LA CHIESA NEL MONDO GLOBALIZZATO

LA SUA MISSIONE È L’AMORE

 

Che cosa può e deve fare la Chiesa oggi? Bisogna che si possa dire oggi quanto Paolo VI affermava di quella del concilio: Essa amava. Si tratta della sua missione primordiale, situata nella stessa traiettoria della missione del Figlio unigenito, inviato al mondo non per condannarlo, ma per salvarlo.

 

Questo “Speciale” si presenta in maniera un po’ inconsueta rispetto a quelli che siamo soliti pubblicare. Raccoglie infatti due testi, diversi tra loro per origine, ma che ci sembra offrano delle considerazioni quanto mai indicate per riflettere sul significato da dare oggi al Natale, nell’attuale nostro contesto storico. L’incarnazione di Cristo infatti non è un fatto relegato lontano nel tempo, ma un evento di salvezza per noi oggi, per questa nostra umanità, nel faticoso cammino della storia.

La Chiesa pertanto non si limita a celebrare una festa, ma ne assume il messaggio che la spinge, a imitazione di Cristo, ad “amare il mondo” e a offrire a esso quella “compassione” amorosa che Gesù ha manifestato all’umanità con la sua incarnazione.

In questa luce, il primo dei due testi,1 propone una riflessione sul significato che ha oggi la missione della Chiesa nell’attuale contesto di globalizzazione diffuso ormai nel mondo intero. Il secondo testo, di Henri Nouwen, è una meditazione sul “ministero della compassione” che ognuno di noi può ed è chiamato a esercitare nella vita di tutti i giorni; compassione che è quella stessa che ha spinto il Padre celeste a donare al mondo il suo Figlio.

 

“Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chi crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3, 16-17). Riflettendo sul tema che mi è stato proposto per il congresso e confrontando due termini di spessore ineguale, «missione» e «globalizzazione», mi sono venute in mente le parole di Gesù, del Vangelo di Giovanni, le quali, con il tipico linguaggio del quarto Vangelo, ci introducono alla missione del Figlio unigenito nel mondo, fondamento stabile e, al tempo stesso, profondamente dinamico della missione della Chiesa, che tiene conto, bene inteso, del contesto attuale. Contesto, tra l’altro, contraddistinto dalla globalizzazione degli scambi, con tutto ciò che il fenomeno trascina con sé in promesse e minacce, in distruzione e edificazione. Dopo avere tratteggiato in quale prospettiva teologica la parola giovannea ci invita a studiare la questione, tratterò tre dimensioni concrete per la missione della Chiesa: l’universalizzazione del diritto, la formazione al corretto spirito imprenditoriale, il dialogo tra le culture.

 

UNA PROSPETTIVA

TEOLOGICA

 

Che cosa può fare la Chiesa? Che cosa deve fare oggi? Come non sperare di poter dire della Chiesa del terzo millennio quanto Paolo VI affermava della Chiesa del concilio: Essa amava? Si tratta della sua missione primordiale, situata nella stessa traiettoria della missione del Figlio unigenito, inviato al mondo non per condannarlo, ma per salvarlo. Difatti Cristo ha rivelato al mondo quanto Dio l’ha amato e come continua ad amare. E proprio di questo amore la Chiesa non smette di testimoniare, non in modo formale o dichiarativo, ma “con i fatti e in verità” (1Gv 3,18). Il mondo di cui parla il quarto Vangelo è proprio questo mondo, tale e quale è uscito dalla mani del Creatore, e per questo la Chiesa condivide con gioia il giudizio di Dio sulla sua opera: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gn 1,31). Ma è pure il mondo che “giace sotto il potere del Maligno” (1Gv 5,19). In parole, si tratta di un mondo ferito, lacerato, che non è in buona salute, un mondo che, nel complesso delle sue manifestazioni e delle sue trasformazioni, è interiormente tormentato da una lotta spirituale gigantesca e permanente tra la sua originale bontà e le mille derive della stessa a vantaggio di “uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia” (Rm 1,18).

