RUOLO E MISSIONE DEI RELIGIOSI ANZIANI

FORMAZIONE ALLA E NELLA 3a ETÀ

 

Il vero problema degli anziani è la formazione permanente e la sua qualità. Dal punto di vista dell’istituzione, occorre chiedersi quale grado di attenzione c’è nella famiglia religiosa non verso gli anziani in generale, perché abbiano buone cure e siano seguiti con amore, ma prima ancora quale formazione vi è alla terza età e nella terza età.

 

Fra le varie prospettive possibili, parlando degli anziani, quella in cui ci vogliamo metterci qui è quella della formazione permanente (FP), come criterio di lettura e d’interpretazione di questa fase singolare della vita.

Partiamo da un principio, da una verità che non è per niente scontata: anche la terza età1 è tempo di formazione vera e propria, di FP. E la vita di chi è giunto a un’età anziana per la forza della fedeltà amorosa di Dio, diventa spazio e rivelazione degli elementi e delle dimensioni più importanti della FP.

Secondo un’interpretazione moderna e pertinente per l’oggi che stiamo vivendo, la FP non consiste in corsi straordinari di aggiornamento, né in esperienze una tantum (periodi sabbatici o di formazione in determinate scadenze), e neppure si riduce a quanto si fa per garantire un ingresso graduale nell’apostolato da parte dei giovani professi e sacerdoti (quella sarebbe formazione prolungata, non permanente); FP significa imparare a lasciarsi formare dalla vita per tutta la vita. Né la FP consiste primariamente nei programmi faticosamente organizzati dalla solerte commissione e in qualche modo subiti dalla base, ma è prima di tutto azione del Padre-Dio che vuole plasmare in ciascuno di noi l’immagine e i sentimenti del Figlio suo; e dunque è grazia, è grazia costante che giunge a noi in ogni momento e attraverso ogni mediazione, in ogni stagione dell’esistenza e in qualsiasi condizione o ruolo o comunità. Anzi, se la nostra formazione è nelle mani dell’Eterno, non siamo formati solo dalla vita che scorre, ma anche dalla morte, «dalla conformazione alla morte di Cristo. Tutta l’esistenza è protesa verso questo processo, che sarà pieno nel momento della morte (o troverà lì il suo momento culminante, di maggior verità), ma che attraversa ogni giorno una tappa di questo processo»2.

Di conseguenza, non credo si possa parlare di anziani o di terza età nella VC, né di ruolo e missione degli stessi, se non si inserisce questo discorso all’interno del contesto specifico della FP. Come dire che il vero problema degli anziani è la FP e la sua qualità, ovvero è la cultura della FP presente nella VC e nell’istituto di appartenenza, è l’aver appreso a vivere secondo la logica della crescita progressiva e costante, universale e perenne. O, guardando lo stesso problema dal punto di vista dell’istituzione, il vero problema è quale attenzione vi sia nella famiglia religiosa non verso gli anziani in generale, perché abbiano buone cure e siano seguiti con amore, ma ancor prima quale formazione vi sia alla terza età e nella terza età.

È solo a questa condizione, o dopo aver accennato a questa tematica, che si può discutere di ruolo e missione degli anziani. Altrimenti, al di fuori di questa prospettiva, si finisce per ridurre gli anziani a un problema, o il problema degli anziani a un semplice dovere di carità e bontà fraterna, di cui i cosiddetti sani dovrebbero farsi carico nei confronti dei malati, come fosse un fattore esterno a chi non è ancora anziano, mentre è esattamente il contrario, il problema degli anziani è problema di tutti, perché tutti son chiamati a prepararsi a diventare anziani. Oppure c’è l’altro rischio, quello di sforzarsi di riconoscere all’anziano ancora qualche capacità, in modo che non vada proprio in depressione, quasi fosse una consolazione o contribuisse a dargli l’illusione di essere ancora un personaggio importante e non del tutto emarginato. No, noi vogliamo vedere come vivere in pienezza questa fase, perché è fase a tutti gli effetti di formazione. «L’anziano è ancora soggetto della sua propria formazione, e non può esser semplicemente accompagnato e sostenuto, o compatito e sopportato»3.

Vediamo allora come dovrebbe articolarsi questa preparazione all’anzianità, per poi cercare di cogliere l’altro aspetto: la formazione nell’età anziana, all’interno della quale potremo esplicitare più precisamente anche ruolo e missione degli anziani. Entrambi gli aspetti sono parte d’un discorso di FP.

 

FORMAZIONE

ALLA TERZA ETÀ

 

È una formazione che comincia molto presto. L’anzianità, come stato mentale, psicologico e spirituale, non s’improvvisa, e guai a chi se la trova improvvisamente davanti, magari perché ha cercato di negarla fino allora, in modi più o meno patetici (ridicoli?).

Ma che cos’è anzianità? È l’età in cui inizia un certo ritiro dall’attività ordinaria, ovvero da quella attività nella quale il soggetto ha riconosciuto fino allora l’espressione della sua propria identità, attività di solito ufficiale, ovvero non semplicemente scelta dall’individuo, ma affidata come un incarico cui è legata anche una responsabilità pubblica, in cui sono coinvolti terzi e che dà pure una certa visibilità alla persona.

