45a ASSEMBLEA GENERALE DELLA CISM

IL PROVINCIALE E IL SUO CONSIGLIO

 

Risultati di un’indagine Cism sul superiore provinciale e il suo consiglio. Una leadership con età media tendenzialmente alta. Il potere del provinciale è sempre “personale”. Possibili “eccessi” sia  da parte del provinciale  che del suo consiglio.  Il conflitto come opportunità. Il consiglio  come luogo e spazio in cui pensare, discernere e programmare prima ancora che agire.

 

«Forse, nella nostra riflessione, ha detto don Mario Aldegani nella relazione conclusiva della 45ma assemblea generale della Cism, sono state più numerose le domande che non le risposte». Non è la prima volta, per la verità, che, in assemblee del genere, le domande sopravanzano di gran lunga le risposte. E non è detto che sia un fatto negativo. Tutt’altro. Questa volta, domande e risposte vertevano tutte su un tema sempre più spesso al centro dei tiri incrociati dei membri di un istituto religioso: il servizio di comunione e di corresponsabilità del superiore maggiore e del suo consiglio.

A detta del segretario generale Cism, p. Fidenzio Volpi, a Monopoli, dove dal 7 all’11 novembre si è svolta l’assemblea, si è raggiunto il più alto numero di partecipanti (160). Se qualcuno aveva dato la sua adesione nella speranza di vedere da vicino i trulli di Alberobello o le grotte di Castellana o le cattedrali pugliesi (come si era permesso, per altro, di consigliare il vescovo di Conversano-Monopoli, mons. Domenico Padovano), ha dovuto, purtroppo, rinviare ad altra data queste “mire”.

Certamente la prospettiva di partecipare in diretta all’elezione del nuovo presidente Cism per il prossimo quadriennio ha forse richiamato qualche provinciale in più. Proprio nel corso della penultima giornata di lavori, infatti, don Alberto Lorenzelli, salesiano, è stato eletto nuovo presidente Cism in sostituzione di don Mario Aldegani, giuseppino del Murialdo.

 

IDENTIKIT

DEL CONSIGLIO

 

L’incontro di Monopoli era stato preparato da un’indagine Cism sul superiore maggiore e il suo consiglio. Il questionario era stato inviato a tutti i 206 provinciali di istituti non monastici. Hanno risposto 106 destinatari, consentendo, a detta del curatori dell’indagine (fr. Giovanni  Dal Piaz e p. Pier Luigi Nava) «un’attendibile documentazione sulle linee di tendenza». Un primo dato indicativo – in netto contrasto, per altro, con quanto è stato poi auspicato dai relatori in assembea – è quello di una fondamentale assenza di conflittualità e di tensioni all’interno dei consigli: «il 75% degli interpellati non si è mai trovato nella condizione che il consiglio abbia espresso un orientamento contrario o profondamente diverso da quello del provinciali». Nei 23 casi in cui sono stati evidenziati segni di tensione o di contrasto, solo due volte il  provinciale ha deciso differentemente dal consiglio, mentre in tutti gli altri o è prevalso il criterio della maggioranza oppure si è cercato di temporeggiare, in attesa di maturare un orientamento più unitario.

Dal questionario è stato possibile enucleare anche l’identikit sia del provinciale che del consigliere. Il profilo “tipico” del provinciale è quello di un sessantenne, entrato nell’istituto a 14 anni circa (con alle spalle, quindi, un itinerario formativo iniziato nelle classiche “scuole apostoliche”), e che ha già svolto un servizio di governo come provinciale, consigliere o superiore di comunità. Il consigliere, invece, è mediamente un cinquantenne, già superiore locale, o consigliere provinciale, o responsabile di formazione.

Quali le doti richieste a un consigliere? Che sia “affiatato” e sappia “fare squadra” con il provinciale e gli altri consiglieri. Più che specifiche competenze, al consigliere si chiede soprattutto una diretta esperienza dei vari settori nei quali si articola la realtà provinciale, in modo da garantire, in particolare, la presenza in consiglio delle principali sensibilità spirituali della provincia.