Questa concezione teologica non è manichea. Mi pare, anzi, possa preservarci dal considerare in modo manicheo il processo di globalizzazione che si sviluppa sotto i nostri occhi. Su questo versante, oserei affermare che Teilhard de Chardin, che ignorava questo termine e usava comunemente quello di “planetizzazione”, in un senso eminentemente positivo, ha anticipato la nostra riflessione. A suo avviso le straordinarie evoluzioni materiali e sociali della nostra epoca, pure nei loro aspetti confittuali, non dovevano essere interpretate come forze incoercibili o, peggio, frutto di una fatalità. Toccava ai cristiani svelarne il valore servendosi sia della ricerca scientifica, che le rendeva possibili, sia del progresso della coscienza, che esse potevano suscitare. «L’individuo, solo, di fronte a se stesso – scriveva – non si esaurisce mai. Solo contrapponendosi ad altre persone giunge a vedersi in tutta la profondità e la totalità del suo essere. Benché il nocciolo e il germe della riflessione sia personale e incomunicabile, questa non cresce che insieme. Essa rappresenta essenzialmente un fenomeno sociale. Che vuole dire se non che il suo compimento e la sua pienezza futura coincidono esattamente con ciò che definiamo la planetizzazione umana?... Piuttosto che opporci inutilmente o abbandonarci servilmente all’astro che ci condiziona, che cosa aspettiamo a lasciare che la nostra vita si illumini e si dilati alla luce crescente di questa seconda umanizzazione?»2

Riprendiamo il ragionamento di Giovanni. Ciò che salva il mondo è il dono di Dio del suo Figlio unigenito, suprema manifestazione del suo amore. Restando nell’analogia: chi, nella globalizzazione, può diventare «salvatore» per noi cristiani? Sarà la capacità dei protagonisti umani di questo immenso macchinario di superare la loro avidità e i loro antagonismi, la loro passività o il loro ripiegarsi su se stessi, grazie a un amore più forte del mondo, grazie a uomini nel mondo, ma non ai margini del fenomeno, anzi dentro di esso. Di conseguenza, se la Chiesa si accontentasse di portare soccorso agli “emarginati” dello sviluppo economico mondiale, non compirebbe interamente la sua missione salvifica. Si tratta certamente di un dovere inderogabile ma, se inteso come unico fine della sua azione, equivarrebbe a una sorta di rassegnazione. Tuttavia sarebbe ancora più inadempiente della sua missione se si accontentasse di cantare l’antifona del «neo-liberismo» o quella dell’«anti» oppure di “un’altra globalizzazione”. Non v’è dubbio che nell’uno come nell’altro campo militino cristiani sinceri. Rinchiudersi, però, in questa alternativa, equivarrebbe a ricadere nelle reti di ideologie riduttrici e, quindi, pericolose per l’avvenire dell’uomo. I membri della Chiesa e più particolarmente i fedeli laici di Cristo, immersi nel ribollire di un mondo in gestazione, sono chiamati, come sale della terra, a lavorare dall’interno del flusso di scambi commerciali, delle migrazioni e dell’intensa circolazione di informazioni in tutte le direzioni per umanizzare (o “ominizzare”, secondo la teoria di Teilhard de Chardin) tale processo, «rispondendo così al disegno di Dio sull’uomo», dovere del resto già indicato loro dal concilio (cf. Gaudium et spes 64).

 

UN DIRITTO

UNIVERSALE

 

“…Perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Ogni parola di questo versetto merita una particolare attenzione. Poiché si tratta della missione della Chiesa, ci pare evidente che un accento speciale vada posto su «credere in lui», cioè in Cristo! Ma è altrettanto evidente che non possiamo attendere ad annunciare la buona notizia della salvezza a tutti che il processo di globalizzazione, strappato all’ingiustizia, possa essere considerato, forse un giorno, come un successo di tutti. È invece lecito pensare che la salvezza, nella sua definitiva determinazione, che è esattamente la “vita eterna”, possa anche essere intesa, seppur relativamente, come una realtà temporale, terrestre. «Che nessuno … perisca»: come Charles Péguy non si è stancato di ripetere in tutta la sua opera, la salvezza eterna implica in se stessa il rifiuto di ogni esclusione, e non può essere dissociata dalla salvezza temporale di ogni persona. Detto in altre parole, la comprensione cristiana della salvezza, basata sull’incarnazione redentrice del Verbo di Dio, se si realizza nell’inclusione escatologica dell’umanità redenta, comporta conseguenze storiche immediate, di sorta che il “non perisca” evangelico sia vissuto giorno dopo giorno come un imperativo per la salvezza temporale di ogni persona. Concretamente, questo non è che l’insegnamento del concilio: «La speranza escatologica non sminuisce l’importanza dei compiti terreni ma piuttosto ne supporta l’adempimento per nuovi motivi… (Il Cristo) non suscita semplicemente il desiderio della vita futura, ma attraverso questo anima, purifica e fortifica le generose aspirazioni che spingono la famiglia umana a migliorare le proprie condizioni di vita e, a questo scopo, sottomettere la terra intera» (Gaudium et spes 21.3; 38.1).