Tale ritiro, di solito progressivo, è determinato dall’età, ma può esser anticipato o accelerato anche da una malattia, e comunque s’incrocia, più o meno, prima o poi, con l’inevitabile venir meno delle forze fisiche, con tutte le conseguenze dal punto di vista della perdita della propria autonomia e della dipendenza dagli altri (“quando sarai vecchio tenderai le mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi”, Gv 21,18)4.

Infine, l’età anziana tiene come naturale e sempre più esplicito punto di riferimento il momento in cui il ritiro sarà totale, e non solo dall’attività, ma dalla vita. «Tutta la FP è protesa verso questo traguardo della morte. Anzi, la vocazione cristiana, e tanto più quella religiosa, hanno il compito grave nella chiesa di far continua memoria di “quel giorno tremendo e glorioso” che è certo, anche se Dio ce ne ha nascosto il giorno e l’ora. La FP, dunque, ha il ritmo dell’attesa di questo giorno. Solo se le radici sono ben fisse in quel futuro, su quella sponda divina, la vita come le piante della visione profetica porta frutti salutari a ogni stagione» (ib).

Mi pare, dunque, che vi siano tre elementi nella definizione di anzianità:

– il ritiro dall’attività con ciò che essa eventualmente significava per il senso della propria identità;

–il progressivo deperimento dell’energie fisiche (e a volte psichiche) con conseguente bisogno degli altri;

– la prospettiva della morte come orizzonte sempre meno lontano e sempre più familiare e naturale.

È chiaro, allora, che la formazione alla terza età comporterà un’attenzione esplicita a queste tre realtà, anzi implicherà una FP che consenta al soggetto di ovviare alle conseguenze negative che potrebbero derivare da una disattenzione in tal senso5.

 

Il problema dell’identità

 

Il classico e comune problema dell’autoidentità è risolto, come sappiamo, solo quando l’individuo raggiunge la certezza della propria sostanziale e stabile positività. Le “tentazioni”, in tale campo, sono rappresentate da quei processi di autoidentificazione che potremmo definire parziali e insufficienti, e che proprio nel tempo dell’anzianità mostrano tutto il loro limite. Ci riferiamo ai primi due livelli dell’autoidentità: quello somatico e quello psichico. Anche il consacrato corre il rischio di identificarsi in uno di questi due livelli, specie perché questo argomento non è normalmente oggetto di attenzione nella formazione (iniziale e permanente). Il primo è il livello somatico, ed è costituito dal riferimento al proprio corpo. Pure il bambino riesce a identificarsi a questo livello; ma nella misura in cui questo riferimento è centrale e prevalente per il senso dell’io anche dell’adulto, costui avrà bisogno d’avere un corpo sano-bello-forte-giovanile, o quanto meno di apparire così (tale livello è detto somatico, ma è anche il livello dell’apparire), con conseguente mito del giovanilismo e rifiuto di quanto possa offuscare tutto ciò, dell’età che avanza, dei segni d’invecchiamento, dell’eventuale difetto estetico o dell’infermità fisica, soprattutto della morte…

La seconda possibilità d’autoidentificazione è quella del cosiddetto livello psichico. È il livello dell’avere, della preoccupazione d’aver sempre di più per sentirsi qualcuno, di più nel senso di doti, qualità, capacità varie…, di più in assoluto e in relazione agli altri, della pretesa di sentirsi artefici di sé e delle proprie fortune, come se ognuno fosse la fonte della propria positività (il tipo che s’è-fatto-da-sé), quasi avesse meritato l’esistenza.

Ma ne verranno, come conseguenza, alcune sonanti contraddizioni, legate a due fattori, come due interrogativi: le proprie doti son proprio la parte più importante della persona, n’esprimono integralmente la dignità? Se l’essere umano ha un radicale bisogno di avere una percezione sostanzialmente e stabilmente positiva di sé, il riferimento alle proprie doti e qualità garantisce in modo definitivo tale esigenza psicologica? E ancora: che fare quando non sarà più possibile, per vari motivi, non potersi più esprimere attraverso le proprie capacità, come nel nostro caso? E se uno non ne ha granché? Di fatto chi s’identifica a tale livello finisce per correre seri rischi: la mania dell’autorealizzazione, il bisogno estremo del risultato positivo, un certo narcisismo (più o meno disperato), la dipendenza dalla stima degli altri, l’identificazione con il ruolo, la preoccupazione della carriera o della promozione sociale, l’incapacità di accettare il proprio limite (di qualsiasi genere), la relazione come competizione (da cui invidia e gelosia), il complesso d’inferiorità ecc. Sarà allora inevitabile la crisi del religioso che s’è identificato a tale livello (il più delle volte senz’aver fatto alcuna scelta ufficiale o addirittura senza rendersene conto), quando sarà costretto a lasciare; avrà come la sensazione di non esser più nessuno, di morire, e magari farà di tutto per …non lasciare, per fermare il tempo (come se lui fosse eterno!), per impedire che altri subentrino a lui, per squalificare il suo sostituto o creargli problemi.