Tra gli argomenti discussi in consiglio, paradossalmente, data la generalizzata mancanza di vocazioni, al primo posto troviamo il tema della formazione iniziale, prima anche della formazione permanente. Ma i temi che di fatto prendono poi il sopravvento, un po’ ovunque, sono quelli, rispettivamente, di carattere economico, comunitario, personale. «Mentre gli aspetti operativi, della vita provinciale emergono come tematiche ricorrenti, la dimensione spirituale e carismatica appare meno rilevante».

A livello di ipotesi interpretative sulla situazione odierna della vita consacrata in Italia, è anzitutto possibile osservare un limitato ricambio delle persone con responsabilità di governo. È molto bassa la percentuale di provinciali entrati in istituto come vocazioni adulte. Dal punto di vista poi dell’età, la leadership è tendenzialmente anziana sia a livello di consiglio che di provinciali. Se questa prassi «può essere dettata dalla prudenza e dalla convinzione che solo l’esperienza può assicurare un’adeguata capacità di governare le persone con equilibrio e saggezza», è altrettanto certo, però, che «avere una leadership con età media tendenzialmente elevata vuol dire avere una minore dinamicità nella comprensione della realtà».

 

LE PERSONE

PRIMA DEL RUOLO

 

Sull’input di questa sintesi si sono poi sviluppati tutti i lavori assembleari, caratterizzati per la prima volta da una metodologia ereditata per contagio dal congresso internazionale sulla vita consacrata dello scorso novembre. Anche nel salone dell’hotel villaggio Porto Giardino di Monopoli, come in quello dell’Ergife di Roma, le prime reazioni, i primi commenti a caldo alle relazioni di don Mario Aldegani, di p. Agostino Gardin e di don Giuseppe Tacconi avvenivano attorno ai tavoli di lavoro in cui erano stati preventivamente suddivisi i partecipanti.

Nel corso dei lavori è stata più volte evocata la normativa giuridica sul potere “personale” del superiore provinciale, ribadendo, nello stesso tempo, come il suo consiglio sia un organismo soprattutto di consultazione e di partecipazione, non di governo e senza alcuna personalità giuridica, un organismo non propriamente collegiale, anche se in qualche caso viene considerato tale dal diritto e viene assimilato ad esso.

Ma al di là della normativa giuridica, troppo spesso, però, ignorata nella prassi di tanti consigli provinciali, don Aldegani ha accennato ad altri aspetti non meno importanti. Quanto sarebbe utile, ad esempio, che un consiglio si considerasse una “comunità” e tentasse di viverne le dimensioni fondamentali, sia per rispondere alle esigenze spirituali ed esistenziali degli stessi componenti (del superiore maggiore in primis), sia per trasmettere un esempio di relazionalità positiva ed evangelicamente caratterizzata ai fratelli della provincia.

Attraverso una intelligente applicazione del principio di sussidiarietà, un obiettivo del superiore maggiore e del suo consiglio dovrebbe essere quello di rendersi…inutile. Il vero protagonismo, infatti, non dovrebbe essere quello del provinciale e del suo consiglio, ma quello delle comunità e delle realtà locali. Solo quando il governo è inteso come elaborazione di senso e progettazione del futuro, è allora possibile guidare il cambiamento, offrendo ai confratelli un orientamento e una direzione, risvegliando quelle realtà locali che rischiano di restare appiattite sul presente o assopite nel passato, incapaci soprattutto di cogliere i segni del cambiamento. «Un’azione di governo che non sia capace di introdurre discontinuità all’interno del sistema, di non perturbare la situazione esistente è un’azione volta più alla conferma degli assetti in atto che al sostegno dell’evoluzione».

Un consiglio del provinciale o per il provinciale? È un bizantinismo facilmente superabile quando il consiglio è pensato come un gruppo di lavoro fondato su relazioni di persone prima che di ruolo, capace di offrire anche ai consigli a livello locale un modello di corresponsabilità e partecipazione.