La dignità di ogni persona umana è, di conseguenza, il fondamento ultimo del diritto universale, come i vescovi d’Africa non smettono di ricordare. Quando un diritto è calpestato o violato, non bisogna meravigliarsi che scoppino conflitti più o meno latenti, che trascinano con sé una sequela di morte per l’uomo e di disprezzo per la creazione.3 A questo riguardo mi piace riferirmi all’analisi fatta da mons. Monsengwo Pasinya, l’anno scorso (2003), in questo stesso luogo, in una relazione sul tema dell’educazione alla pace, che si proponeva di capire le origini del conflitto internazionale dei Grandi Laghi. Dopo aver richiamato, la complessità delle cause storiche, dalla fine della guerra fredda, non esitava, citando la lettera pastorale del simposio delle Conferenze episcopali dell’Africa e del Madagascar (SCEAM) dell’ottobre 2001, Cristo nostra pace, a entrare nel vivo della questione, a mettere la crisi politica, di cui essa è il frutto amaro, in rapporto alla crisi economica. Tuttavia, aggiungeva: «Dall’inizio alla fine la crisi dei Grandi Laghi è una crisi di diritto». «Ora – diceva – combattere la conflittualità, significa creare in una società condizioni di tolleranza . … Non esiste tolleranza senza una chiara visione della cittadinanza, che definisca lo statuto di ogni persona, i suoi diritti e i suoi obblighi in rapporto alle opzioni e ai valori fondamentali della società di una comunità nazionale data».4

Permettetemi di fare riferimento a due esperienze personali, sicuramente meno drammatiche ma che confermano l’analisi di cui sopra. Avendo vissuto 17 anni nel sud della Corea ho visto un paese emergere lentamente sul piano della competitività mondiale. Come pastore ho condiviso le sofferenze sopportate dalle popolazioni strappate al mondo rurale e andate a ingrossare le periferie di Seul. Non sono dunque affascinato dal “modello asiatico”. Devo tuttavia ammettere la mia ammirazione per l’amore che i coreani portano al loro paese. Sono anche convinto che si sta avvicinando il giorno in cui dovranno dimostrare nuovamente il loro amore, nella necessaria attività di riconciliazione tra le due metà dello stesso popolo com’era prima, artificialmente diviso in due parti dal 38° parallelo dalle ideologie del secolo scorso. Ciò non avverrà senza una profonda educazione alla tolleranza e al senso del diritto delle persone, del diritto economico, del diritto nazionale e internazionale. La chiesa locale ha un compito preciso da svolgere in questa nuova tappa e i vescovi ne sono particolarmente coscienti. Più recentemente, in Francia, siamo stati interpellati dalla cosiddetta crisi del velo islamico. In nome della laicità repubblicana, il governo ha fatto votare una legge che proibisce di portare il velo in ambito scolastico. Noi, vescovi, ci siamo opposti non solo in nome della libertà religiosa, ma perché le tentazioni dell’islamismo radicale, da noi come altrove, hanno la loro origine soprattutto nelle frustrazioni economiche e nell’emarginazione sociale. Il lavoro concreto di educazione alla cittadinanza e al senso del diritto non può, dunque, realizzarsi senza un ambizioso progetto di politiche, in particolare, per la casa e l’impiego. Anche in questo campo, i cristiani devono assumersi la loro parte di responsabilità.

