VERSO UN NUOVO SINODO PER L’AFRICA

SFIDE E POSTE IN GIOCO

 

Con sorpresa di tutti, il 13 novembre 2004 Giovanni Paolo II annunziò ai vescovi del simposio delle conferenze episcopali di Africa e Madagascar (SECAM), riuniti a Roma, la sua intenzione di convocare un secondo sinodo dei vescovi per l’Africa. E Benedetto XVI lo ha confermato

lo scorso 22 giugno.

 

Che cosa ci sarà all’ordine del giorno teologico e pastorale di questo nuovo sinodo a soli dieci anni dal primo sinodo? Quali sono i problemi teologici e pastorali che sfidano i vescovi? C’è bisogno di un sinodo o di un concilio per studiare i problemi dell’Africa d’oggi? A queste domande risponde in un articolo apparso sulla Nouvelle Revue Théologique il teologo africano. Augustin Ramazani Bishwende, originario dell’arcidiocesi di Bukavu (RDC).

 

I NODI TEOLOGICI

DEL SINODO

 

Secondo questo autore, tre sono i nodi teologici centrali del sinodo del 1994: la fede che si fa cultura e quindi agente di trasformazione e rinnovamento delle culture; la fede come lotta e impegno per la giustizia; e la fede come dialogo con il mondo contemporaneo, con gli uomini di oggi, credenti e non credenti in vista di un mondo diverso costruito sulla giustizia e sulla pace.

La fede è cultura

Dal tempo dell’indipendenza si è avviato un movimento di africanizzazione delle strutture ecclesiali, di incarnazione del Vangelo nelle culture e i vescovi, sulla spinta del Vaticano II, sono oggi coscienti che devono farsene collegialmente carico. Con il sinodo essi sono convinti che il cristianesimo non avrà futuro in Africa (e non solo là) se non procede sulla strada dell’inculturazione. L’incontro delle culture con il Vangelo non può che modificare il popolo, la sua visione del mondo e la cultura. Oggi tutti comprendono che la cultura non è un diritto da conquistare e da rivendicare, ma un’esigenza inderogabile di ogni evangelizzazione e una sua intrinseca dimensione. L’inculturazione è connaturale alla vita e all’essenza della chiesa e semmai c’è da chiedersi perché non lo si sia riconosciuto prima. Non si può dimenticare che l’inculturazione comporta anche dei rischi e degli errori che potrebbero essere riassunti in due fenomeni: un culturalismo arcaizzante, che ritorna cioè all’arcaico per l’arcaico, e un sincretismo regressivo. In breve: è evidente che l’inculturazione non va fatta sul modello del «fai-da-te».

La fede diventa cultura solo quando gli africani potranno costruire una chiesa veramente africana, dotata di una teologia e, soprattutto, di un’ecclesiologia e pneumatologia africane. I vescovi africani in sinodo hanno optato per l’edificazione di una «chiesa-famiglia-di-Dio» fondata pastoralmente sui valori delle società africane, ramificata in comunità abbastanza piccole da permettere delle relazioni umane. Secondo il teologo Paulin Poucouta, la Chiesa è una «famiglia di fratelli» convocata dalla Parola e mossa dallo Spirito per formare quel corpo eucaristico che è chiamato a diventare il «sacramento della fraternità» nell’attesa che si realizzi l’assemblea escatologica dei figli di Dio nell’ultimo giorno, attorno al Crocifisso risorto. Questa fraternità fa appello alla cooperazione e alla comunione tra comunità ecclesiali locali, regionali e continentali in seno alla comunione universale delle chiese. Facendo riferimento al Dio Trinità, che è amore condiviso, la Chiesa in Africa promuoverà nuove relazioni, riconcilierà gli uomini al di là di ogni divisione etnica, clanica e nazionale, cercherà di sanare quei molti focolai di conflitto e di violenza che troppo spesso sono ancora presenti in Africa.

La fede comporta un impegno per la giustizia

Il secondo nodo teologico è relativo all’impegno per la giustizia. Una Chiesa che celebra l’Eucaristia non può non praticare la giustizia sociale. È un impegno che rimonta ai profeti e a Gesù Cristo che è venuto per portare la pace. L’inculturazione non può essere ridotta ad «una folclorizzazione del culto e ad un esuberanza della liturgia» (p. 546). L’evangelo, deve essere invece anzitutto una lieta notizia di autentica liberazione, come diceva il card. Thiandoum durante il sinodo del 1994. E questo a cominciare dalla chiesa stessa nel buon uso del denaro, nella giusta rimunerazione dei suoi dipendenti, nel rispetto della dignità e dei diritti della donna, nella priorità data ai poveri. Qualche passo in questo senso si vede, ma resta ancora un lungo cammino che porterà la chiesa africana a essere una voce sempre più profetica, la voce dei «senza-voce», a difendere la dignità e i diritti di ogni persona, a essere una comunità che promuove lo sviluppo integrale dell’uomo. Solo così sarà sacramento di riconciliazione nella convinzione teologica profonda che solo la relazione con il Cristo porta a piena perfezione l’uomo.