Uno dei pochi autori che già in passato aveva tematizzato il problema del rapporto tra superiore maggiore e suo consiglio è p. Agostino Gardin[1]. Prima di segnalare alcune tendenze che si colgono oggi nel rapporto tra superiore e consiglio, ha accennato ai possibili eccessi nell’esercizio delle proprie competenze, sia da una parte che dall’altra. Premesso anche da parte sua che l’autorità del superiore è sempre personale e non collegiale, uno di tali eccessi, da parte del consiglio, potrebbe essere quello di «considerarsi autorità della e nella provincia, in qualche modo anche sopra il superiore maggiore». Queste invasioni di campo si verificano spesso sia per una mancata chiarezza di posizioni fin dall’inizio del mandato, sia, a volte, anche per la necessità di supplire alle carenze di un superiore latitante, inadempiente, troppo indeciso.

Ma può peccare di eccesso anche il superiore maggiore. Questo avviene tutte le volte che viene tolto spazio al compito proprio del consiglio o quando lo rende di fatto inutile, considerandolo, anzi, un ostacolo o una palla al piede. Costringere rigidamente il consiglio dentro i tempi all’ordine del giorno o non prenderne sul serio il parere, come può essere tentato di fare, in un atteggiamento cameratesco, il superiore bonaccione, accontentandosi di un generico “volemose bene”, sono tutte indebite limitazioni del consiglio. Un mieloso spiritualismo comunionale in cui ogni divergenza viene vista come una rottura della comunione, non è accettabile. «I consigli dai pareri sempre uniformi probabilmente non sono quelli che aiutano di più il superiore; anzi, una certa dialettica consiliare può essere un segno di buona salute».

Evidenziando alcune tendenze da non sottovalutare in ogni discorso sul superiore maggiore e il suo consiglio, Gardin osserva che il ruolo del superiore maggiore oggi va ben al di là del dovere di prendere decisioni più o meno formali. Oggi, infatti, si è passati da un ruolo incentrato prevalentemente sul comandare ad un ruolo incentrato piuttosto sull’animare. «Tutti sanno che non è per nulla facile essere autorità spirituale o leader spirituale per i propri confratelli. E questo tanto più, quanto più la richiesta da parte della base di leadership spirituale è flebile, quando non inesistente».

Proprio per la complessità delle situazioni, si parla con sempre maggior frequenza di discernimento e di progetto. Oggi non è più consentita l’improvvisazione o la navigazione a vista. Ora sanno tutti che discernere e progettare esigono capacità di ascolto, di condivisione delle opinioni, di ponderazione delle situazioni e dei problemi, di elaborazione di ipotesi di lavoro, di verifiche schiette e non frettolose.

Non si può, infine, non prendere atto del fatto che «la figura dell’autorità nella vita religiosa si presenta oggi più fragile rispetto al passato recente», più fragile istituzionalmente, anche a prescindere dalla robustezza morale e psicologica della persona che la incarna. «Se fino a qualche decennio fa il ruolo di autorità conferiva di per sé una certa autorevolezza al superiore, oggi egli deve in buona misura guadagnarsi tale autorevolezza». Oltretutto, la sua fragilità è meno occultabile da un ruolo ormai non più paludato come un tempo. «Si ha l’impressione, ha detto Gardin citando J. Rovira, che in altri tempi i superiori fossero più sicuri. Talvolta non sempre sapevano di non sapere, e soprattutto non lo sapevano i sudditi, i quali vedevano in loro un qualcosa di praticamente infallibile. Oggi, invece, la debolezza dei superiori proviene spesso dal fatto che loro sanno che i sudditi sanno che loro non sanno…».

 

NUOVI SPAZI

DI PENSABILITÀ

 

Ma forse la fatica maggiore di un consiglio provinciale, ha detto don Giuseppe Tacconi, è quella di ricreare e ritrovare al suo interno un luogo di pensiero, uno spazio in cui sia possibile ripensare i modi e i nodi costanti, anche quelli più problematici, della vita consacrata di oggi. Detto in altre parole, anche a livello di leadership ci sono persone troppo rassegnate, incapaci e psicologicamente impossibilitate anche solo a pensare situazioni diverse da quelle che si sono sempre vissute.

