FELICE A 80 ANNI

I TRE VOTI E LA LIBERTÀ DI AMARE

 

In occasione del mio ottantesimo compleanno (e di battesimo), i membri della mia famiglia religiosa hanno voluto organizzare una piccola festa intima. Ho voluto celebrare l’Eucaristia con loro. Nell’omelia mi sono stupito nel dire loro: «Sono giunto a un’epoca meravigliosa della mia vita umana e cristiana. Una di queste meraviglie sta nel fatto che comincio a rendermi conto che Dio mi ha accordato un dono di grazia che mi sconvolge e che, forse, per voi è difficile comprendere. Questo dono, del tutto gratuito, è la libertà di amare. Per quanto scavi nella mia coscienza, sento di essere divenuto come incapace di provare verso gli altri il minimo sentimento di rancore, di odio, o desiderio di vendetta o di rivalsa. Al contrario, credo di poter affermare che provo verso chiunque un sentimento interiore di benevolenza. Certamente ci sono persone che mi irritano o che disapprovo, e che persino mi ripugnano, e altre che mi hanno procurato del male, o che mi hanno fatto soffrire. Ma Dio mi ha concesso il dono di attribuire i loro sbagli o la loro malizia o cattiveria a una sofferenza segreta o a degli influssi diffusi di cui sono vittime. Io non ho che un solo auspicio, desiderio e volere: che possano un giorno scoprire l’immenso amore con cui Dio li ama, che possano credervi e affidarsi a lui e alla fine, avere in dono la felicità eterna. Certo, questa libertà di amare che riempie il mio cuore rimane fragile e vulnerabile, e per questo prego Dio di custodirmela e di farla crescere ancor di più. Inoltre, devo riconoscere che troppo spesso non faccio tutto ciò che dovrei per aiutare queste persone a orientarsi verso la felicità alla quale Dio li destina. Rimane pur vero che, nel profondo del cuore, non provo nei loro confronti alcun sentimento di malevolenza. È per me una grande gioia, e non posso non renderne grazie a Dio».

Mi sono allora chiesto: da dove deriva questo dono? Evidentemente, dalla pura grazia di Dio che lo Spirito Santo mi ha comunicato. Mi sono allora domandato: quale cammino ha compiuto questa grazia per raggiungermi?

Ed ecco la risposta che mi si è imposta. Dio mi ha chiamato a organizzare la mia vita cristiana secondo i tre consigli evangelici che la Chiesa propone a coloro che si impegnano in una «vita consacrata». È quanto vorrei qui esporre.

 

IL CELIBATO

CASTO

 

Prima di intraprendere o no questo cammino, il passo umano spontaneo da compiere, nelle relazioni con gli altri, mi sembra sia stato o sia questo. Qui c’è il mio io e davanti a me ci sono gli altri, c’è l’altro; se questo altro è simpatico, provo nei suoi confronti attrazione, stima, affetto, benevolenza. Questo slancio sentimentale verso di lui può ampliarsi a tal punto che l’amico, o l’amica, rischia di trasformarsi in una sorta di idolo. Se invece l’altro è antipatico, egli appare ai miei occhi come un concorrente, ossia un nemico. Provo nei suoi confronti, nel migliore dei casi, indifferenza o, peggio ancora, malevolenza.

Ma ecco che un giorno, sedotto, «cado innamorato» della persona di Gesù. Scopro in lui questo amico e il Dio al quale posso offrirmi attraverso una donazione totale di me stesso e al quale. secondo la bella espressione di san Benedetto, non antepongo niente e nessuno. È la scelta del celibato consacrato e casto. Poco alla volta scopro attraverso questo Gesù, o meglio, Dio in Gesù, che tutte le persone, simpatiche o no, non solo sono create a sua immagine, ma che in tutte vi è una certa presenza di Gesù, secondo le parole dell’evangelista Matteo (25,40).

Pertanto, l’amore che nutro verso Gesù, amore chiamato «agape», o carità, e che lo Spirito Santo riversa nel mio cuore, mi libera da tutte queste distinzioni e selezioni tra simpatici e antipatici, e si prolunga spontaneamente verso tutti e ciascuno di quanti mi sono vicini a qualsiasi titolo o che mi si avvicinano: i miei «prossimi». Eccomi dunque libero di amarli tutti, e del medesimo amore.