Fede e dialogo con la società, con i credenti e i non credenti

Il sinodo è stato per i vescovi un luogo e un’opportunità per vivere la collegialità episcopale ed ecclesiale e per riflettere sui problemi. Di lì è ripreso il dialogo con il mondo, con le società africane e con le religioni tradizionali. Queste ultime sono diventate degli interlocutori riconosciuti, grazie al fatto che hanno conservato vive le loro tradizioni, convinzioni e pratiche terapeutiche. Nella teologia africana queste religioni sono considerate “luoghi teologici, possibili luoghi di conversione” (p. 548). Il dialogo con le religioni non cristiane rimane un nodo teologico centrale del dopo-sinodo, ancora da approfondire nel contesto della globalizzazione per promuovere la pace in questa temperie di terrorismo internazionale.

 

NODI ECCLESIOLOGICI

DEL SINODO AFRICANO

 

Il sinodo era stato un evento di speranza e di risurrezione e la prima novità che esso ha portato è stata un cambiamento del concetto di «potere», inteso evangelicamente come diaconia esistenziale in favore dell’uomo. I vescovi hanno operato un passaggio da una «chiesa del potere» a una «chiesa ministeriale». A partire dalla coscienza dell’unico sacerdozio regale di Cristo, morto e risorto per noi, i vescovi hanno affermato che la «chiesa-famiglia-di-Dio» doveva articolarsi in piccole comunità ecclesiali di base (CEB), pietre della costruzione della Chiesa, dove si vive una solida spiritualità e una ministerialità nel quotidiano. La promozione delle CEB va di pari passo con la promozione di un laicato responsabile e competente che assuma dei ministeri nuovi e adatti ai bisogni della comunità. I vescovi africani avevano sottolineato l’importanza del ministero delle donne (proposizione 49), ma Roma ha creduto che non fosse venuto ancora il tempo, nel timore che questa novità mettesse in sordina i ministeri dei presbiteri e dei vescovi. Ma a quarant’anni dalla conclusione del concilio – si domanda Ramazani Bishwende – «lo sviluppo d’una teologia delle chiese locali si dovrà fondare sull’ecclesiologia di comunione o su una chiesa-società clericale legata ad una teologia del potere?» (p. 550).

Le chiese africane si trovano oggi davanti delle sfide che interpellano – quando non ostacolano – l’evangelizzazione del continente. Le principali sembrano essere tre. La prima è la resistenza alla localizzazione e alla regionalizzazione del cristianesimo che dovrebbe invece accogliere la molteplicità delle esperienze di inculturazione per offrirle alla comunione universale delle chiese. Le chiese africane dovrebbero superare quella dipendenza che attualmente le caratterizza nel campo spirituale e materiale, culturale e finanziario. Le cause di questo blocco nella localizzazione delle chiese africane sono molteplici: il predominio (Ramazani Biswende lo chiama “imperialismo”) dei missionari che impedisce che gli africani siano “missionari di se stessi”, come aveva suggerito Paolo VI a Kampala nel 1969; il centralismo e la burocrazia della curia romana; la stessa Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli; un esercizio della collegialità episcopale tra i vescovi africani sarà difficile senza l’esercizio della sussidiarietà e lo stabilirsi delle conferenze episcopali nazionali e regionali.

La seconda è costituita dall’attuale fenomeno della globalizzazione, nuova edizione del colonialismo e della schiavitù dell’Africa, che i vescovi dell’Africa non hanno saputo prevedere e che porta delle conseguenze nefaste e inaudite nella maniera di vivere. Per ora essa ha portato in Africa solo conflitti sociali, economici, culturali, politici e militari, ha accresciuto le disuguaglianze tra nord e sud e ha escluso i più dal progresso. Ha imposto con i metodi autoritari propri della colonia la propria cultura e il proprio pensiero politico ed economico, con la conseguenza, già denunciata da Ecclesia in Africa, che l’Africa è diventata «un’appendice senza importanza, spesso dimenticata e trascurata da tutti» (n. 40). Senza demonizzare la globalizzazione, le chiese africane dovrebbero impegnarsi per una globalizzazione dal volto umano. Sarà capace l’evangelizzazione di portare un contributo alla trasformazione di questa situazione?

