PARIGI – LA RIVOLTA DEGLI EMARGINATI
PERIFERIE CHE BRUCIANO
È bastato un
episodio per far esplodere la violenza. Ciò capita quando il livello di disagio
ha superato i limiti tollerabili. Anche l’Italia non è esente dal pericolo che
una situazione del genere si ripeta.Occorre allora rendersi conto delle cause
che la possono provocare e porvi rimedio.
La morte di Zyad e Banou, 17 e 15 anni, fulminati in una
cabina dell’elettricità dove si erano rifugiati per sfuggire alla polizia, ha
costituito la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso del malessere,
covato a lungo nei quartieri ghetto della periferia di Parigi.
I due giovani magrebini sono diventati dei “martiri”,
simbolo del fallimento di un’integrazione multietnica, spesso sbandierata dalle
autorità francesi, ma mai realizzata. Dal 27 ottobre Parigi ha vissuto notti di
paura e di disordini. Migliaia di giovani, figli d’immigrati urlano i nomi di
Zyad e Banou in faccia ai plotoni della polizia, alzando barricate, incendiando
auto. Da “Clichy Sous Bois”, dove sono morti i due adolescenti, la rivolta si è
estesa ai comuni vicini e alle periferie di altre città. Si è andata
allargando, dopo la prima settimana di scontri, anche la consistenza degli
attacchi dei dimostranti. Agli incendi di vetture e ai vandalismi registrati
fin dall’inizio, si sono via via aggiunti saccheggi e assalti a centri
commerciali, ai luoghi pubblici e perfino a stazioni di polizia.
Al 12° giorno dall’inizio della rivolta le auto bruciate
risultavano essere migliaia. Novanta i comuni interessati dalla sommossa, che
si presenta sempre più come contrapposizione ai simboli della società francese
dei bianchi: concessionarie di auto, circoli culturali, municipi, uffici
postali, scuole, caserme. È un messaggio
di violenza cieca, guidata da vere e proprie bande. Un bus è stato colpito da
una molotov ed è andato in fiamme: solo la prontezza dell’autista ha consentito
di salvare una disabile di 56 anni, prigioniera delle fiamme. In un comune un
impiegato è stato pestato a sangue ed è morto.
S’è registrata, come succede in simili situazioni, una
pericolosa saldatura tra la ribellione giovanile e la malavita organizzata,
accrescendo le difficoltà del governo, stretto tra domanda di sicurezza della
popolazione esasperata e le reazioni scomposte di razzismo e xenofobia.
Soltanto dopo 15 giorni dall’inizio della sommossa a Clicy
Sous Bois, si è registrato un abbassamento della violenza. Si tratta di un
abbassamento relativo – 500 auto bruciate, al posto delle mille della notte
precedente – ma nel ghetto, progettato inizialmente come cittadina per la ricca
borghesia parigina, situata a pochi chilometri dalla capitale in un contesto
naturale e attraente, si vedono i resti della rivolta: carcasse di auto
bruciate, aloni neri sulle strade, vetri rotti, odori nauseanti.
LE REAZIONI
DELLE FORZE POLITICHE
Le reazioni del governo francese sono risultate
contraddittorie. Il ministro dell’interno Nicolas Sarkozy in corsa per la
conquista dell’Eliseo, con un linguaggio da “sceriffo di Francia”, non ha esitato
a qualificare i manifestanti come “feccia e teppisti”, come, “cancrena da
sradicare”. Ha proclamato “tolleranza zero” e ha ordinato ai plotoni di polizia
cariche con lacrimogeni e proiettili di gomma, ha realizzato centinaia di
arresti ed espulsioni immediate.
Nettamente contrario a questa politica muscolare è Azouz
Begag, ministro per la promozione sociale. Intellettuale magrebino, cresciuto
nei ghetti di Lione ha affermato: «È lottando contro le discriminazioni, che si
stabilisce l’ordine, non moltiplicando i poliziotti». Critiche nei confronti
del ministro dell’Interno sono suonate anche le parole del presidente Chirac:
«È necessario – ha affermato – applicare la legge, ma in uno spirito di dialogo
e di rispetto» e ha chiesto al governo di presentargli entro un mese una lista
di nuove misure, per rafforzare l’attuale politica di integrazione sociale e di
lotta alla devianza.