Mi pare che l’effetto psicologico caratteristico del mio celibato casto sia stato di rendermi «buono» e di essere sensibile alla bontà delle persone. Senza dubbio, uno solo è buono, Dio, il «buon Dio», il Padre, l’Amore nella sua sorgente. Ma dopo essersi manifestato in Gesù, il «buon Gesù», mite e umile di cuore, questa bontà, seconda qualità dell’agape, paziente e buona (1Cor 13,4) mi è comunicata dallo Spirito Santo e mi sorprendo di avere, anch’io, un « cuore buono» o di essere diventato «buono». E, come detto sopra, verso tutti, almeno a livello di cuore e di benevolenza, malgrado tante deficienze sul piano delle azioni e nel fare il bene. Senza dubbio grazie al celibato casto, ho scoperto che ci sono molte persone, più di quanto normalmente appaia, molto «buone», di una bontà a volte un po’ misteriosa, al di là delle apparenze in contrario. Sì, è attraverso il cammino di un celibato casto che sono divenuto sufficientemente libero di essere buono, verso chiunque.

E, cosa stupefacente, ugualmente libero nell’amicizia. Non c’è che la carità-agape che voglia il bene degli altri, e di chiunque altro. C’è anche la philia, la gioia di voler bene a una persona con la quale mi sento sulla stessa lunghezza d’onda. Gesù aveva i suoi amici, le sue preferenze. Senza cattiva coscienza, io ho le mie preferenze. Esse mi riempiono di una felicità supplementare, di una gioia affettiva. Queste amicizie non sono universali, come l’agape (che non è mai rinnegata), sono “particolari”, come quelle di Gesù con Giovanni, o con Marta e Maria, ma sono senza chiusure, senza esclusioni, senza rifiuto di altre persone. Esse ci avvicinano a Dio, ne sono sicuro. Si integrano del resto molto bene con la carità universale e se ne distinguono come parte di un tutto. Non sono puramente spirituali, sono anche affettive. Il celibato consacrato, derivante dall’amore verso Gesù, ha liberato in me, nel corso degli anni, un’affettività prima inibita, e ciò è stato per me un’esperienza (difficile sotto certi aspetti) ma positiva, molto positiva. Mi ricordo di aver letto pagine molto belle di Aelred de Rievaulx su queste amicizie spirituali e insieme affettive tra persone consacrate a Dio, anche di sesso diverso. Più recentemente due libri di Timothy Radcliffe che affrontano con delicatezza e prudenza il «fenomeno amoroso» che può sorgere nella vita di una persona consacrata a Dio nel celibato. Egli mostra che, se ben gestito, coerentemente con il voto di castità mai messo in questione, può librare un amore di amicizia – certo fragile ma prezioso – che derivando in ultima analisi dall’amore soprannaturale, può contribuire al suo progresso, sì al suo progresso. Quale felicità allora nell’essere liberi di amare tutti e ciascuno al livello più profondo, quello dell’agape e nello stesso tempo amare alcuni particolare a un altro livello, più emozionale, ma ugualmente oblativo e, nel nostro modo di vedere, “contemplativo”!

 

LA POVERTÀ

EVANGELICA

 

Mio padre era un poeta. Uno dei miei nonni era un artista pittore. Una delle mie nonne suonava meravigliosamente il piano. Io ho ereditato da loro qualcosa, ma molto poco. Ma non mi sembra inutile segnalarlo qui. Prima di scoprire la povertà evangelica o di tenermi lontano da essa, l’atteggiamento spontaneo era, o è, il seguente. Qui c’è il mio io, di fronte a me le cose piacevoli e affascinanti: io le desidero. Ancora un poco ed esse divengono degli idoli. Le cose neutre o sgradevoli le rifiuto, non mi dicono niente. Sono senza valore.

