono un senso di colpa per non essere in grado di fare tutto. Non sta qui il messaggio del Vangelo.

Il Vangelo non vuole che esercitiamo un ministero perché ci sentiamo in colpa, ma perché crediamo che Dio è il Dio compassionevole che è già venuto, che è la sorgente di ogni guarigione, di ogni cambiamento, che fa nuove tutte le cose. Non noi, ma lui. Nel nostro lavoro in quanto medici, psicologi, preti non facciamo altro che rendere visibile la sua compassione. Noi annunciamo incessantemente questa compassione con la nostra perizia, il nostro ascolto e tutto il nostro modo di essere.

Una volta capito questo, facciamo l’esperienza di una realtà molto più profonda: manifestiamo Dio non soltanto con la nostra vita ma anche con la nostra morte. In effetti ogni malattia è un annuncio della nostra morte, ogni partenza è un annuncio della nostra ultima partenza, l’espressione del fatto di essere mortali: l’esercizio del nostro ministero di guarigione ci aiuta a capire che noi rendiamo Dio visibile in questo mondo con il nostro modo di vivere e di morire. Sappiamo che quanti ci hanno lasciato non ci hanno necessariamente lasciati soli. Ci è capitato di farne l’esperienza: i membri della nostra famiglia e i nostri amici che sono morti ci hanno mostrato più chiaramente che non dipendiamo da loro ma da Dio; la loro morte e la loro partenza diventano una manifestazione della presenza di Dio. È di questo che si tratta quando parliamo della nostra vita e della nostra morte come di un ministero. La mia vita è un ministero per voi, per i miei amici, per il mondo in cui vivo, ma con la mia morte manifesto anche la compassione di Dio. Nessuno di noi sarà ancora vivo fra un centinaio d’anni. Ciò è bene perché è così che l’amore e la compassione di Dio diventano visibili.

Per concludere, vorrei riportare un episodio che mi ha sempre colpito e che riassume bene questo tema dell’assenza e della presenza, della presenza di Dio e delle nostre debolezze. Il racconto è tratto da un libro intitolato Il mio nome è Asher Lev, scritto da un ebreo, Chaim Potok. Si tratta di un breve dialogo tra un papà e suo figlio pittore.

Disegnavo… il modo con cui mio padre guardava un uccello adagiato su un lato contro il bordo del marciapiede vicino a casa nostra.

«È morto, papà?». Avevo sei anni e non mi risolvevo a guardarlo.

– «Perché è morto?».

– «Tutto ciò che vive deve morire».

– «Tutto?».

– «Sì.»

– «Anche tu, papà? E la mamma? Sì. E anch’io? Sì», disse. Quindi aggiunse in Yiddish: «Ma forse ciò avverrà dopo aver vissuto una buona lunga vita, mio Asher».

Non riuscivo a capire. Mi sentivo obbligato a guardare l’uccello. «Tutto ciò che vive sarà un giorno come questo uccello? Perché?» domandai.

– «È così che Ribono Shel Olom ha fatto l’universo, Asher».

– «Perché?».

– «Perché la vita sia preziosa, Asher. Una cosa che tu possiedi per sempre non è mai preziosa».

 

Henri J.M. Nouwen

da La compassion, Ed. Fidelité Parigi, 2003