 

RIUNIONE DEL SINODO

O CONCILIO ECUMENICO?

 

La modernizzazione dell’Africa, la sua entrata cioè nel mondo moderno, è la terza sfida. Essa non si è fatta senza pagare dei costi altissimi. Possiamo dire che l’entrata nella modernità è stata violenta e mortifera. Basta pensare alle guerre civili, alle strutture ingiuste, alle miserie che hanno accompagnato il processo di indipendenza delle nazioni africane e continuano ancora oggi. Si pensi al flagello dell’AIDS. La modernizzazione dell’Africa e il suo contatto con il mondo moderno è avvenuto sulla base di scambi commerciali, senz’anima, che hanno scaricato ogni cosa, buona e cattiva, utile e inutile, e che ha indotto anche un consumismo deleterio. Tra le altre cose la modernizzazione ha portato forme religiose straniere che non rispondono al cuore africano: «una proliferazione di chiese indipendenti, di movimenti spiritualistici, una rinascita delle religioni ancestrali e delle società segrete tradizionali che hanno portato dritto al sincretismo religioso» (p. 552). Sono forme religiose consolatorie, di evasione, che rispondono certo alla situazione disperata dell’Africa d’oggi, ma che non contribuiscono alla costruzione del suo futuro. Queste nuove religioni o sette, afferma il card. Danneels, offrono il meglio e il peggio nello stesso tempo: una reale fraternità e solidarietà insieme con un’intolleranza e un vergognoso sfruttamento delle situazioni, un pietismo ingenuo con un fondamentalismo corrosivo, un integrismo che va di pari passo con l’oscurantismo. Per questo, le chiese africane devono tenerle d’occhio come un segnale d’allarme.

Sarà in grado l’Africa di sostenere il colpo di queste sfide che sono legate all’evoluzione di un cristianesimo sempre più universale che dovrebbe essere governato secondo i principi della sussidiarietà, della flessibilità, di una comunione nella corresponsabilità, in modo decentralizzato ed evangelico? Sarà capace di uscirne maturata? Notiamo che le chiese africane sono uscite dal sinodo del 1994 più coscienti della collegialità episcopale e rinnovate nella speranza di una nuova pentecoste. I vescovi, quanto meno, hanno preso coscienza di essere a capo della comunione delle loro comunità nella solidarietà, fraternità, e cooperazione per l’evangelizzazione del Regno e per un mondo di giustizia e di pace.

Ma il sinodo non è un luogo per prendere delle decisioni, è invece un organo consultivo sotto l’autorità del papa al quale compete di decidere. Ma non sarebbe tempo che il sinodo preparasse la convocazione di un concilio ecumenico che si mettesse a riflettere su queste grandi sfide che non si rivolgono solo alle chiese dell’Africa, ma anche a tutte le altre? Forse si dovrebbe riprendere seriamente il paradigma ermeneutico e teologico delle «chiese sorelle» elaborato da Paolo VI nei suoi contatti ecumenici con il patriarca Atenagora di Costantinopoli.

Un concilio africano è il vecchio sogno di molti teologi africani: Eboussi Boulaga, Englebert Mweng, Alioune Diop, Jean-Marc Ela … che forse dovrebbe essere concretizzato «per lo sviluppo dell’Africa e per l’autodeterminazione delle chiese africane” (p. 554). La Chiesa universale e più ancora l’Africa ha bisogno di un concilio e non di un sinodo e sembra che «questo frutto sia così maturo, da essere pronto ormai per essere raccolto» (p. 554).

Su questo punto il pensiero dell’Autore non sembra essere del tutto chiaro e coerente, come cioè possa un concilio ecumenico universale prendere delle decisioni concrete per un particolare continente che non presenta situazioni omogenee con il resto della comunione delle chiese. E, nello stesso tempo, come si possa realizzare il desiderio espresso da P.M. Hebga che gli Africani siano lasciati soli davanti a Dio «perché lo Spirito li visiti senza intermediari» e possano prendere le necessarie decisioni per il bene del continente (cf. p. 555). Resta comunque vero che il secondo sinodo dei vescovi per l’Africa convocato da Benedetto XVI potrebbe aiutare le chiese dell’Africa «a meglio organizzarsi e soprattutto a prepararsi per il nuovo concilio», se questo sarà mai convocato.

 

Gabriele Ferrari s.x.

 

1 A. Ramazani Bishwende, Le synode africain, dix ans après, Nouvelle Revue Théologique, 127 (2005) 541-556.