ASSEMBLEA DEI SUPERIORI GENERALI

FEDELTÀ E ABBANDONI

 

Pur tra tanti abbandoni, molti i segni di vitalità. Problemi affettivi, conflitti con i superiori e crisi di fede, le cause prevalenti all’origine degli abbandoni. Recupero del senso di “eccellenza” della vita consacrata. Importanza fondamentale del discernimento iniziale.

 

A distanza di un anno dal congresso internazionale sulla vita consacrata, i superiori generali, nella loro consueta assemblea semestrale di novembre (23-25), hanno voluto riflettere seriamente sul tema degli abbandoni della vita consacrata. Anche se in gran parte è un fenomeno fisiologico, una specie di selezione naturale, come ha ribadito più volte uno dei relatori, Lluís Oviedo, oggi però ha ripercussioni più vistose e preoccupanti, soprattutto in quegli istituti sempre più pesantemente contrassegnati dalla mancanza di vocazioni e dall’età avanzata dei propri membri.

L’elevato numero dei partecipanti (170 circa) è un indice significativo di quanto il problema sia percepito oggi come di primaria importanza. Volutamente si è cercato di affrontare il tema in una chiave propositiva, quella della fedeltà vocazionale. Anche analizzando i numeri e le cause di tanti abbandoni, l’obiettivo di fondo era quello di esplicitare le ragioni per cui vale la pena impegnare la propria esistenza nella vita consacrata.

Accanto ai “segnali di morte”, non mancano indici significativi di vitalità. Don Francesco Cereda ha presentato in assemblea i dati di un’indagine sugli aspetti positivi presenti nella vita consacrata di oggi. I dati raccolti (da solo venticinque risposte rispetto alle quaranta che ci si attendeva) spaziavano dall’Europa occidentale e dagli Stati Uniti all’Europa orientale, all’Africa, al Madagascar, all’Asia, all’America latina. Le domande e le conseguenti risposte vertevano sul senso di appartenenza, sulla visibilità della consacrazione, sul senso della Chiesa, sui rapporti con la cultura odierna, sull’equilibro (tra tradizionalisti e progressisti) nel campo della formazione, sulla spiritualità, sul senso della vita consacrata, sulla semplicità delle abitazioni, sulla collaborazione con altre istituzioni, sulla opzione preferenziale per i poveri, sulla povertà individuale e istituzionale, sulla promozione vocazionale, sulla formazione integrale e personalizzata, sulla organizzazione interna e sulla partecipazione, sul ruolo delle figure carismatiche, sulla disponibilità o meno a forme di vita consacrata più impegnativa e radicale.

 

FRAGILITÀ

VOCAZIONALE

 

Ma, com’era facile prevedere, gli interessi dei superiori generali e dei loro consiglieri presenti in assemblea, più che sui segni di vitalità della vita consacrata, erano proiettati sui numeri e sulle cause degli abbandoni. Già nel breve documento di lavoro, con molto realismo si parlava di «situazioni personali e di gruppo, caratterizzate da grande fragilità vocazionale, fragilità che non si riesce a superare». La conseguenza inevitabile è allora quella non solo delle numerose persone che “lasciano”, ma anche di «alcuni che dovrebbero uscire e lasciare la vita consacrata, ma non lo fanno e rimangono religiosi».

Di fronte agli abbandoni «proporzionalmente numerosi e significativi», nel documento di lavoro erano già stati anticipate le quattro diverse tipologie dei religiosi che lasciano l’istituto. Accanto a coloro che escono al termine di un serio e sofferto processo di discernimento vocazionale, ci sono quanti «escono e non dovrebbero farlo». Costoro, nel momento in cui decidono di andarsene «sono infedeli a una chiamata che continua a essere presente e a una capacità di risposta che dovrebbe permettere loro di continuare nel rispettivo istituto religioso». Ma c’è anche una terza tipologia, quella di «quanti non escono e invece dovrebbero farlo». Questo si verifica nei casi in cui «il restare di alcuni nella vita religiosa non è frutto di fedeltà». Solo con la loro uscita, in certi casi, si potrebbe «migliorare la qualità della vita consacrata». Ultimo caso, infine, è quello di quanti fortunatamente «superano le crisi vocazionali e pertanto continuano a vivere in modo rinnovato la vita consacrata».

Anche solo sulla base di queste diverse tipologie è facile accorgersi di quanto «l’attuale realtà, in merito alla perseveranza, sia seria. Non si può ignorare, né tanto meno non valutare o ponderare ciò che accade».

Oggi non è più consentito sfuggire ad alcune domande sul perché alcuni lasciano, sul concetto stesso di fedeltà vocazionale, sull’esistenza o meno di dati oggettivi all’origine di tante infedeltà, sulle condizioni, personali e di gruppo, che favoriscono la vitalità nella vita consacrata.

