UNA CHIESA OLTRE LA CRISTIANITA’

 

Prima venne l’ordinanza di un tribunale sulla rimozione del crocifisso da un’aula scolastica, poi la bocciatura europea di un ministro che aveva esternato la sua visione cattolica, quindi la scelta di non menzionare le radici cristiane nel preambolo della costituzione europea, fino ai referendum sulla procreazione assistita e al dibattito sui patti civili di solidarietà. Una traiettoria prodotta da una progressiva caduta di valori o dettata da una cinica agenda politica o giocata ad arte da lobby imbevute di laicismo? Domande che non possono ricevere risposta vera e significativa se non approfondiamo il modello di Chiesa ricevuto dal Vaticano II e non facciamo adeguato discernimento sulla nostra evangelizzazione. Un libro del pastoralista Carmelo Torcivia va segnalato perché tenta di offrire un quadro breve e stimolante, frutto di seria ricerca, per collocare sia quelle domande che le possibili soluzioni.1

 

CHIESA COME

POPOLO MESSIANICO

 

«La fine del tempo e della pastorale di cristianità non è affatto il tramonto del cristianesimo. È semmai il tramonto di un mito, quello della unanimità cristiana della società, e di un regime plurisecolare, che aveva creato e alimentato l’ideologia teologica del “compimento”, della “cattura del tempo della fine”. Il regno di Dio – così si pensava – era stato già realizzato grazie alle strutture tipiche della cristianità… L’irruzione del mondo moderno, in special modo dopo la forte scossa dell’illuminismo, ha infranto questo sogno e ha permesso alla Chiesa di rompere questo schema plurisecolare, e di ritrovare una sua nativa libertà, riscoperta alla luce delle fonti biblico-patristiche, rivisitate ermeneuticamente…. Nasce così la figura di Chiesa disegnata dal concilio Vaticano II, che si è posta in linea di discontinuità con il modello di Chiesa offerto dalla cristianità... Questa figura di Chiesa, pensata come un “popolo messianico” in cammino per le strade della storia, compie la sua opera attraverso l’accettazione della povertà come stile essenziale  e necessario per la sua vita.… Sulla base di questa auto-consapevolezza, la Chiesa non ritiene più necessario che dentro una data società si realizzi la coincidenza tra cristiano e cittadino… Il problema teologico è, invece, che la Chiesa, grazie allo stile di povertà  sopradetto, sia capace di esprimere il suo essere sacramento “dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (LG 1)». Questa lunga citazione, tratta dalle conclusioni del volume (pp. 139 e ss.), pone insieme i termini per inquadrare la questione che è insieme storica e pastorale. La complessità e la frammentazione ecclesiale necessita infatti di chiavi di lettura, di una mappa concettuale: a) il mito/regime plurisecolare e la teologia del compimento (il cristianesimo destinato ad accogliere tutti i popoli sotto l’obbedienza di Cristo); b) il Regno e lo stile di povertà secondo il concilio; c) il popolo alla sequela di Cristo e la Chiesa sacramento dell’unità.

Ogni gruppo concettuale in fondo esprime in sintesi le tre parti dello scritto. La prima parte offre innanzitutto il pensiero di quattro teologi pastoralisti circa la cristianità (Liegé, Floristán, Zulehner, Midali), indirizzando la riflessione sull’ipotesi che sia la borghesia liberale il gruppo sociale promotore di un nuovo modello pastorale nella modernità (libera Chiesa in libero stato), caratterizzato da una privatizzazione della fede e da una visione funzionale della religione per il mantenimento dei valori della società. A questo si aggiunge un capitolo sulla riflessione magisteriale ed ecumenica, che esplicita ulteriormente la compresenza di due giudizi sulla cristianità. C’è la linea che intende la cristianità come rapporto stretto Chiesa-cultura in cui i valori del Vangelo informano la cultura (Giovanni Paolo II) e a quella che la intende come prassi pastorale che ha finito per mortificare la libertà dell’atto di fede e la coscienza dell’appartenenza, e quindi da superare verso un  nuovo modello di pastorale di evangelizzazione (Paolo VI e CEI).

La seconda parte del libro, analizzando le risposte degli episcopati francese e italiano, offre i nodi dell’attuale situazione laicamente pluralista. Si evidenzia lo schema interpretativo che distingue tra post-cristianità e post-cristianesimo, quello che distingue la minoranza impegnata e motivata dalla maggioranza che chiede servizi e compie gesti religiosi per abitudine (cf. cardinal C. M. Martini), quello che distingue tra pluralismo di appartenenza e appartenenze plurime. Di conseguenza c’è bisogno di «individuare solidi punti di riferimento che, senza aver la pretesa di inglobare e incasellare tutto, riescano a orientare l’azione ecclesiale» (p. 69).

