QUARANT’ANNI DEL CONCILIO VATICANO II

UNA DOMANDA: LO CONOSCIAMO?

 

Celebrare i quarant’anni del concilio significa ringraziare Dio per il dono che ci ha fatto di un orientamento chiaro e autorevole per il cammino della Chiesa nel mondo. Non è una realtà del passato: la sua luce continua a brillare e noi dobbiamo accoglierla, ritornando con passione e pazienza alle indicazioni che ci offre.

 

Sono passati quarant’anni da quell’8 dicembre 1965, festa dell’Immacolata concezione di Maria ss.ma, quando Paolo VI concelebrò l’eucaristia conclusiva del concilio Vaticano II sul sagrato della basilica di San Pietro. Quello straordinario evento ecclesiale era stato aperto il giorno 11 ottobre 1962, festa della divina Maternità di Maria, da papa Giovanni XXIII con un memorabile discorso. Per quattro sessioni conciliari la Chiesa, ma anche il mondo, aveva seguito con interesse i lavori dell’aula conciliare, affollata da oltre 2.000 vescovi provenienti da tutto il mondo, che si erano svolti in un clima di libertà assolutamente nuovo e, solo alcuni anni prima, inimmaginabile. Paolo VI, insieme ai padri conciliari e agli osservatori ecumenici, quel giorno presentò il lavoro fatto e lo inviò idealmente al mondo intero, accompagnandolo con dei messaggi per le varie categorie dell’umanità. Quella del concilio era una visione carica di speranza e di ottimismo: la Chiesa si rivolgeva al mondo con grande simpatia mettendo a sua disposizione il suo bagaglio di sapienza e di carità. 

In questi quarant’anni molta acqua è passata sotto i ponti, ma il concilio è ancora attuale, anzi in buona parte ancora da attuare. Questo anniversario è pertanto una data da celebrare, perché il concilio è stato davvero per la Chiesa quella nuova pentecoste che papa Roncalli aveva pronosticato e per la quale aveva pregato e fatto pregare. Giovanni XXIII, che, ispirato da Dio, aveva voluto il concilio, non era riuscito a vederne che la prima tappa con le prime tensioni e le molte speranze che ne avrebbero accompagnato tutto il tragitto. Era toccato a Paolo VI prenderne in mano il timone e condurlo pazientemente in porto attraverso le tempeste e le stanche che ne hanno caratterizzato la celebrazione.

I documenti conciliari, frutto del lavoro di tre anni di lavoro, sono sedici: quattro le costituzioni dogmatiche che sono come i quattro pilastri del concilio, e dodici i decreti applicativi. Mons. Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, uno dei pochi superstiti di quella stagione conciliare, chiama il Corpus Vaticanum la traccia per la «nuova evangelizzazione del terzo millennio». Lo fa in un agile libretto nel quale, oltre a presentare le quattro costituzioni dogmatiche (Dei verbum, Lumen gentium, Sacrosanctum concilium e Gaudium et spes) delineandone il volto essenziale, aggiunge una conclusione in cui mostra le applicazioni ovvie e meno ovvie che possono venire da ogni documento; ne mostra poi la permanente validità e quegli aspetti che non sono stati ancora completamente messi in luce.

 

TRACCIATE LE LINEE PER LA

NUOVA EVANGELIZZAZIONE

 

Il concilio non si è proposto di aggiungere nuovi dogmi da inserire nella raccolta del Denzinger. Non è stato neppure un concilio di difesa contro correnti eretiche o scismatiche, come frequentemente è successo nella storia della Chiesa. Ha invece affrontato il mondo d’oggi in modo diverso, nuovo, appunto. Ha mostrato il vero volto della Chiesa, sacramento universale di salvezza, madre che va alla ricerca dei propri figli. Lo ha fatto mostrando le certezze fondamentali, gli strumenti e le piste su cui essa va incontro al mondo d’oggi: la Parola, la sacra liturgia, la comunità ecclesiale, la speranza cristiana.

La novità del Vaticano II, dice Bettazzi, consiste nel «rivolgersi direttamente alle persone con la loro mentalità e sensibilità valutando in primo luogo la sincerità e la generosità della loro adesione, anche se – almeno all’inizio – potrà non essere così determinata nella conoscenza delle verità, non pienamente a posto in tutte le sfumature della liturgia, talora contestatrice di certe forme di esercizio dell’autorità gerarchica. Qualche volta potrà addirittura sembrare preferire strutture o iniziative laiche, in cui riconosce l’ispirazione evangelica più che in certe strutture e iniziative di carattere confessionale».1 Su questa strada cammina la «nuova evangelizzazione».

Benedetto XVI, che pure è un testimone del concilio, anche se vi ha partecipato solo come esperto (e quale esperto!), nei suoi incontri all’Angelus domenicale, ha iniziato a presentare i documenti conciliari esortando calorosamente tutti a cercare di conoscere e leggere i documenti del concilio: «Nella fase finale di quello storico evento ecclesiale… venne approvata la maggior parte dei documenti conciliari. Alcuni di essi sono più noti e vengono spesso citati; altri lo sono di meno, ma tutti meritano di essere richiamati, perché conservano il loro valore e rivelano un’attualità che, per certi aspetti, è addirittura aumentata» (Angelus del 30 ottobre 2005). E noi possiamo dire di conoscerli?