Contro Sarkozy si è pronunciato anche il premier Dominique
De Villepin il quale ha richiamato la necessità di «evitare di stigmatizzare i
quartieri ai quali gli abitanti sono affezionati, di trattare in modo diverso
la piccola delinquenza e la grande criminalità e di impegnarsi a lottare contro
ogni discriminazione».
In realtà Sarkozy non si è limitato ad attuare l’odiosa
repressione. Con un pizzico di demagogia, ma forse colpendo nel segno, ha
formulato anche proposte di forte rinnovamento del modello organizzativo
sociale proponendo diritto di voto per gli immigrati, “discriminazione
positiva” per favorire gli accessi al lavoro, dialogo con le comunità
religiose.
A proposito di comunità religiose si è registrato un
esemplare equilibrio, in questa caotica situazione, nei capi religiosi
musulmani. Essi hanno spento sul nascere qualunque strumentalizzazione
religiosa – qualche giovane cominciava a gridare: “Allah è grande” – e hanno
ridimensionato l’episodio di un lacrimogeno caduto incidentalmente sulla
moschea, nei giorni di Ramadan. L’imam della principale moschea di Parigi, ha
affermato, durante la preghiera alla fine del Ramadan, che «la violenza è una
malattia, chi la pratica è un malato e le canaglie subiranno le conseguenze
delle loro azioni».
In direzione di una riflessione serena e approfondita si è
presentata anche la dichiarazione dei vescovi francesi riuniti a Lourdes, in assemblea
plenaria. Essi hanno lamentato il rischio di un allargamento della
conflittualità all’interno della società francese. Hanno affermato che «la
repressione e l’incitamento alla paura collettiva non sono una risposta
all’altezza delle tensioni drammatiche della società». Hanno sottolineato il
dovere di «aprire alle nuove generazioni spesso prive di speranza, un avvenire
di libertà, di dignità e di rispetto dell’altro». Infine hanno voluto
incoraggiare «tutto il lavoro fatto quotidianamente da molte associazioni e
istituzioni per creare legami di solidarietà».
La rivolta è servita almeno a creare in molti la coscienza
che la violenza non è la strada per risolvere i problemi. Ad Aulnay in tremila
sono sfilati sotto lo striscione che diceva No alla violenza, sì al dialogo.
LE RAGIONI
DEL MALESSERE
Perché sono scesi in piazza migliaia di adolescenti e di
giovani che appartengono alla seconda generazione di immigrati, nella
stragrande maggioranza di origine algerina e marocchina? Sostanzialmente a
causa dell’emarginazione che essi sperimentano quotidianamente. C’è un pezzo di
società che si caratterizza per l’alta percentuale di disoccupazione, per
l’accentuato abbandono scolastico, per i prolungati soggiorni nei riformatori e
nelle prigioni. Vivere nelle periferie significa scuole peggiori, difficoltà di
accesso alle università, discriminazione nelle relazioni sociali, in ragione
del proprio cognome e del colore della pelle. A parità di titoli di studio,
salari, carriere, posti di responsabilità restano inferiori. La situazione
risulta grave soprattutto nel mondo del lavoro.
Nel 2000 il tasso di disoccupazione dei francesi era del 5%:
esso saliva all’11% per i francesi naturalizzati e al 20% per gli stranieri
nord africani. Esistono disposizioni e regolamenti in Francia che precludono
posti di lavoro agli stranieri non comunitari. Anche i magrebini di
cittadinanza francese vengono di fatto discriminati dai datori di lavoro, che
preferiscono i francesi.
S.O.S. RACISME aveva denunciato da tempo una quantità enorme
di casi dove la discriminazione risultava palese a danno di immigrati e
cittadini di colore: nel prendere in affitto una casa, nell’accedere alla
discoteca; nelle aziende commerciali e turistiche che preferiscono personale
bianco per servire a tavola; i gradi superiori della pubblica amministrazione
sono preclusi; i medici vengono pagati meno negli ospedali, se sono di colore.