Formare alla terza età significa formare a una corretta autoidentificazione, quella che è possibile solo al livello ontologico, ove la propria identità, in estrema sintesi, è scoperta essenzialmente in quel che uno è e in quel che è chiamato a essere, ovvero in quel dono già ricevuto che è la vita con tutte le sue risorse (=l’io attuale) e in quel dono da realizzare che è la vocazione, il carisma del proprio istituto (=l’io ideale), rispondendo al progetto di Dio. E così si costruisce anche la stima di sé, sempre nel rapporto tra queste due realtà, anch’essa come dono già dato e da continuare a ricevere da Dio (compiendo il suo progetto e realizzando la propria somiglianza con lui). Senza farla dipendere dal proprio operare, dai successi, dalla fama, dai consensi e riconoscimenti altrui6…

La VC dovrebbe essere un segno proprio di questa identità, nascosta con Cristo in Dio, un segno del cammino che ogni essere umano dovrebbe fare per ritrovare se stesso e la propria definitiva amabilità, più forte d’ogni insuccesso, legata a qualcosa di più radicale e definitivo delle sue prestazioni, e così sicura da consentirgli di non preoccuparsi troppo della sua autorealizzazione. In tale senso dovrebbe andare la formazione, per rendere la persona libera di rinunciare a quanto potrebb’esser autopromozionale, libera di cercare prima di tutto il regno di Dio, perché è certa di ottenere “in sovrappiù” anche il resto dei beni, pure l’affermazione e la stima di sé. «Lasciare dietro di sé molte delle cose che potrebbero dare ai religiosi una certa identità, sul piano umano, è segno della dignità nascosta di coloro che sono morti in Cristo, che nella tomba vuota hanno visto come Giovanni non l’assenza del morto, ma la presenza del Risorto»7

E allora, se il consacrato ha imparato che è Dio la fonte della sua identità e la certezza e garanzia della sua positività, può anche disporsi a entrare nella stagione in cui non avrà più il riscontro positivo del suo fare, della stima e dell’applauso degli altri, dei frutti e dei risultati del suo lavoro. E godere anche in questa stagione, magari per quel che vede operare da chi lo ha sostituito.

 

Equilibrio tra autoidentità e appartenenza

 

Altro problema nella terza età è costituito dal progressivo deperimento organico, che mette la persona in condizione di dipendere dall’aiuto altrui. Dice la tradizione indù che «quattro sono le stagioni dell’uomo. C’è il tempo d’imparare e poi il tempo d’insegnare. Viene quindi il tempo di andare nel bosco (=nella quiete e solitudine del bosco) e, infine, c’è il tempo dell’essere mendicanti». Quest’ultima fase rappresenta il vertice, secondo la sapienza indiana, della vita: sarebbe il tempo in cui, cancellati l’orgoglio e il possesso, si diventa poveri, si ritorna bambini, in qualche modo, si dipende dagli altri e dalla provvidenza divina.

Ma è anche il culmine del cammino credente (“quando sarai vecchio un altro ti cingerà e ti condurrà dove tu non vuoi…”). Sappiamo molto bene come questa dipendenza in molti casi divenga oltremodo difficile e problematica. Occorre anche qui una formazione previa, una FP.

Formazione che parta da questo principio basilare: un autentico senso dell’io viene dall’apertura al tu, mentre solo una sensazione positiva dell’io può consentire un’adeguata capacità relazionale. In termini più espliciti e maggiormente pertinenti alla nostra situazione: più uno si identifica correttamente in un valore, da cui deriva un senso positivo e stabile di sé, più si sentirà anche appartenente a coloro con cui condivide quella identità; e, di rimando, più uno si sente appartenente a una famiglia religiosa e al carisma che ne è l’anima, più si sentirà confermato nella propria identità e positività.

Di qui alcune conseguenze, molto importanti, ma che qui possiamo solo accennare, per quanto riguarda l’educazione al senso dell’alterità, alla scoperta del ruolo dell’altro nella propria vita, anche nella vita spirituale ecc.

Quando non c’è questa educazione si rischia di esporre a una difficile terza età, poiché nell’ultima stagione della vita il tu diventa sempre più importante e decisiva la relazione che s’è imparato a stabilire con lui.

Più in particolare formare all’anzianità, dal punto di vista relazionale, significa educare alla funzione dell’altro entro la logica specifica della FP. Abbiamo detto che il concetto moderno di FP rimanda all’idea dell’ordinarietà e della quotidianità, e dunque anche degli strumenti normali e abituali; vogliamo dire, se la nostra FP è nelle mani di Dio, allora ogni evento può esser nelle sue mani strumento della sua azione formatrice, soprattutto ogni fratello, santo o peccatore, buono o balordo. Non esiste FP se non c’è questa educazione ad accogliere l’altro, qualsiasi altro, come il mio miglior formatore. Ma non esiste nemmeno formazione all’anzianità senza questa progressiva docibilitas relazionale, ovvero questa disponibilità intelligente a vivere il rapporto con l’altro come mediazione misteriosa e provvidenziale dell’azione educatrice di Dio.