Ma ecco che mi è stato rivelato il Vangelo. Grazie a Dio, durante il nostro noviziato, un professore quotato ci ha fatto comprendere in che cosa consiste la povertà evangelica, trasmettendoci il gusto e il desiderio di praticarla. Era l’epoca in cui il cattolicesimo francofono scopriva Charles de Foucauld e ammirava la sua ricerca di una via materialmente molto spoglia e austera. Ciò mi ha molto segnato, e per sempre. La massima che ci venne proposta diceva: «Il meno possibile per me, e il più possibile per gli altri». Grazie a Dio fino ad oggi ho sempre cercato di ispirarmi ad essa, anche se per questo bisognava a volte andare contro corrente. Ho così imparato ad accontentarmi di pochi beni materiali, a volte – come mi dicevano i miei confratelli – in modo eccessivo, cosa che non ho mai rimpianto. Al punto che penso di essere giunto a non desiderare alcuna cosa che non sia veramente indispensabile. Quale liberazione! Il risultato di tutto questo è che concentro quasi tutto il mio interesse sui valori spirituali, sul “tesoro nascosto del regno di Dio”, o la dimensione religiosa della vita umana. Questo è ciò che mi interessa veramente. Le cose nel loro valore venale passano, non mi interessano che molto poco. “Male incolga chi male pensa!”. Sì, le cose sono un dono di Dio. Io non le disprezzo, le tratto con rispetto, tanto più che ne dispongo di molto poche. Ma ai miei occhi esse non hanno che un valore relativo.

Ora, la più bella cosa che Dio ha creato è la persona umana, ma essa non è una cosa, è un corpo e un’anima, un corpo che è il riflesso dell’anima, soprattutto sul suo volto. Sì, il volto, quale meraviglia! Ogni volto: sia quello che irradia visibilmente la presenza divina, e tali volti sono numerosi; sia quello che rivela una sofferenza nascosta, un dramma interiore; sia anche quello cattivo e duro, indice o conseguenza di una più grande sofferenza: quella di non essere stati amati. Ogni volto, allora, mi invita ad amarlo, ad amare l’anima che in esso si rivela, a volere il suo bene, la sua felicità, ossia la sua unione con Dio. Lui che è il solo può donare a queste persone la vera felicità.

Io non posso vedere un corpo umano, in definitiva sempre così bello anche se esteticamente brutto, senza scoprirvi l’anima, l’immagine di Dio, la sua relazione a Dio, la dimensione religiosa della persona. È questo che mi interessa, lo ripeto, e penso che a insegnarmelo sia stata la povertà evangelica. Questa povertà apre il mio cuore all’ammirazione (o contemplazione) della bellezza dei volti, delle persone, dei corpi e delle anime.

Come ho già detto, il celibato casto mi aveva reso sensibile alla bontà, quella del Padre riflessa nei suoi figli, sui loro volti. Aggiungo ora: la povertà evangelica mi ha reso molto più sensibile alla bellezza, quella del Figlio incarnato, riflesso nei volti dei fratelli e sorelle, ma anche in tutte le membra del loro corpo, tempio dello Spirito Santo (in atto e in potenza). Mi ha reso sensibile anche alla bellezza delle cose, non al loro valore commerciale, che mi interessa molto poco. C’è un legame strutturale tra la povertà evangelica e il senso della bellezza degli esseri e dunque l’arte, la gratuità, la musica, la poesia, il senso dell’ammirazione della dimensione spirituale degli esseri, il loro canto, le loro luci e le loro ombre. La libertà di amare si spiega anche in questo contesto o a questo livello.

L’amore divino è la sorgente della bontà degli esseri e delle persone ma anche della loro bellezza. In qualunque persona io incontri, la purezza del cuore, se è casto, scopre la bontà del Padre e la povertà del cuore, se è ricco di regno di Dio, scopre la bellezza del volto del più bello tra i figli nati da donna, quello di Gesù, splendore del Padre.

Quale felicità allora poter amare, di essere libero di amare tutti e ognuno, non solamente volendo il loro bene (agape) o amare il loro fascino particolare (philia) ma anche nel contemplare in loro la bellezza nascosta di Colui che avendomi liberato dalla seduzione delle cose, mi ha insegnato a rimanere abbagliato dal suo volto trasfigurato. La povertà conduce all’ammirazione, e alla lode. Non è questa l’esperienza di san Francesco d’Assisi?

 

L’OBBEDIENZA

RELIGIOSA

 

Al di fuori di essa, l’atteggiamento umano spontaneo è senza dubbio questo: qui c’è l’io, l’io “soggetto”, e di fronte a me l’io “oggetto”, l’io esaltato. L’orgoglio dunque. I miei capricci, la mia ricerca di buone opportunità, il mio nome, il mio regno, la mia volontà. Ecco, l’idolo sono io.