Il ministro della coesione sociale Jean-Louis Borloo ha
dovuto riconoscere gli errori dei vari governi: «È vero che da trent’anni si
sarebbero dovuti moltiplicare e rafforzare i servizi pubblici in questi
quartieri e questo non è stato fatto».
In effetti la Francia appare un paese diviso. Le zone urbane
a rischio nelle quali vivono circa cinque milioni di persone, registrano il 26,5%
di famiglie povere contro il 10% della media nazionale e le famiglie dissestate
con un solo genitore sono il 15%, contro l’8% della media nazionale.
È interessante l’interpretazione degli avvenimenti
rilasciata da Lafif Lakhdar, intellettuale francese di origine tunisina, al
corrispondente de Il Foglio: “Ci sono quattro modi per integrare gli immigrati
in un paese: la scuola, il lavoro, il sindacato e il luogo di culto. In tutti e
quattro i casi la Francia ha fallito su come affrontare il problema culturale:
nelle aule scolastiche della periferia gli stranieri sono la maggioranza, gli
immigrati non hanno specializzazioni professionali e sono disoccupati, le
moschee monopolizzate dai fondamentalisti promuovono rappresaglie contro i
matrimoni misti” (Il Foglio 10.11.05).
In sintesi il grande segreto per battere la rivolta sta nel
prevenirla operando sul piano sociale e culturale.
COINVOLTI
ANCHE NOI?
A questo punto un interrogativo sale spontaneo dall’opinione
pubblica del nostro paese: c’è il rischio reale che l’incendio partito da
Parigi si estenda anche all’Italia? La domanda non è peregrina, giacché incendi
di auto e forme di rappresaglia si sono già verificati in alcune città del
Belgio e della Germania.
Quando il 6 novembre Romano Prodi ha ricordato che tale
rischio andava preso in seria considerazione, giacché «le periferie delle città
italiane sono tra le peggiori d’Europa», il suo allarme fu giudicato, dagli
avversari politici, irresponsabile. Alcuni giorni più tardi però, il ministro
Giuseppe Pisanu, raccolse la sua sollecitazione e rafforzò la preoccupazione
dell’ex premier, affermando che «…anche le nostre città avranno di che
piangere, se falliranno le politiche sull’immigrazione», ossia le politiche
riguardanti «il controllo dei clandestini e l’integrazione appropriata degli
immigrati regolari»: due facce della medesima medaglia.
Il punto nodale anche per noi come per la Francia, è
costituito dalla politica migratoria. Il 15° rapporto sull’immigrazione,
presentato dalla Caritas italiana e da Migrantes il 27 ottobre u.s., solleva
più preoccupazioni che speranze.
Dopo tre anni dalla promulgazione della legge Bossi-Fini, il
suo primo obiettivo di ridurre la clandestinità risulta fallito. La sensibilità
popolare è colpita dalle immagini televisive che mostrano ripetuti sbarchi
d’immigrati: ma l’arrivo dei clandestini via mare, costituisce solo il 10% del
totale. Il 15% entra irregolarmente attraverso le frontiere; gli altri tre
quarti entrano con regolare visto turistico e si fermano oltre la scadenza.
L’aspetto tragico del problema è che molti di questi irregolari sono a noi
necessari. Se, ad esempio, d’improvviso tutte le badanti irregolari venissero
espulse, migliaia di famiglie italiane entrerebbero in grave crisi.
C’è poi il problema degli adolescenti nati in Italia. Essi
sono la maggioranza del circa mezzo milione di minori presenti nel nostro
paese. Questi ragazzi e adolescenti vivono lo stesso disagio dei loro coetanei
francesi. Sono come persone senza radici: non conoscono quasi nulla delle terre
di origine dei genitori, parlano correttamente la lingua del nostro paese, ma
si sentono trattati da estranei dagli italiani.
Un forte disagio esiste anche negli adulti, costretti a
lavori marginali e umili nonostante il livello mediamente alto di istruzione.