Conseguenza di questa docibilitas è la attitudine a metter in atto in modo normale e costante quelle forme di integrazione del bene e del male che esprimono nei fatti la ricchezza e la valenza formatrice della relazione, come, ad es., la collatio, il progetto comunitario, il discernimento comunitario, oppure la revisione di vita, le varie forme di perdono ecc. Altra conseguenza di questa apertura intelligente e credente all’altro è ancora una volta il senso del legame tra identità e alterità all’interno, in particolare, della fraternità religiosa. Vivere in fraternità vuol dire accettare che sia proprio con questi fratelli e sorelle, che io non ho scelto e dai quali non sono stato scelto, che posso scoprire chi sono e chi sono chiamato a essere.

Come dice p. Radcliffe con provocante chiarezza: «mettersi nelle mani dei fratelli nella professione religiosa è accettare che la propria identità non si trovi più nelle proprie mani. La fraternità è una identità indeterminata»8, che è l’autentica identità del credente.

E forse proprio questo è anche il senso dell’obbedienza, dell’obbedienza fraterna. Per questo stesso motivo lo stesso Radcliffe afferma d’essere stato sempre contrario, ad es., alla tendenza di chiedere ai fratelli prima d’un’elezione se accetterebbero di essere superiori: «non spetta a me dire se penso di essere in grado di svolgere questo ruolo. Tocca ai miei fratelli fare il discernimento». Anzi, «l’identità indefinita del voto di obbedienza è un segno di quel cammino verso la conoscenza di sé che noi facciamo con gli estranei sulla strada del Regno. Significa che noi non conosciamo chi siamo senza il povero, l’anonimo e il silenzioso»9, poiché questa è la storia cristiana: «storia del continuo ed esigente impegno con gli estranei, abbandonando il diritto di decidere chi sono. Nessuno saprà mai chi è senza ognuno degli altri»10.

A qualcuno potrà forse sembrare che questo non sia in relazione col tema che stiamo trattando. In realtà se nella terza età è necessario accettare di dipendere dall’altro, addirittura anche in modo fisico e molto concretamente, ebbene, tutto ciò – ancora una volta – non si può improvvisare. Se noi oggi abbiamo molti anziani che vivono in modo solitario la loro anzianità, che soffrono oltremodo il fatto di dover dipendere dagli altri (a volte persino la dipendenza fisica è per loro insopportabile, il fatto d’esser toccati), è perché non c’è stata FP all’alterità nel senso che abbiamo detto.

 

Connessione tra senso della vita e della morte

 

Infine la FP all’anzianità è reale e fruttuosa quando riesce a metter in evidenza e a render familiare il collegamento esistente tra senso della vita e della morte.

Se la vita umana è dono ricevuto totalmente immeritato, che tende per natura sua a divenire bene donato, in quel rapporto tra bene ricevuto e bene donato c’è il senso della parabola che racconta la storia d’ogni creatura: la vita è il bene ricevuto, la morte è lo stesso bene donato, o la vita che s’è trasformata in vita donata ad altri. Questo è un processo naturale, non necessariamente virtuoso, perché è proprio del bene seguire questa logica, perché la consapevolezza d’aver ricevuto non può non generare spontaneamente la decisione di dare, senza sentirsi particolarmente eroi, o perché, ancora, la gratitudine fa nascere gratuità… È la scoperta che si vive e si muore per lo stesso motivo, per quel nesso che lega in modo indissolubile inizio e fine dei propri giorni sulla terra.

E se questa è la storia di tutti, chi si consacra a Dio, al Dio della vita, è chiamato a testimoniare in modo particolare questa logica perché appaia in tutta la sua forza convincente e ognuno vi riconosca la sua personale verità. Sarà allora fondamentale che la formazione in tal senso parta molto presto, e miri a radicare in profondità nella mente e nel cuore del consacrato la convinzione e la logica del dono, della vita come dono (ricevuto), del corpo come dono (ricevuto), e dunque anche come oggetto e àmbito di donazione. In sostanza un’autentica FP che vada in tale direzione  dovrebbe porre il soggetto in condizione di rinunciare al senso di proprietà della sua vita fisica, e alla libertà di porre le sue stesse risorse fisiche a servizio del proprio ideale di vita. Tale persona consacrata, come ogni consacrato, non dovrebb’esser più, in concreto, così preoccupata di sé, della propria salute, del proprio riposo, della propria giovanilità e freschezza, e magari del proprio fascino e potere d’attrazione…; anzi, (senza eccedere nel senso opposto) tutto questo dovrebb’essere disposto a rischiarlo per il Regno. Che vuol dire che vive giorno per giorno, con semplicità e costanza, il coraggio del martirio, di quel pagare di persona, rimettendoci del proprio, che è come un lento morire, ma che in realtà moltiplica le energie e rende la vita concretamente un meraviglioso dono a beneficio di molti. Ma che vuol dire anche quella intelligenza dello spirito che consente di capire quando è arrivato il momento di lasciare e quella libertà interiore che permette di lasciare effettivamente, di non legare le opere alla propria persona, di non rendersi insostituibili e indispensabili…, quella libertà che è parte di quella più generale libertà di aiutare ed essere aiutati, di stare in prima linea e nelle retrovie, di sostituire ed essere sostituiti, di lavorare e di collaborare, di esser protagonisti e di aiutare chi prenderà il proprio posto, dandogli stima e affetto, consigli e strumenti utili, di godere dei propri risultati e di saper godere anche dei risultati di chi lo ha sostituito…