Ma lo Spirito di Gesù mi ha ispirato a lasciare questo genere di mondo, e a entrare nel mondo dicendo: “Io vengo o Dio per fare la tua volontà”: atteggiamento di umiltà e di verità. Dio solo è buono. Io sono suo servo e suo figlio. Ormai, ciò che conta, è il tuo nome, il tuo regno, la tua volontà. Questo è stato l’atteggiamento di Gesù.

Nelle persone che incontro, lo Spirito di verità mi ha rivelato la grandezza e la miseria di ciascuno, e anche di me stesso. Tutti noi siamo usciti dalla mano creatrice di Dio, ma siamo tutti feriti dal peccato originale, tutti siamo stati riscattati dal sangue di Cristo, siamo stati investiti dallo Spirito d’amore che cerca di entrare in ciascuno, tutti siamo cari al cuore del Padre. Ma tutti siamo vulnerabili e fragili.

L’umanità è dolorosa, sofferente e peccatrice, malgrado la sua nobiltà. Essa è assillata dalla prospettiva della morte, ma è predestinata alla gloria celeste, alla “gloria di amare”. L’obbedienza religiosa mi ha educato e insegnato a rinunciare ai miei progetti personali, ai miei giudizi e alle mie scelte. A non scegliere né il luogo dove risiedere, o quello del mio lavoro, né le persone della mia comunità, né coloro al quale sono inviato; ad accoglierle da Dio attraverso le mediazioni umane; a essere contento dappertutto; a essere libero dai miei gusti, per donarmi alle persone e agli impegni che mi sono affidati. Questa libertà, questa disponibilità è molto tranquillizzante. Elimina molti falsi problemi. Ed è ancora una libertà d’amare. Essa consiste in più cose, per esempio nel non dover giudicare la coscienza degli altri. Io non colgo che l’aspetto esterno delle loro parole e dei loro comportamenti. Dio solo conosce i loro cuori. Non spetta a me conoscerli e giudicarli. Ci penserà Dio molto bene. Io ne sono felicemente dispensato. Il mio problema è cercare di discernere qual è la volontà di Dio a mio riguardo, senza lasciarmi influenzare dall’opinione pubblica o dal conformismo sociale. È questo che l’obbedienza religiosa mi ha insegnato, ciò a cui mi ha educato. Anziché perdere del tempo nel chiedermi in quale misura una persona è degna d’amore o di rifiuto, ho tutta la libertà di amarla poiché è evidentemente la volontà di Dio, di perdonarla se mi ha procurato del male, e di compatire le sue sofferenze se ha subito un male.

Sì, è stata l’obbedienza religiosa, penso, a insegnarmi a non permettere che abbia a insinuarsi nel mio cuore un sentimento di rancore nei confronti di chiunque. Se qualcuno ha voluto farmi del male, in realtà non è a me che l’ha fatto, ma a se stesso e a Dio. A se stesso, e dunque provo pietà verso di lui e non collera. A Dio, e dunque io imploro il suo perdono. Se in qualche luogo non vi riceveranno e non vi ascolteranno, andandovene, scuotete la polvere di sotto ai vostri piedi, a testimonianza per loro (Mc 6,11), vale a dire: non portate con voi alcun cattivo ricordo di questa cattiva accoglienza. Lasciate questa polvere da loro. Poi, voltate pagina, e cominciate un nuovo capitolo su una pagina bianca. Meravigliosa libertà di amare, una volta di più.

Come si è visto, io ho creduto di poter trovare nel celibato casto il riflesso della bontà del Padre, sorgente dell’amore; nella povertà evangelica quello della bellezza del Figlio, immagine e rivelazione dell’amore, e nell’obbedienza religiosa quello della verità dello Spirito d’amore, colui che effonde l’amore di Dio nei nostri cuori. Questi approcci sono fondati? Ai miei occhi, sì. Al lettore giudicarli.

Ma ciò di cui sono sicuro è che la libertà di amare che riempie di gioia il mio cuore di ottantenne, sono i tre consigli evangelici di cui il Padre, il Figlio e lo Spirito si sono serviti per farmene dono. Come rendere loro grazie?

 

Dominique Nothomb, m.afr.

 

1 Questa testimonianza è stata pubblicata dalla rivista trimestrale Vies consacrées nel numero di ottobre-dicembre 2005, col titolo La liberté d’aimer.