Il relatore era forse il religioso più giovane in quel momento in assemblea, trasformata per l’occasione in un laboratorio vero e proprio. Proponendo i lavori di gruppo prima ancora della sua relazione, ha potuto poi sintonizzarla sulle domande aperte emerse dai gruppi stessi. È stato quasi un gioco per lui rilevare uno scontato radicamento nelle proprie convinzioni da parte dei presenti e invitarli conseguentemente ad allargare gli spazi di pensabilità in seno ai propri consigli provinciali. Se tanti cambiamenti non sembra possibile realizzarli, prima ancora che dalle mancate condizioni per farlo, questo dipende spesso dal fatto che neanche li pensiamo possibili.

Uno dei nodi più problematici è quello della soggettività. Da sempre ci siamo fatti un’idea negativa di soggettività, come un qualcosa di potenzialmente pericoloso, che “rema contro” il bene dell’istituto. Proprio per questo, ha detto don Tacconi, è importante recuperare spazi di soggettività. Siamo proprio sicuri che esista un conflitto insanabile tra la soggettività del singolo e l’insieme della comunità? E se fosse vero il contrario? Non potrebbe essere vero, cioè, che sono certe soggettività consistenti a rendere forti e consistenti le comunità?

Che idea abbiamo, inoltre, del potere? Non lo valutiamo sistematicamente in modo negativo, spesso non rinunciando minimamente, però, a esercitarlo nei confronti di altri? Se si pensasse al potere più come verbo che non come sostantivo, sarebbe forse più facile vedere il potere come capacità di potenziare gli altri, di porre gli altri nella condizione di esprimere il meglio di sé, di potersi coinvolgere fino in fondo in quello che fanno. Anche qui, è determinante sapersi pensare diversamente, senza rinchiudersi in una “monopensabilità” di ciò che facciamo e più ancora di ciò che siamo. Che idea abbiamo, ad esempio, del conflitto? Diversamente da quanto non si pensi, riusciamo a vederlo come un elemento di vitalità all’interno anche di un consiglio provinciale? Un gruppo privo di conflitti, infatti, è un gruppo povero, mentre un gruppo che vive al suo interno dei conflitti, è potenzialmente ricco e generativo. Don Tacconi, tentando di rispondere alle domande suscitate dai gruppi di studio, li ha a sua volta investiti di nuovi interrogativi.

Nel corso di questa assemblea, ha detto don Aldegani nella relazione conclusiva, «abbiamo imparato l’importanza di sostare sui problemi, soffermandoci sugli interrogativi e sugli impliciti che ci sono in essi. Abbiamo sottolineato l’importanza di regalare pensiero ai processi, aprendo delle “finestre metariflessive” nel lavoro del consiglio, per esempio dedicando l’ultima parte di esso a ragionare su come abbiamo comunicato, su che cosa abbiamo appreso. Abbiamo evidenziato la necessità di costruire significati condivisi, di esplicitare il senso delle parole e dei concetti, confrontandoli. Abbiamo imparato che è necessario scegliere i campi delle decisioni, individuando quelli che ci sono più propri nei mutamenti che stiamo vivendo». È questa la consegna che don Mario Aldegani lascia non solo al suo successore, don Alberto Lorenzelli, ma anche ai 206 superiori provinciali e loro consigli in Italia. Fin dal prossimo anno, la Cism sarà chiamata a dare un suo insostituibile contributo al nuovo convegno ecclesiale di Verona. Toccherà soprattutto ai superiori provinciali e ai loro consigli far sì che i loro religiosi, proprio in quanto cristiani, siano anch’essi testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo.

 

Angelo Arrighini

 

1 A. GARDIN, “Il rapporto tra il superiore generale e il suo consiglio. Considerazioni su alcune possibili disfunzioni”, Informationes SCRIS, 29/2003, n. 1. Questo testo è stato sostanzialmente ripreso anche da Testimoni, nn. 19 e 20/2003.