La morte stessa, allora, evento negativo per eccellenza, come il logorio fisico o la vecchiaia, non capitano improvvise per questo consacrato, come un evento sinistro, temuto o subito, maledetto e rifiutato, ma come la logica conseguenza d’una esistenza vissuta fino in fondo, senza risparmi egoistici d’energie, senza timori pagani di vivere di meno, senza la pretesa irrealistica del proprio benessere11, come la scelta più libera e liberante (come l’ha vissuta Gesù)…

 

FORMAZIONE

NELLA TERZA ETÀ

 

E siamo al punto finale della nostra riflessione. Il cui oggetto d’analisi è il religioso/a ormai giunto nella fase del ritiro da una certa attività, psicologicamente remunerativa, e chiamato a concentrare sempre più la sua vita e la sua identità in Cristo e nel mistero della sua morte per la vita del mondo.

Il cammino fin qui fatto rivela ora tutta la sua importanza, poiché consente di entrare in questa fase senza avvertire eccessivamente il trauma del distacco, del lasciare, della stagione nuova che si apre dinanzi a sé. Che è a tutti gli effetti fase di formazione vera e propria.

E vale dunque ancora il principio d’oro della FP: è la vita che ci forma, attraverso gli eventi e le mediazioni quotidiane, specie quelli/e che non abbiamo scelto noi.

 

Lasciarsi formare dall’anzianità

 

Lo dice molto bene Vita consecrata: «Il ritiro progressivo dall’azione, in taluni casi la malattia e la forzata inattività, costituiscono un’esperienza che può divenire altamente formativa. Momento spesso doloroso, esso offre tuttavia alla persona consacrata anziana l’opportunità di lasciarsi plasmare dall’esperienza pasquale, configurandosi a Cristo crocifisso che compie in tutto la volontà del Padre e s’abbandona nelle sue mani fino a rendergli lo spirito»12.

Non si tratta dunque semplicemente di accettare il limite tipico di questa età, dalla più o meno forzata inattività alla sempre meno eventuale infermità, quanto di scoprire sempre più queste realtà nella loro intrinseca valenza educativo-formativa, sul piano psicopedagogico (pensiamo a come tutto ciò metta la persona dinanzi alla sua verità, dinanzi alla verità della vita e di ciò che conta davvero in essa), e sul piano spirituale (a livello della progressiva identificazione con il Figlio).

In altre parole, si tratta d’accettare fino in fondo non solo la legge inesorabile della vecchiaia che incombe e che comincia sempre più a mandare messaggi inequivocabili, ma a vivere questo passaggio il più possibile come un evento di grazia, sul piano spirituale, e come una scelta libera, su quello psicologico.

Evento di grazia e scelta libera perché la morte, ma ancor prima l’invecchiamento, il progressivo deperimento organico, la stessa eventuale infermità… non sono nella vita del discepolo semplicemente una sgradita possibilità o un’ingiustizia del destino, ma la conseguenza pressoché inevitabile d’un dono ricevuto, prima, e poi d’una precisa opzione di vita, d’una consapevole decisione di imitare il Maestro, colui che la sua vita non ha permesso che nessuno gliela portasse via, ma ha deciso lui stesso di donarla (cf. Gv 10,18).

Fondamentale dunque la lettura di questa stagione terminale della vita nella linea della docibilitas, per lasciarsi da essa formare, fino all’ultimo istante, secondo i sentimenti del Figlio. Misteriosamente ma realmente.

 

Un modo nuovo d’esser consacrati“Nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno vegeti e rigogliosi”, (Sal 92,15)

 

«Tale configurazione è un modo nuovo di vivere la consacrazione, che non è legata all’efficienza di un compito di governo o di un lavoro apostolico» (ib.).

Tale modo nuovo significa anzitutto proprio questa testimonianza, sta a dire che non solo la VC, ma la stessa missione apostolica, prima d’essere azione e servizio, offerta di sé e attenzione all’altro, consiste nella «testimonianza della propria dedizione alla volontà del Signore, che si alimenta alle fonti dell’orazione e della penitenza» (ib.), o nel metter in evidenza, senz’alcuna contrapposizione, il cuore e la radice profonda della carità apostolica. Ecco il suo ruolo e missione fondamentale.