Gli obiettivi e le attese nei confronti di questa assemblea erano tanti. Erano enunciati con molta chiarezza nel documento di lavoro: analisi antropologica, sociologica, teologica, culturale della fedeltà e della perseveranza, presentazione quantitativa e interpretativa degli abbandoni, individuazione dei fattori sia “a favore” che “contro” la fedeltà vocazionale, responsabilità diretta dei governi generali nel campo minato degli abbandoni.

È difficile dire fino a che punto gli obiettivi siano stati di fatto raggiunti. Purtroppo, come spesso succede in casi del genere, finito l’incontro, si spengono anche i riflettori sul tema affrontato. Una residua speranza è generalmente riposta nella pubblicazione degli atti di queste assemblee. Ma quando arrivano gli atti, le agende dei superiori generali sono già ripiene di altri impegni, di altri incontri, di altre fatiche. Eppure sarebbe un peccato lasciar cadere nel vuoto le riflessioni dei due gesuiti José Maria Fdez-Martos, sulla “fedeltà vocazionale oggi”, e di Edward Mercieca, sulle “sfide da affrontare e cammini da intraprendere per i governi generali”. Nello stesso tempo, sarebbe un peccato disperdere il contributo dei gruppi di studio linguistici, dove il discorso teorico è messo concretamente a confronto con la realtà della vita di tutti i giorni di un superiore maggiore e del suo consiglio.

 

QUATTRO

DIVERSE TIPOLOGIE

 

Uno degli aspetti dichiarati di questa assemblea era quello di un’analisi empirica e quantitativa della realtà degli abbandoni. È toccato a un esperto del settore, il francescano Lluís Oviedo, presentare in aula i dati di una recentissima indagine voluta espressamente dalla presidenza dell’unione dei superiori generali. Lo ha fatto seguendo uno schema ben preciso: le cifre relative agli abbandoni, i motivi che sono all’origine degli stessi, teorie interpretative del fenomeno, proposte a beneficio dei superiori e soprattutto dei formatori.

Illustrando alcune cifre, la prima considerazione di Oviedo è stata quella relativa a una “costante” in tutti gli istituti che hanno risposto all’inchiesta. Negli ultimi quindici anni non si registrano rilevanti variazioni. Sono soprattutto i professi di voti temporanei a lasciare. È un fatto normale, quasi di “selezione naturale dei più adatti”. Che poi questi abbandoni si verifichino prevalentemente nell’Europa dell’est, nell’America del sud, in Asia e in Africa, è dovuto semplicemente al fatto che in queste aree c’è il maggior numero di vocazioni e di candidati in formazione.

Tra i professi di voti perpetui, invece, la fascia di età più coinvolta negli abbandoni è quella tra i 30 e 50 anni. Se invece dell’età vengono valutati gli anni di professione, quasi la metà di quanti lasciano sono professi di voti perpetui da meno di dieci anni, a significare, con questo, l’età sempre più matura di quanti fanno la professione perpetua. Da un punto di vista geografico, in percentuale, abbandonano di più i religiosi dell’America del sud e quelli dell’Europa occidentale.

Ma più che sui dati, Oviedo si è soffermato sulle motivazioni che sono all’origine degli abbandoni. Su un totale di 409 casi raccolti dalle schede compilate dalle segreterie generali degli istituti, al primo posto ci sono problemi affettivi (43,3%), seguiti, a distanza, da insoddisfazione e stanchezza, da immaturità e problemi psicologici, da conflitti con i superiori, e solo in minima percentuale, da crisi di fede (5%). Secondo un’altra sua indagine più accurata di soli due anni fa, ha osservato Oviedo, la percentuale dei problemi affettivi si attestava addirittura sul 70%. Lo scarto tra queste due percentuali potrebbe essere determinato anche dal significato diverso attribuito ai “problemi affettivi”. Nella scheda, ad esempio, inviata da un segretario generale, si negava l’esistenza di qualsiasi problema affettivo, anche se poi di fatto l’ex religioso si era sposato o viveva con un’altra persona.

È significativo, inoltre, il dato sulla qualità della vita dell’ex religioso. Nella maggioranza dei casi i religiosi che lasciano, sia per quanto riguarda la loro vita di preghiera che l’impegno apostolico, non sono affatto peggiori di quanti rimangono. Sono, mediamente, dei buoni religiosi. Molti di essi, anzi, hanno ottimi rapporti con i confratelli, anche se, a un certo punto, lasciano o si sentono comunque vincolati a un’altra persona.

Se anche in base a una recente indagine tra gli ex-gesuiti nordamericani i motivi di abbandono si possono sostanzialmente ridurre a tre: problemi affettivi, conflitto con i superiori e crisi di fede, quali possono essere le chiavi interpretative di questi fatti? Oggi, secondo Oviedo, «siamo nelle condizioni di capire abbastanza bene le grandi linee di tendenza e i motivi di fondo degli abbandoni, che più o meno costantemente emergono dalle nostre indagini». Da una parte non va sottovalutata la classica teoria della secolarizzazione che ha raggiunto inevitabilmente anche i consacrati. Anche per loro è cambiata la cornice culturale di riferimento, tradizionalmente pervasa da valori cristiani, con la conseguente caduta di tutti gli indici di fedeltà e di impegni definitivi.