Quelli di noi che hanno potuto seguire lo svolgimento del concilio, hanno accolto con gioia i testi conciliari a mano a mano che essi venivano approvati e promulgati. Li abbiamo subito letti, ma forse non siamo riusciti a coglierne, allora, tutta la ricchezza, perché erano molto nuovi e soprattutto perché non abbiamo avuto il tempo per assimilarli. Infatti nuovi e clamorosi avvenimenti, ecclesiali e secolari, hanno seguito immediatamente quella celebrazione. Ed erano tanti e tanti che si sono accavallati in fretta l’un sull’altro oscurando l’evento conciliare e impedendogli di avere su noi l’impatto che avrebbe meritato.

A mo’ d’esempio e senza pretesa di essere esaustivi, si pensi al fenomeno del sessantotto, alla contestazione studentesca e giovanile contro l’autorità o l’autoritarismo, alla contestazione per la guerra in Vietnam, alle discussioni e alle divisioni all’interno della Chiesa a proposito del celibato, della vita religiosa e dei problemi di morale coniugale (Humanæ vitæ), alle dolorose defezioni nelle fila del clero e dei religiosi/e troppo in fretta attribuite al concilio. Veramente troppe cose hanno congiurato a impedire una ricezione tranquilla e meditata dei documenti conciliari.

 

QUELLI CHE IL CONCILIO

NON L’HANNO MAI “DIGERITO”

 

Non si deve dimenticare che un certo numero di fedeli, soprattutto ecclesiastici, e anche di alto rango, non avevano mai accettato il concilio e le sue istanze di rinnovamento della Chiesa e nient’altro attendevano che di veder cadere nell’oblio l’evento conciliare e le sue scelte pastorali. Essi avevano buon gioco nell’esagerare le responsabilità del concilio in riferimento a certi comportamenti e scelte che venivano con esso collegate. In realtà non sono mancate interpretazioni unilaterali dell’ecclesiologia conciliare con il risultato di compromettere una serena comprensione di importanti novità, come quella della «Chiesa popolo di Dio», sospettato di essere il «cavallo di Troia» per democratizzare la Chiesa. Altrettanto facile era accusare la Gaudium et spes di essere, nel suo ottimismo, all’origine di una secolarizzazione che spesso era finita nel secolarismo e di essere, per altro verso, la matrice delle ambiguità della teologia della liberazione. Così si accusavano di devianza i temi della libertà religiosa, del valore delle religioni non cristiane, che avrebbero bloccato il dinamismo missionario della Chiesa, come certi abusi nell’applicazione della riforma liturgica avevano fatto gridare troppo in fretta alla scandalo di una liturgia che non era più cattolica ma protestante! Senza alcun rispetto per la verità e per le persone si addossava al concilio la responsabilità per il calo delle vocazioni attribuendola a un’esagerata rivalutazione del matrimonio cristiano. E tante altre cose.

Oggi, a mente fredda, possiamo affermare che queste accuse e queste generalizzazioni non sono vere. È vero che di sbagli se ne sono fatti, e tanti, ma non è il caso di citare il principio post hoc ergo propter hoc per criminalizzare il concilio e chi l’aveva voluto e sostenuto, per il coincidere dell’evento-concilio con fenomeni che comunque sarebbero scoppiati anche se non ci fosse stato. La fine degli anni sessanta, infatti, rappresenta un tornante nella storia contemporanea, con lo scoppio della secolarizzazione e il declino della modernità giunta ormai a esaurimento.

Coloro che non avevano mai digerito neppure l’idea di un concilio di rinnovamento, e pertanto di cambiamento, avevano tenuto, per così dire, aperto l’ombrello durante tutti quegli anni per ripararsi dalle richieste conciliari, addebitavano al concilio la responsabilità di essere la  causa del disorientamento post-conciliare e attendevano solo il sinodo straordinario dei vescovi del 1985, indetto da Giovanni Paolo II per celebrare i vent’anni dalla conclusione del concilio, per poter archiviarne la fase applicativa e riprendere il «normale» ritmo della Chiesa. Due anni prima era stato promulgato il nuovo Codice di diritto canonico, dichiarato l’ultimo documento conciliare, era statati condannati certi aspetti della teologia della liberazione, i teologi più critici erano stati messi in silenzio e invitati a non cercare continuamente l’innovazione, era quindi ora di chiudere la parentesi conciliare per riprendere la vita normale e ordinaria della Chiesa.