Per questo il consacrato anziano non solo è religioso a tutti gli effetti, anche se apparentemente inoperoso, ma ha qualcosa di essenziale da dire e dare e ricordare a tutti nella comunità. Per cui ce ne dovrebbe esser almeno uno per comunità, «se questa –specifica molto saggiamente il documento post-sinodale- sa stare  loro vicino con attenzione e capacità di ascolto»! (ib.). Proprio per questo Giovanni Paolo II nel suo ultimo messaggio per la Quaresima, dedicato esattamente al tema degli anziani, così rilevava: «Come sarà diversa la comunità, a partire dalla famiglia, se cercherà di mantenersi sempre aperta e accogliente nei confronti degli anziani!... Ogni comunità accompagni con amorevole comprensione quanti invecchiano»13.

Più in concreto, «molti sono i modi in cui gli anziani sono chiamati a vivere la loro vocazione:

– la preghiera assidua, la paziente accettazione della propria condizione, la disponibilità per il servizio di direttore spirituale, di confessore, di guida nella preghiera»; e ancora,

– la testimonianza che Dio si lascia trovare da chi lo cerca con cuore sincero, che ne val la pena appartenere a lui, o quella saggezza tipica del vecchio di cui parla Guardini, come «ciò che si viene a creare quando l’assoluto e l’eterno penetrano nella coscienza contingente e finita, e da questa gettano luce sulla vita»14;

– la testimonianza particolarmente credibile della bellezza della vita terrena, del gusto della vita come impagabile dono di Dio, il Vivente, assieme all’emergere sempre più intenso e forte del desiderio dell’eternità. È caratteristica specifica del consacrato anziano vivere insieme questi due sentimenti, come espressione d’una capacità contemplativa che si va affinando sempre più in questo tempo, e che predispone a vivere l’eternità come desiderio eterno, sempre più appagato, sempre più intenso. Come diceva Giovanni Paolo II: «Nonostante le limitazioni sopraggiunte con l’età, conservo il gusto della vita. Ne ringrazio il Signore! È bello potersi spendere sino alla fine per la causa del regno di Dio. Al tempo stesso, trovo una grande pace nel pensare al momento in cui il Signore mi chiamerà: di vita in vita!»15.

– la concentrazione «su quanto è essenziale, dando importanza a quello che l’usura degli anni non distrugge»16;

– la confessione di chi può dire: «la terza età è l’età del riposo, ma non dell’inerzia. Ci sono tante cose da fare, una moltitudine di piccoli servizi da rendere, tante mani tese, tanti cuori da amare, tante sofferenze a cui si può prestare ascolto e portare consolazione, tante gioie da recare o da condividere»17;

– o un’esperienza ricca e significativa come quella dell’abbé Pierre, che può dire: «Se tornassi ad avere diciott’anni, sapendo quanto costa la privazione della tenerezza, e non sapendo altro, certamente non avrei la forza di pronunciare gioiosamente il voto di castità. Ma se sapessi che, lungo questo sentiero così aspro si incontrano le tenerezze di Dio, allora certamente pronuncerei di nuovo il mio sì con tutto il mio essere»18.

 

La stagione dell’amore puro“Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore”, (Sal 90,12)

 

E se vogliamo esser ancor più specifici e andare al cuore della questione, al cuore del ruolo e della missione del religioso anziano, allora diciamo che questo è il tempo dell’amore puro. Quando si spengono certe tensioni e s’attutiscono certi narcisismi, un po’ perché il proprio io non è più al centro della vita e dell’attenzione, un po’ perché il cuore sta sperimentando in modo nuovo e intenso altri gusti e sapori, come la bellezza della solitudine, del silenzio, della sobrietà, dell’intimità con Dio o d’una nuova intimità con il Signore della vita, lì l’animo si purifica e il cuore cerca e trova ciò che è essenziale. E s’accorge che le cose che contano son molto poche, ci stan tutte nelle dita d’una mano, o s’accorge che “la tua grazia, o Dio, vale più della vita, di questa mia vita”…

è il tempo della potatura e della spogliazione radicale: tempo dell’amore puro. Amore di chi si libera progressivamente della nostalgia per l’età trascorsa o di rimpianti per quel che avrebbe potuto essere e diventare; amore di chi è ricco di gratitudine per quanto ha ricevuto, e tempo di chi scopre che quanto ha ricevuto supera di gran lunga quanto avrebbe meritato, quanto ha chiesto o s’è vergognato di chiedere; amore, ancora, di chi si libera della pretesa di …trattenere il tempo che passa, come dell’invidia di chi è più giovane di lui o della voglia di punirlo perché prende il suo posto. Amore puro… Quest’amore ha attraversato molte stagioni, ha conosciuto molte intemperie e fors’anche molti amori, ha sperimentato la propria debolezza ma anche la sua vitalità…; ora quest’amore carico d’anni sta imparando ad amare solo ciò che unico è degno d’esser amato, e che rende puro il cuore orante-amante, cioè innamorato d’un unico amore, in una vita che ormai è diventata e sta diventando sempre più solo preghiera d’un cuore amante, o in cui la preghiera si salda sempre più con l’amore19. Come l’albero di cui parla il poeta p.Marchesini20, in una poesia dedicata a una religiosa in questa fase precisa della vita.

A n’Riba

c’è un albero che prega.