Nell’attuale contesto della mondializzazione, la missione della Chiesa consiste nel fare scoprire la dimensione profetica del diritto. Giovanni Paolo II l’ha dichiarato con forza al mondo diplomatico internazionale, in numerose occasioni e, ancora recentemente, a proposito della guerra in Iraq. Ciò è altrettanto vero per quanto concerne l’economia mondiale. Ricordiamoci dei profeti, nel senso propriamente biblico del termine. Mentre fustigavano i proprietari senza scrupoli perché “vendevano il giusto per danaro e il povero per un paio di sandali” (Am 2,6) si appellavano con ancora maggiore forza “al regno del diritto”, contro un culto ipocrita, dicendo: “Scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne” (Am 5,24, cf. Is 62,1). Nella quotidianità della vita economica, oggi, questo aspetto delle cose non è immediatamente visibile. Troppo sovente accade che l’iniziativa privata, indispensabile per la produzione della ricchezza, soffra a causa di regolamenti che sembrerebbero soffocarla sia a livello statale che a livello regionale. Si potrebbe dire che, per sua natura, il diritto è “freddo”; ma disgraziatamente non entra nelle considerazioni delle persone o delle oligarchie locali. Può anche costituire un peso eccessivo sugli investimenti e provocare la fuga di capitali o di cervelli. È comunque l’unico baluardo contro la corruzione ed è la condizione sine qua non per promuovere un’economia di mercato che sia a servizio di tutti. Come diceva, il 5 dicembre 2003, il card. Renato Raffaele Martino, presidente del Consiglio pontificio giustizia e pace, la globalizzazione, come la concepisce la Chiesa, esige «un codice etico comune». «Non si designa così – precisava – un unico sistema socio-economico o un’unica cultura che imporrebbe i propri valori e criteri all’etica. Pertanto le norme della vita sociale vanno ricercate nell’umanità universale plasmata dalle mani di Dio. Ricerca indispensabile affinché la globalizzazione non sia solamente un altro nome della relativizzazione assoluta dei valori e dell’omogeneizzazione degli stili di vita e delle culture».5

 

FORMAZIONE AL RETTO

SPIRITO IMPRENDITORIALE

 

Nella sua concezione originale, il termine «impresa» può, di per sé, attagliarsi all’avventura missionaria di tutti i tempi. Se la parola evoca spontaneamente l’iniziativa, privata o pubblica, incarnandosi in una istituzione creatrice di impieghi e di ricchezza, richiama, seppure in maniera figurata, l’azione umana unita a quella di Dio, come è stato scritto nel salmo: “Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori” (Sal 127,1). Si tratta dello stesso concetto quando il Cristo giovanneo parla dell’ “opera di Dio” e dice, per esempio: «Il Padre mio opera sempre e anch’io opero» (Gv 5,17). Basti pensare ai viaggi missionari di san Paolo, di san Francesco Saverio e di tanti altri per riconoscere che essi hanno avuto l’audacia delle grandi imprese, costituite da un progetto, di cui erano attori assieme allo Spirito Santo, e da rischi. Ci fa piacere ritrovare le splendide sorgenti dell’iniziativa divina e umana della salvezza per sondare il senso della missione della Chiesa nell’epoca della globalizzazione. «Dio ha tanto amato il mondo… » e il suo amore non è esaurito! Nuovi progetti e nuovi rischi attendono i missionari dei tempi nuovi!

Ciò che noi, oggi, nei nostri rispettivi paesi, chiamiamo animazione missionaria manifesta, alla scuola di Pauline Jaricot e dei suoi emuli, una creatività e una capacità comunicativa che io desidero definire imprenditoriali. Pensiamo a tanti umili fedeli dediti alla preghiera e alla colletta per la solidarietà universale e organica gestita dalle Pontificie opere missionarie. I bambini e i giovani sono sollecitati in mille modi a entrare in questa avventura planetaria. Ogni anno, a Lisieux, in pellegrinaggio con i preadolescenti delle nostre diocesi di Ile-de-France, sono colpito dal fascino esercitato su di loro dalla «piccola» Teresa. Essi stessi si mostrano inventivi, esprimendo il desiderio di comunione concreta con i fanciulli di tutti i continenti, del resto già presenti in mezzo a loro in seguito alle migrazioni. Mi pare che tutte queste azioni formino un humus propizio alla formazione di un retto spirito imprenditoriale, come richiede la nostra epoca per raddrizzare ciò che deve essere raddrizzato della globalizzazione. Ma io vorrei fare un passo avanti.