 

È ORA DI RILEGGERE

E MEDITARE IL CONCILIO

 

Celebrare i quarant’anni dalla conclusione del concilio Vaticano II significa ringraziare Dio per il dono che ci ha fatto di un orientamento chiaro e autorevole per il cammino della Chiesa nel mondo. E il modo migliore di render grazie è di cercare di continuare nella scoperta e nell’applicazione della ricchezza che ci ha offerto. Non è una realtà del passato, è ancora attuale e non viene meno con il passare del tempo. In questo senso è interessante leggere la seconda proposizione del recente sinodo sull’Eucaristia: «L’assemblea sinodale ha ricordato con gratitudine il benefico influsso che la riforma liturgica attuata a partire dal concilio Vaticano II ha avuto per la vita della Chiesa. Essa ha messo in evidenza la bellezza dell’azione eucaristica che splende nel rito liturgico. Abusi si sono verificati nel passato, non mancano neppure oggi anche se sono alquanto diminuiti. Tuttavia simili episodi non possono oscurare la bontà e la validità della riforma, che contiene ancora ricchezze non pienamente esplorate».

La luce del Vaticano II continua a brillare e noi dobbiamo accoglierla, ritornando con passione e pazienza alle indicazioni che ci offre. Per esempio, Lumen gentium, la costituzione dogmatica sulla Chiesa non è un lavoro perfetto, perché è frutto di compromessi, ma ha in sé ancora tante potenzialità inesplorate che vanno rimesse in valore. In uno dei suoi ultimi scritti, don Pino Colombo, il teologo di Milano, si augurava che venisse ricuperata la categoria di «chiesa-popolo di Dio» sostituita con quella di «chiesa-comunione»  (v. il testo in Il Regno attualità, 12/2005, pp. 419-425). Anche la collegialità episcopale attende ancora di essere approfondita, insieme con la teologia della chiesa locale, il ruolo del prete, dei religiosi/e e dei laici nella Chiesa.

La missione ad gentes e la pastorale in generale, che oggi cerca di rinnovarsi missionariamente, anche qui da noi, non potrà non prendere di nuovo in mano il decreto Ad gentes che è diventato il manuale della pastorale per elaborare quella «nuova evangelizzazione» di cui tutti parlano, spesso senza sapere quali sono le coordinate. In un tempo, come il nostro, in cui le religioni non cristiane sono venute prepotentemente alla ribalta non solo della Chiesa ma anche del mondo, il tema del dialogo interreligioso e interculturale, pur nuovo e appena abbozzato dal concilio, trova in Nostra ætate le coordinate per ogni forma di dialogo e di incontro. E che dire dalla libertà religiosa? oppure dei laici? È vero che nel corso di questi decenni i vari temi conciliari sono stati ripresi e attualizzati nelle esortazioni apostoliche postsinodali, ma ritornare alle fonti è sempre stato il cammino dell’autentico rinnovamento.

Un’attenzione particolare meriterà oggi la costituzione dogmatica Dei verbum sulla rivelazione, che tra i documenti conciliari è il meno citato, perché è il meno conosciuto, anche se la sua importanza è straordinaria e fondamentale da tutti i punti di vista, teologico, spirituale ed ecumenico. Benedetto XVI all’Angelus del 6 novembre 2005 ha detto che la Dei verbum «costituisce una delle colonne portanti dell’intero edificio conciliare, (perché) tratta della Rivelazione e della sua trasmissione». E aggiungeva: «la Chiesa non vive di se stessa, ma del Vangelo e dal Vangelo sempre trae orientamento per il suo cammino. La costituzione conciliare Dei verbum ha impresso un forte impulso alla valorizzazione della parola di Dio, da cui è derivato un profondo rinnovamento della vita della comunità ecclesiale, soprattutto nella predicazione, nella catechesi, nella teologia, nella spiritualità e nelle relazioni ecumeniche. È infatti la parola di Dio che, per l’azione dello Spirito Santo, guida i credenti verso la pienezza della verità (cf. Gv 16,13). Tra i molteplici frutti di questa primavera biblica mi piace menzionare la diffusione dell’antica pratica della lectio divina o lettura spirituale della Sacra Scrittura. Essa consiste nel rimanere a lungo sopra un testo biblico, leggendolo e rileggendolo, quasi “ruminandolo” come dicono i Padri, e spremendone, per così dire, tutto il “succo”, perché nutra la meditazione e la contemplazione e giunga a irrigare come linfa la vita concreta».

La celebrazione del quarantesimo dalla conclusione del concilio dovrebbe quindi essere per tutti i cristiani, e in modo particolare per tutti i religiosi, l’occasione per verificare la nostra (poca) conoscenza dei documenti conciliari, per riprenderli finalmente in mano e rileggerli. Potremo così gustare di nuovo quella stagione di straordinaria vivacità e vitalità che è stato il Vaticano II, per riviverla, se essa è stata consegnata alla nostra memoria, o per gustarla, se non l’abbiamo vissuta personalmente. La nostra vita cristiana non potrà che esserne arricchita.

 

Gabriele Ferrari s.x.

 

 

1 Luigi Bettazzi, Il Concilio Vaticano II, Pentecoste del nostro tempo, Brescia 2002, p. 68.