È secco, senza foglie,

coi rami nudi

puntati dritti al cielo.

Non ha più nulla,

fuorché la preghiera.

Non dà più frutti, e

nemmeno ha fronde

per donare ombra.

Neppure un po’ di scorza

gli è rimasta.

Di tutto s’è spogliato:

già non è più quell’albero

che era.

Ormai egli è soltanto

una preghiera.

 

La funzione della comunità

 

C’è un rapporto reciproco tra religioso anziano e comunità. Come un duplice scambio, di dare e avere. Tra due partners che, come in ogni autentico rapporto, hanno bisogno l’uno dell’altro, sono responsabili l’uno dell’altro.

Da un lato l’anziano ha bisogno della fraternità religiosa; dall’altro le dona parecchio con la sua vita e la sua testimonianza.

Se guardiamo il problema dal punto di vista della comunità e della sua responsabilità diremo che la comunità può e deve assumere un ruolo significativo e davvero formativo in questo delicato momento della vita, provvedendo, ad es, a mantenere il fratello anziano realmente integrato nella realtà della dinamica comunitaria, facendo appello alle sue risorse di testimonianza e di preghiera, valorizzando la sua esperienza e saggezza, e cercando di coinvolgerlo, anche in questa fase, in quelle forme di servizio, per quanto umili e discrete, piccole (almeno apparentemente) e senza pretese, di cui è ancora capace. In una vita sempre meno pianificata dall’uomo, lo Spirito può agire ancor più efficacemente; ove maggiore è l’impotenza e il conseguente abbandono dell’uomo, lì si manifesta la misteriosa potenza della grazia.

Per questo si deve far di tutto perché il consacrato resti, fin quando lo consentono le sue reali condizioni generali di salute, nella sua propria fraternità, così come ogni famiglia, nei limiti del possibile, cura i suoi anziani e se li tiene con sé.

Quasi potremmo dire che una comunità religiosa è completa solo quando comprende almeno un membro della terza età (cosa non difficile, per altro, oggi). Nell’interesse di entrambi, come ci ammonisce Giovanni Paolo II nel già citato Messaggio: «Come sarà diversa la comunità,… se cercherà di mantenersi sempre aperta e accogliente nei confronti degli anziani!...».

 

NELL’ORA

DELLA MORTE

 

Questo aiuto della comunità dovrà esser particolarmente attento e intenso mentre s’avvicina l’ora della morte, perché anche questa ora sia vissuta nella piena disponibilità alla misteriosa azione formativa del Padre.

La morte, infatti, rappresenta il più alto momento vocazionale d’una persona, la chiamata decisiva per eccellenza, quella in cui si condensano tutti i precedenti appelli e in cui è racchiusa la verità della persona. Per questo è anche il punto d’arrivo di tutto il processo formativo, non solo perché tutto l’iter educativo tende verso questo punto terminale, ma perché indica anche il momento della massima conformazione alla vita e alla morte del Figlio Gesù, il buon pastore che ha dato la vita per le sue pecore.

L’ingresso nel Regno, infatti, si fa ormai vicino e imminente per il pellegrino che ha camminato una vita verso di esso, ed è giunto al compimento definitivo e pieno nella sua carne di quel che manca alla passione di Cristo.

Ogni giorno della vita, abbiamo detto, è una tappa di questo percorso di grazia, ma «quando poi giunge il momento di unirsi all’ora suprema della passione del Signore, la persona consacrata sa che il Padre sta portando a compimento in essa quel misterioso processo di formazione iniziato un tempo. La morte sarà allora attesa e preparata come l’atto supremo d’amore e di consegna di sé»21. Ma sarà indispensabile che il consacrato anziano o gravemente infermo sia aiutato e accompagnato dalla carità e preghiera dei suoi fratelli ad andare incontro con la lampada accesa al suo Signore.

Non basta, insomma, provvedere per l’assistenza materiale, in comunità-infermerie simili a piccole cliniche dotate di tutti i comforts. È necessario esser vicini e condurre per mano questi nostri fratelli verso il dies natalis, perché sia atteso e celebrato con gioia. Certo, con gioia. Racconta un “grande vecchio” come p. Jean Leclercq, nella sua autobiografia, che stava preparando, ormai 81enne, una conferenza per un convegno dal titolo: Monaci e monache di fronte alla morte, e d’aver titolato il suo intervento: Morire, e sorridere, «formula più che ambigua – commenta lui stesso- poiché suggerisce non un’alternativa ma una triplice possibilità, a seconda che il sorridere sia prima, durante o dopo il morire». E continua: «Una volta mi ero trovato in un monastero in cui si pregava per una badessa ormai agli estremi. Un giorno fu esposto un annuncio in comunità che diceva: “Ci si deve attendere il peggio…!”. Il peggio, sembrava dire, sarebbe stato che ella andasse in cielo. Senza dubbio non si deve scherzare sulla morte degli altri, né su quella a cui forse si andrà incontro quando l’organismo si difenderà in un ultimo combattimento. È quando si è ancora, se non in buona salute, almeno in piena lucidità che si accetta il proprio ritorno a Dio»22, come momento di nascita e di gioia!

