UN’UTILE VERIFICA SPIRITUALE
IL CUORE DELLA MEDITAZIONE
La presente
riflessione non pretende di esaurire il tema della meditazione, e tanto meno
della preghiera. Si propone soltanto di offrire alcuni utili spunti concreti,
aiutando a capire che cosa non è la meditazione e in che cosa invece consiste,
e offrire alcuni consigli pratici, tenendo come punto di riferimento la lectio divina.
La meditazione non è un intreccio di ragionamenti o di
sillogismi. In questo caso si tratterebbe di una lezione di teologia o di un
esercizio di oratoria. Al contrario, bisogna tenere sempre presente quello che
dice Gesù: “Non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire
ascoltati a forza di parole” (Mt 6,7).
La meditazione non è un tempo per fare esercizi di
respirazione o di ginnastica e nemmeno una pura e semplice contemplazione
estetica, anche se iniziare con alcuni esercizi può essere utile per acquietare
e rasserenare il proprio corpo e la psiche; a volte perciò il punto di partenza
può essere la contemplazione di un paesaggio, un fiore, un canto, una melodia,
un oggetto, un testo, una frase, una parola, un sentimento, un fatto che ci è
capitato, una scena biblica, l’incontro con una persona, ecc.… In genere
tuttavia è meglio seguire qualcosa di sequenziale e progressivo, ad esempio, le
letture bibliche della liturgia del giorno, o un libro di meditazioni, gli
scritti di qualche autore, ecc. In una parola, la meditazione deve essere un
cammino, e sempre e soprattutto un momento di fede-speranza-carità cristiane. È
essenziale pertanto mettersi davanti a Dio e invocare l’Abbà, il Maestro, lo
Spirito, o qualcuno dei suoi santi, in particolare la Madonna.
La meditazione non è un tempo per informare Dio
semplicemente della nostra situazione affinché ne prenda atto. In effetti, “il
Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate”
(Mt 6,8); “…La mia parola non è ancora sulla lingua / e tu, Signore, già la
conosci tutta” (Sal 138,4). Siamo, invece, noi ad avere bisogno di quel tempo
per capire che cosa Dio vuole da noi, come Gesù nel Getsemani (cf. Mt 26,
36-46). È un tempo, non per convertire lui a noi, ma noi a lui, non per
convincere lui della validità delle nostre ragioni e richieste, ma noi della
validità delle sue.
La meditazione non è un tempo a nostra disposizione per
la lettura di un libro interessante, anche spirituale, che non si ha il tempo
di leggere durante il giorno. Questa semmai è la “lettura spirituale”. Può
darsi che capiti qualche giorno in cui non siamo in grado di fare altro che
leggere. In questo caso, è importante farlo con calma, senza la fretta di
arrivare in fondo, cercando piuttosto di capire bene quanto stiamo leggendo e
lasciando del tempo affinché quella lettura possa entrare dentro di noi.
Proprio per questo, è utile leggere e ri-leggere la stessa pagina per capire e
assaporare meglio quanto l’autore scrive.
La meditazione non è una “sessione di lavoro” per
organizzare la giornata che ci sta davanti o quella del giorno dopo. Ciò non
significa che alla fine non dobbiamo prevedere e impostare come vivere
concretamente lungo il giorno quanto abbiamo meditato, approfondito e pregato.
In effetti, se la meditazione non vuol restare un insieme di parole al vento,
deve permeare la nostra vita pratica, secondo le parole del Signore: “Non
chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che
fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7, 21).
La meditazione non è necessariamente un tempo di
preghiera fatto in un luogo buio e silenzioso, anche se questo è molto utile,
ed è giusto prendere l’abitudine di meditare in certe ore della giornata (al
mattina presto o alla sera sul tardi), in un luogo adatto (cappella, stanza) e
un modo concreto allo scopo di aiutare metodologicamente noi stessi. Ma si può
meditare anche alla fermata dell’autobus o nella ressa sul bus o in
metropolitana, poiché si tratta di un’attività essenzialmente spirituale.
Non è obbligatorio fare la meditazione secondo il metodo
di Tizio o di Caio. Tuttavia è importante conoscere come altri – soprattutto i
maestri di spiritualità e/o di santità – hanno fatto e insegnato, per scoprire
quale sia il modo che a me (per la mia cultura, mentalità, temperamento…)
conviene. Infatti, l’importante non è pregare in questo o quel modo, ma
stabilire un rapporto vitale con Dio nel modo più profondo e radicato
possibile. Anche se, appartenendo a un determinato istituto religioso, è logico
(necessario!) che io trovi nel mio fondatore degli elementi di spiritualità e
taluni modi di pregare, ecc. con i quali sentirmi carismaticamente in sintonia.
CHE COS’È
LA MEDITAZIONE?
La sua base
antropologica
La grazia suppone la natura, ha scritto ripetutamente san
Tommaso d’Aquino nella Somma Teologica. Partiamo dunque dalla natura.