Secondo il rapporto Caritas-Migrantes, i laureati tra gli immigrati sono il
12,1% del totale, i diplomati sono il 27,8%: sono percentuali superiori a
quelle dei cittadini italiani. Ma il titolo accademico e il grado di cultura
non garantiscono un futuro migliore.
Un caso emblematico: due giovani, lei italiana lui del
Camerun, si laureano in scienze bancarie all’università di Siena, con la stessa
votazione, alta. Spediscono richieste di lavoro a una serie di istituti
finanziari della Toscana e del Lazio. Lei riceve riscontro e invito per un
colloquio dall’80% degli istituti interpellati, lui solo dal 5%. Oggi lei è
impiegata regolarmente, lui è costretto a fare il portiere in un palazzo. In
uno dei colloqui sostenuti, gli avevano fatto capire che i clienti
difficilmente avrebbero accettato di avere come controparte un africano e la
sua assunzione si sarebbe tradotta in un danno per la banca.
L’integrazione di cui parla il ministro Pisanu significa
offrire pari opportunità. Significa anche consentire una partecipazione attiva
degli immigrati, a livello di cittadinanza. Caritas Italiana e Associazione
nazionale dei comuni italiani (A.N.C.I.), in occasione di un convegno tenuto
nel mese di ottobre, hanno avanzato al governo la proposta di consentire il diritto
di voto agli immigrati regolari, soggiornanti da almeno cinque anni in Italia.
Nessuna reazione del governo.
Soprattutto integrazione significa accoglienza, dialogo,
stima. Un missionario francese, che opera in Africa da trent’anni, ha così
commentato la ribellione delle periferie parigine degli ultimi giorni: «Gli
africani hanno più bisogno di dignità che di pane. I tumulti cesseranno solo se
sarà loro assicurato il diritto al rispetto e la certezza del futuro».
Quando l’emarginazione riguarda singoli casi, forse è
sufficiente intervenire con l’assistenza. Quando essa diventa fenomeno sociale,
deve intervenire la politica. Diversamente c’è il rischio reale per la
democrazia di un paese.
UNA CHIESA
FERMENTO
Negli ultimi giorni il governo francese è stato costretto a
ricorrere al coprifuoco e a leggi speciali che proibivano assembramenti in
“luoghi sensibili”. Il presidente Chirac ha approvato, commentando: «C’è un
tempo per l’azione e un tempo per la riflessione. Questo è il tempo
dell’azione. Poi verrà la riflessione».
L’Italia non è la Francia: essa non sembra correre per
l’immediato i pericoli dei nostri cugini d’oltralpe. È prudente che diamo
precedenza alla riflessione e alla prevenzione. Nella prevenzione c’è un ruolo
che le nostre chiese possono sviluppare e che può essere così articolato:
– premere sulle forze politiche per una revisione della
legge Bossi-Fini, che riduca il disagio degli immigrati e rispetti il diritto
dei richiedenti asilo politico;
– affrontare il tema della cittadinanza italiana agli
immigrati regolari in tempi analoghi a quelli di altri stati europei;
– educarci tutti, italiani e stranieri al metodo della
nonviolenza, l’unico metodo veramente umano e razionale. Ma per evitare le
violenze di “reazione”, dobbiamo evitare anzitutto quelle forme di violenza
sottile e meno appariscente, che discriminano e umiliano la dignità delle
persone;
– dare una testimonianza esemplare di accoglienza degli
immigrati, che vada dall’inserimento dei cattolici nei nostri consigli
pastorali e nelle nostre associazioni, alla disponibilità ad affittare le
nostre case a famiglie di colore, all’accoglienza dei minori immigrati nelle
scuole cattoliche e nelle comunità alloggio.
Stiamo avvicinandoci al Natale. Dovremmo evitare l’ipocrisia
di predisporre presepi accoglienti per le statue di Gesù bambino, di Maria e di
Giuseppe, rifiutando poi di garantire uno spazio di rispetto e di amore alla
presenza reale di Gesù nei poveri.
Giuseppe Pasini