C’è chi dice che, strano a dirsi, mentre a volte non c’è nulla da dire dal punto di vista delle cure materiali verso i nostri fratelli malati, sembra invece che non vi sia almeno altrettanta attenzione all’aspetto spirituale, come vi fosse un certo pudore tra di noi, che c’impedisce di condividere il cammino spirituale nella sua ultima tappa, nella serenità della fede, che ci consenta di sorridere prima, durante e dopo il morire! Che ci consenta di sperimentare “la gioia di morire”, come ancora la chiama p. Leclercq: «gioia della novità, di un’esperienza non ancora fatta e infinitamente sorprendente, gioia di penetrare in Dio con una eterna curiosità» (ib.); o, come dice Maggiolini, che ci consenta di sperimentare la morte come «l’atto supremo di una libertà che si affonda nel mistero del Dio amore: un amarsi e un confondersi con Cristo, distinti quanto basta per amarsi».

L’assistenza materiale e spirituale a chi è seriamente malato, con tutte le attenzioni necessarie, dunque, è uno dei compiti più delicati e che maggiormente esprimono il legame di fraternità d’una comunità di consacrati. Anzi, è mediazione preziosa nel processo di FP in questa fase, perché nessuno, in questo momento decisivo e difficile, si senta solo e possa invece dare con tutto se stesso sostenuto da tutti i suoi fratelli la propria risposta generosa alla chiamata finale:

«Amen. Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20)23.

 

Amedeo Cencini

 

1 Veramente oggi c’è chi parla di “quarta età”, essendosi spostato in avanti il limite dell’età media.

2 A.Cencini, Il respiro della vita. La grazia della formazione permanente, Cinisello B. 2003, p.237.

3 Ibidem.

4 Non ricordo ove ho letto questa sorta di definizione-descrizione della terza età: entra nella terza età colui che, giovane o adulto, è costretto ad accettare che altre mani, amiche o estranee, tocchino regolarmente il suo corpo per aiutarlo a vivere. Definizione parziale, ma che sottolinea comunque un aspetto rilevante, al di là del dato puramente cronologico.

5 Per una trattazione sistematica della terza età, dal punto di vista psicologico e in riferimento alla situazione del consacrato, cf A.Cencini, Nell’amore. Libertà e maturità affettiva nel celibato consacrato, Bologna 1998, pp.237-271.

6 Ho parlato diffusamente del problema dell’identità nel consacrato in A.Cencini, Amerai il Signore Dio tuo. Psicologia dell’incontro con Dio, Bologna 2002, pp.13-37.

7 T.Radcliffe, Lasciare tracce, in “Testimoni” 3(1997)9.

8 T.Radcliffe, Forti nella debolezza, in “Testimoni”, 20(2004), 28.

9 Ibidem. Simpatico e ricco di senso quanto si racconta di H.Camara, il quale, quando sentiva che la polizia aveva preso e messo in galera un pover’uomo, telefonava ai poliziotti per dir loro: “Ho sentito che avete arrestato mio fratello”, e i poliziotti, chiedendo scusa: “Eccellenza, che sbaglio! Non sapevamo che fosse suo fratello. Sarà subito rilasciato!”. E quando l’arcivescovo si recava alla stazione di polizia per prendere l’uomo, trovava i poliziotti un po’ sorpresi e disorientati: “Ma, Eccellenza, quello là non ha il suo stesso cognome”. E Camara rispondeva allora che ogni persona era suo fratello e sorella, anche i poliziotti…

10 R.Williams (arcivescovo anglicano di Canterbury), cit. da Radcliffe, Forti, 29.

11 Cf A.Cencini, Amerai il Signore Dio tuo. Psicologia dell’incontro con Dio, Bologna 2002, pp.34-36.

12 Vita consecrata, 70.

13 Giovanni Paolo II, “Lui è la tua vita e la tua longevità” (Dt 30,20), Messaggio per la Quaresima 2005, 3.

14 R.Guardini, Le età della vita, Milano 1992, p.79.

15 Giovanni Paolo II, Lettera agli anziani.

16 Giovanni Paolo II, Messaggio, 3.

17 Cit. da L.Paulussen, Adattamento apostolico-pastorale della terza età, Roma 1979, p.54.

18 Abbé Pierre, Testamento, Casale M. 1994, p.62.

19 Sull’esperienza e l’evoluzione dell’amore vergine cf Cencini, Nell’amore, pp.244-248.

20 P.Aldo Marchesini è religioso e sacerdote dehoniano, medico-chirurgo in Mozambico da circa vent’anni. Immerso in un’attività spesso frenetica, riesce a vivere la dedizione concreta di sé nell’apostolato nel mondo della sofferenza con animo profondamente contemplativo. Espressione felice di questa sintesi è la sua finissima sensibilità poetica.

21 Vita consecrata, 70.

22 J.Leclercq, Di grazia in grazia. Memorie, Milano 1993, pp.183-184.

23 Cf Cencini, Il respiro, 243-245.