Ma, forse, non è meno vera una seconda teoria, quella cosiddetta del “nuovo paradigma”, secondo la quale «il venir meno del senso di “eccellenza oggettiva”, conseguente allo sviluppo teologico postconciliare, avrebbe intaccato le capacità di attrazione nei confronti dei potenziali candidati alla vita consacrata». Detto in altri termini, se la scelta di una vita che richiede di sacrificare una delle dimensioni essenziali della vita umana, la dimensione affettiva e riproduttiva, non rappresenta un qualcosa di più, allora è meglio lasciar perdere, dal momento che non avrebbe senso pagare un prezzo così alto per un guadagno così ridotto. Il realismo crudo di un’analisi del genere, nella misura in cui aiuta a capire la realtà, comporta inevitabilmente una strategia meno idealista. Soltanto elevando i livelli di rigore, secondo questa teoria, si potrebbero arginare tutte le tendenze al disimpegno, la cui forma più manifesta è quella dell’abbandono della vita consacrata.

 

DISCERNIMENTO

E “CORDONI SANITARI”

 

La spiegazione di un fenomeno come quello degli abbandoni è comunque sempre molto complessa. Non è detto, infatti, che zone più secolarizzate conoscano un più alto numero di abbandoni. A volte è vero proprio l’inverso. Le crisi, inoltre, non nascono di solito dalla perdita di fede, «un fattore poco rilevante nelle nostre indagini», osserva Oviedo. Semmai possono incidere maggiormente sugli abbandoni alcune tendenze culturali, quali, ad esempio, lo scarso apprezzamento dei valori più specifici della vita consacrata, come l’obbedienza e la castità, valori privi di qualsiasi correlazione a livello culturale. Ma neanche i teorici del “nuovo paradigma” hanno sempre ragione. Non è detto, infatti, che lì dove entrano in gioco fattori di rigore, di “eccellenza”, di maggior visibilità ecc., le vocazioni siano maggiormente protette. Possono, al più, rivelarsi vincenti al momento della proposta e del reclutamento, ma non sono in sé stessi una garanzia capace di scongiurare poi le uscite.

Per Oviedo, gli abbandoni sono riconducibili fondamentalmente a due ordini di cause, una anagrafica e l’altra affettiva. I dati dimostrano inequivocabilmente che, di solito, se ne vanno i più giovani. Questo significa che il numero di religiosi giovani di un istituto «costituisce un buon indicatore per prevedere il numero di abbandoni». Inoltre, l’altro elemento determinante in ordine agli abbandoni è quello affettivo, inteso nel suo senso più largo e legato a variabili e situazioni spesso molto complesse. Anche qui, però, da un punto di vista empirico «non è chiaro come mai due religiosi in situazioni comunitarie e personali molto simili, prendono poi una decisione diversa di fronte alla prova e alla tentazione di lasciare».

Di fronte al fenomeno degli abbandoni, purtroppo, «pare che ci sia poco da fare, se non accettare un processo di inevitabile “selezione naturale” che non lascia quasi nessun spazio di manovra o di intervento correttivo».

Per ora, una strada percorribile e confermata dall’esperienza, per arginare il fenomeno, pare essere quella di una selezione iniziale più rigorosa, seguita da un noviziato più lungo e da un processo formativo molto più solido soprattutto a livello spirituale. Quando gli abbandoni sono frutto del condizionamento culturale, l’impresa è ardua. Li si potrebbe, forse, contrastare attraverso una convinta proposta di valori alternativi e una sana contestazione dei valori ambientali. Alcuni teologi dell’America del nord stanno oggi valutando con diffidenza tutti i processi di inculturazione o di assimilazione culturale. «Può darsi, commenta Oviedo, che una tale posizione possa apparire come troppo “settaria”, comunque non si dovrebbe dimenticare che la vita consacrata è sempre stata un fatto di élite rispetto alle realtà sociali e anche ecclesiali, e che un certo atteggiamento “settario” è pressoché inevitabile».

Il rafforzamento del senso di “eccellenza” e una visione più ecclesiale della vita consacrata, insieme a una più convinta autostima proprio in quanto consacrati, sono tutte strade da non trascurare. La totale uguaglianza tra tutti i diversi stati della vita cristiana, invece, potrebbe rivelarsi «meno conveniente quando ci si propone di incentivare la perseveranza e di scoraggiare altre scelte di vita» tra i religiosi. Ciò non toglie, comunque, l’assoluta importanza del discernimento iniziale, nel momento, in cui, anche oggi, «forse abbiamo un margine maggiore di intervento».

 

Angelo Arrighini