 

IL PICCOLO GREGGE COME

COMUNITÀ EUCARISTICA

 

La terza parte tenta proprio una interpretazione teologico-pastorale con alcune coordinate per delineare un’adeguata comunità cristiana. Gli attuali scenari del rapporto Chiesa-società – la religione civile (salvaguardia e garanzia dei valori cristiani attraverso l’aiuto dello stato), la scelta soggettivistica e selettiva nei confronti della Chiesa (secondo logiche di consenso se non, addirittura, di mercato), la laicità (siamo in un sistema che garantisce le regole del gioco o anche che elabora un corpo di valori capace di selezionare tra forme culturali e religiose?) – evidenziano la non omogeneità tra istituzione Chiesa e istituzioni dello stato.

Secondo Torcivia, si deve passare da una minoranza subita a una minoranza scelta, “cattolica” e non elitaria perchè capace di aprirsi a tutti, evitando una parrocchia a doppio registro (buona cura degli appartenenti e mero servizio ai ricomincianti). Si badi bene, questo doppio registro si sta vivendo oggi all’insegna dell’ambiguità, dal momento che la pastorale dell’annuncio è vissuta sotto le mentite spoglie di una pastorale tradizionale e generalista. Se è vero che unica è la salvezza a cui tutti sono chiamati, così come il Vangelo e la carità sono destinati a tutti, è pur vero che i sacramenti sono per i discepoli. Il crollo del regime di cristianità rende evidente questa differenza, che va gestita facendo sì che i credenti attivi considerino una risorsa quelli inattivi.

Poiché la Chiesa non è il Regno, ma ne è il sacramento, si deve riaffermare la necessaria compagnia con tutti gli uomini insieme alla coscienza che non c’è alcun bisogno che tutti si sia cristiani. La Chiesa non deve quindi pensare di rappresentare tutto il popolo in cui è inserita: finito il tempo delle supplenze, deve rimanere fedele al compito che Dio le ha dato, con un «unico progetto pastorale rispettoso di due dati: l’autonomia dei diversi cammini della comunità cristiana e l’autonomia delle diverse libere scelte delle persone» (p. 111). Tutto ciò implica un ripensamento dell’idea comunitaria per una ecclesialità misurata sulla maggiore o minore fedeltà al Vangelo, allo stile di vita che ne deriva e ai mezzi preparati dal Signore per mantenerlo alto e visibile. Il problema di fondo consiste nell’individuare quali possibili forme d’incontro si possono realizzare tra la debolezza personale e la frammentazione culturale. Ci può aiutare una rilettura della rivelazione, non per una fede minimale bensì essenziale per superare moralismo e devozionismo, frutti appunto della cristianità.

Un nuovo volto eucaristico della comunità cristiana va delineato a partire dalla domenica (non precetto ma evento rigenerativo delle relazioni), dalla lectio divina comunitaria e trasversale a tutti i gruppi (processo destrutturante della fede per discernere ciò che lo Spirito suggerisce), dalla lectio humana (cammino formativo all’ascolto e all’accoglienza delle persone), dall’iniziazione come stile di accompagnamento materno e maturante.

Torcivia conclude la sua ricerca invitando a mettere al bando le nostalgie di mitiche unanimità, per una Chiesa creativa e responsabile nel rapportarsi con tutti, capace di esprimere le sue proposte antropologiche  e morali senza la ricerca politica di un consenso e dinamicamente inserita dentro il circolo pluralistico delle altre visioni. In questo modo si può rifiutare la logica secondo cui, per salvare pezzi consistenti di religiosità popolare o persone legate solo alla ricezione dei sacramenti, si finisce sistematicamente per smarrire l’obiettivo della prima evangelizzazione. Insomma, la mentalità “cerchiobottistica” e un po’ pavida, che vuole mettere insieme sacramentalizzazione di massa e guida dei comportamenti morali con la  moderna pastorale missionaria, non è coerente con la prassi ispirata dal concilio e incentrata su un rapporto prioritario con la Scrittura capace di relazionarsi con la cultura odierna e con le singole persone. Qui c’è la sfida di fidarsi più della Parola che della nostra capacità di essere istituzione, per riscoprire la bellezza di essere sacramento dell’unità tra gli uomini.

 

Mario Chiaro

 

1 TORCIVIA C., La Chiesa oltre la cristianità, EDB, Bologna 2005, pp. 162, € 14,50.