Riprendo l’intervento del card. Martino, appena citato. «La Chiesa accompagna l’umanità alla scoperta del volto umano della globalizzazione. Essa l’accompagna in modo che dietro i brevetti sugli organismi geneticamente modificati si veda sempre di più il volto dei contadini africani, dietro la lista di cifre incolonnate sugli schermi si vedano i piccoli risparmiatori delle economie in via di sviluppo, dietro i satelliti e le fibre ottiche si vedano i giovani che, nei paesi poveri, potrebbero apprendere a formarsi con nuove tecnologie, dietro i perfezionati diagrammi della “nuova economia” si vedano le imprese come comunità di persone, e dietro la flessibilità del lavoro (si vedano) le famiglie dei lavoratori». «In questo spirito – aggiungeva – consiste la prospettiva cristiana della governance della globalizzazione».6 In altre parole, la missione della Chiesa, anche se evidentemente comporta un aspetto specifico, che si esprime nell’impresa evangelizzatrice e della plantatio ecclesiae, in quelle parti del mondo “dove ancora non è giunto il nome di Cristo” (Rm 15,20), occorre rendersi conto che la «globalizzazione», quale fenomeno socio-economico planetario, è precisamente una di queste aree ancora sconosciute. In questo senso, la dottrina sociale della Chiesa e la lotta per la giustizia fanno sicuramente parte integrante dell’evangelizzazione e, spesso, perfino della prima evangelizzazione.

Tuttavia bisogna pur riconoscere che la formazione allo spirito imprenditoriale richiede, in un considerevole numero di cristiani, una conversione di mentalità. Soprattutto dove l’ideologia marxista ha lasciato delle tracce, non è evidente che l’impresa sia intesa, seppure riconosciuta come comunità di persone, anzitutto come un progetto generatore di ricchezze, con il suo capitale, gli investimenti, gli stipendi, il suo margine di beneficio, la pubblicità e tutto il resto. Si ha veramente tanta paura del liberismo. Ugualmente, bisogna però ammettere che questo spauracchio ha le sue ragioni. Non si “vende” la missione come si vende un prodotto. La fecondità missionaria, siccome appartiene all’ordine della carità, non deve essere confusa con il successo commerciale. Non intendo, d’altronde, forzare indebitamente questa analogia. Voglio dire che la ricerca della riuscita fa parte dell’essere sociale dell’uomo e, ammesso che si coniughi con la solidarietà, non è peccato. In una sana competizione, del resto inevitabile fin dalla prima infanzia o in campo sportivo, è un elemento chiave di ogni educazione. In fin dei conti, ciò che si nasconde dietro questa esigenza non è forse la riabilitazione del senso cristiano dello sforzo, quale materia prima della santificazione? Quando Gesù avverte che “i figli di questo mondo sono più scaltri dei figli della luce” (Lc 16.8) non vuole dire che ci dobbiamo rassegnare. Nel contesto della globalizzazione, la missione della Chiesa consiste nell’estrarre l’oro dal crogiuolo, liberandolo dalle scorie che lo ricoprono. È sicuramente un’impresa molto rischiosa, ma nessuno è in grado di entrare nei pensieri di Dio “restandosene tutto il giorno ozioso” (Mt 20,6).

 

DIALOGO

TRA LE CULTURE

 

Accenno brevemente all’ultimo punto della mia esposizione, che mi pare essere il tema centrale del nostro congresso, e che, in rapporto al fenomeno della globalizzazione, tale come si sviluppa di fatto, offre l’essenziale contrappeso della missione della Chiesa. Tra i recenti documenti del magistero, scelgo il messaggio di Giovanni Paolo II per la Giornata mondiale della pace, 1° gennaio 2001. Questo discorso mi pare una vera carta del dialogo tra le culture, non semplicemente come antidoto a una globalizzazione concepita – come è di fatto – uniformizzazione a un modello falsamente occidentale, ma come condizione indispensabile per una globalizzazione autentica, e che, quindi, bisognerebbe senza indugio, chiamare con un altro nome… Il papa, infatti, parla di un «fenomeno di vaste proporzioni, supportato da vaste campagne medianiche, che tendono a veicolare stili di vita, progetti sociali ed economici e, in definitiva, una visione globale della realtà, che rodono dall’interno diversi fondamenti culturali e nobilissime civiltà. In ragione della loro forte connotazione scientifica e tecnica, i modelli culturali dell’occidente appaiono affascinanti e seducenti, ma disgraziatamente rivelano, con sempre maggiore evidenza, un impoverimento progressivo in ambito umanistico, spirituale e morale».7

Parlo di modello falsamente occidentale perché se l’occidente arrivasse a imporsi così su scala planetaria vorrebbe dire che ha già eliminato, tra gli altri, dal suo patrimonio gli Ilario di Poitiers, Dante, Pascal, Bach o … Suger8 e, da quel momento, ciò che potrebbe offrire come esca assomiglierebbe piuttosto a una vetrina di ninnoli falsi, disgraziatamente abbastanza luccicante tanto da esercitare sul mondo l’attrazione che conosciamo. Da questo punto di vista, esiste una contraddizione flagrante tra l’invasione del turismo nei più bei luoghi di questo Occidente e i disastri che provocano le sue produzioni di bassa lega. Tale contrasto meriterebbe, da solo, uno studio appropriato, sicuramente attorno all’ipertrofia del prodotto e della stessa nozione di mercato. Ma veniamo alla missione della Chiesa, sul piano dell’antidoto e della condizione di un universalismo degno dell’umanità. Per resistere all’attrazione del vuoto, la Chiesa deve offrire a ogni popolo il suo contributo affinché apprezzi la propria cultura: «L’accoglimento della propria cultura quale elemento strutturante della personalità, in particolare nella fase iniziale della crescita, è un dato dell’esperienza universale, di cui non si deve sottovalutare l’importanza. Senza il radicamento in un humus definito, la persona rischierebbe di essere sottomessa, ancora in tenera età, a un eccesso di stimoli opposti, che non ne faciliterebbero la crescita serena ed equilibrata. In funzione di questo rapporto fondamentale con le proprie origini – a livello familiare, ma anche territoriale, sociale e culturale – nelle persone si sviluppa il senso della patria, e la cultura tende ad assumere, più o meno a secondo del luogo, una configurazione nazionale» (6).

Il dialogo reso possibile fra culture diverse a partire dalla comune “cultura della stima” avrà delle ripercussioni anche all’interno della Chiesa. È a questo punto che anche il tema dell’inculturazione, nelle sue connotazioni dogmatiche, etiche, ecclesiologiche, liturgiche e pastorali, meriterebbe attirare la nostra attenzione. Lo accenno solamente, terminando, poiché mi sembra che faccia da contrappeso a una globalizzazione ingannevole. La cattolicità, veramente vissuta come Chiesa, non diverrà dunque una sorta di rifugio ove difendersi dalla vanità del mondo in perdita di senso. Essa sarà, secondo l’invito rivolto ai fedeli al termine della messa, un appello ad “andare” a testimoniare, in mezzo al mondo, che Dio ha donato suo Figlio unigenito per amore. È un amore trinitario, sorgente infinita di comunione: «in quanto espressioni storiche diverse e appropriate dell’unità originale della famiglia umana, le culture trovano nel dialogo la salvaguardia delle loro specificità, così come la comprensione e la comunione reciproche. Il concetto di comunione che, nella rivelazione cristiana, ha la sua sorgente e il suo modello sublime in Dio uno e trino (cf Gv 17,11.21) non è mai una riduzione all’uniformità né un riconoscimento forzato e neppure un’assimilazione; la comunione è, in realtà, l’espressione della convergenza di una varietà multiforme e, di conseguenza, diventa segno di ricchezza e promessa di sviluppo» (10).

 

Olivier de Berranger

 

1 Conferenza tenuta da mons. Olivier de Berranger, vescovo di Saint-Denis, all’incontro, che ha avuto luogo dall’11 al 17 luglio 2004, delle Conferenze episcopali dei Grandi Laghi, sotto il patrocinio della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, sul tema “L’avvenire dell’attività missionaria ad gentes della Chiesa”. Testo in La documentation catholique, 3 ottobre 2004, n. 17, 832-837.

2 Pierre Teilhard de Chardin, La planétisation humaine (1945), in : L’Avenir de l’homme, Ed. du Seuil, 1959, citato da La Croix, 25 gennaio 2004, sup. III.

3 Cf. SCEAM, Symposium des Conférences Épiscoplaes d’Afrique et de Madagascar, Lettre Pastorale, Christ è notre paix,(Ep 2,14), Accra, ottobre 2001, 109, citato da mons. Laurent Monsengwo Pasinya, arcivescovo di Kisangani, in DC 2004, n. 2307, 132.

4 Ibidem, 131 e 133.

5 Secondo l’Agenzia ZENIT, 6 dicembre 2003: «Umanizzare la globalizzazione, compito della Chiesa», ZF031200507.

6 Ibidem

7 Giovanni Paolo II, Dialogo tra le culture per una civiltà dell’amore e della pace, Messaggio per la Giornata mondiale della pace, 9 (DC 2001, n.2239, 1-7). Le citazioni seguenti sono tratte da questo testo.

8 Suger, abbate di Saint-Denis nel XII secolo, ha concepito la prima grande basilica gotica, oggi, cattedrale della diocesi di Saint-Denis-en-France.