Esiste una ragione o base umana che spieghi non solo
l’utilità ma la necessità di pregare e meditare? La risposta è “sì”. La persona
umana, infatti, per capire, accogliere, approfondire, assimilare e vivere
umanamente le proprie idee, i valori, le convinzioni e i sentimenti, ha bisogno
di formularli nella sua mente e di esprimerli in qualche modo. In altre parole,
ha bisogno del linguaggio in senso ampio (pensieri, parole, gesti,
comportamenti…). Senza il linguaggio, il nostro processo di umanizzazione si
bloccherebbe (è il caso dei cosiddetti “bambini-lupo”). Grazie al linguaggio,
invece, entriamo anzitutto in contatto con noi stessi, poi gli uni con gli
altri; comunichiamo, usciamo dal nostro isolamento e dalla nostra solitudine,
ci arricchiamo e promuoviamo a vicenda, ci amiamo… Il nostro corpo è la
“parola” o il segno globale di cui disponiamo per l’incontro, il dialogo,
l’amore; è il “sacramento” visibile della nostra interiorità invisibile. Ciò
che vediamo degli altri, infatti, è soltanto il corpo. Per mezzo del corpo
inviamo dei segnali veri o falsi, amichevoli o aggressivi, e interpretiamo
giustamente o erroneamente i segnali che gli altri ci mandano. Quante volte
sbagliamo nel giudicare gli altri, o gli altri sbagliano nel giudicare noi. È
la prova di quanto siamo diversi e lontani gli uni dagli altri. Con il
linguaggio del corpo cerchiamo di superare, per quanto possibile, questa
lontananza. Il nostro corpo è dunque ponte e frontiera: ponte, perché soltanto
attraverso di esso riusciamo ad andare incontro gli uni agli altri; e
frontiera, perché nessuno è in grado di uscire dal proprio corpo. Gli sguardi,
gli abbracci, i baci, le parole, le strette di mano, le pacche sulla spalla,
l’unione coniugale…, non hanno altro intento che di realizzare l’incontro, la
fusione vicendevole, pur senza confusione.
Tutta la vita cosciente dell’uomo dunque si sviluppa
grazie al linguaggio del corpo: dalle piccole cose quotidiane alle grandi
decisioni. I pensieri, i sentimenti, gli impegni (la professione religiosa, il
matrimonio)… sono tutte “parole” pensate, sentite, dette, tradotte in gesti…
Al contrario, ci sentiamo frustrati e bloccati quando non
riusciamo a esprimere ciò che pensiamo o sentiamo. Ad esempio, quante volte
soffriamo perché non riusciamo a formulare le nostre idee (“Non mi viene la
parola…”); o quando ci troviamo in un paese di cui non conosciamo la lingua e
perciò non possiamo essere spontanei. Altre volte non riusciamo a formularle
neanche dentro di noi stessi. Spesso, infatti, il successo di un libro, di un
articolo o di una conferenza non dipende dal fatto di aver detto qualcosa di
veramente nuovo, ma dall’aver saputo formulare quanto avevamo già nella nostra
mente o nel cuore in modo confuso (“Questo è ciò che volevo dire!..., ciò che
pensavo…, ciò che sentivo…”). Altre volte, infine, il sentimento è talmente
forte e il pensiero così alto che non troviamo parole adeguate ad esprimerli.
In un momento di grande gioia o di profondo dolore, o fra innamorati…, ci si
limita a qualche semplice parola, a un gesto (un abbraccio, un bacio…), o a
guardare l’altro negli occhi, sperando che possa capire la profondità di quanto
vorremmo dirgli. O, come nella poesia, facciamo ricorso a giochi di parole,
immagini simboliche, ecc.; oppure come nella filosofia o nella spiritualità, in
cui inventiamo parole nuove.
Il cuore/nocciolo di
ogni preghiera e meditazione
Possiamo ora applicare questa realtà umana alla preghiera
e in particolare alla meditazione. Che cos’è pregare, meditare? Cosa succede
quando preghiamo e meditiamo? Qual è il cammino della preghiera e più in
concreto della meditazione?
La meditazione e la preghiera in genere sono la “parola”
di risposta dell’uomo a un’altra “parola” che gli viene rivolta. Ricordiamo che
Cristo stesso viene chiamato “la Parola” (Gv 1,1ss) che il Padre ha rivolto
all’umanità dalla quale si attende una risposta. In sintesi, possiamo dire che
il processo è il seguente:
– Dio, innanzitutto ci chiama, ci interroga, si rivolge a
noi mediante la sua Parola (la Bibbia, Cristo in modo particolare), attraverso
le circostanze della vita, della comunità, della Chiesa, del mondo, delle
nostre attività, attraverso le gioie, le sofferenze, i problemi… e/o quelli
altrui.
– Noi gli rispondiamo mediante la fede e l’invocazione.
Formuliamo una risposta che diventa presa di posizione, atto teologale,
preghiera. Infatti, diciamo: «Sì, Signore, io credo in te, confido in te, mi
fido di te, mi abbandono in te, spero in te, ti amo, ti lodo, ti ringrazio, ti
supplico, ti chiedo perdono…». Tutto questo lo facciamo sia rivolgendoci
direttamente a lui, sia indirettamente ai santi, alla santissima Vergine… La
preghiera non è altro che la nostra vita teologale (di fede, speranza, amore)
in qualche modo detta, espressa, vissuta. La preghiera è espressione di fede,
sospiro di speranza, gesto di amore. Come diceva Sören Kierkegaard: «La fede è
la madre; la preghiera è la figlia; ma è la figlia ad alimentare la madre».
Qualsiasi nostra preghiera, riflessione, meditazione, invocazione… non è altro
che questo.
Così dunque, alla domanda o all’appello che Dio ci
rivolge, noi rispondiamo con il dialogo, l’accoglienza, l’assenso (o
l’indifferenza, il rifiuto…). Non si tratta di un dialogo astratto,
spersonalizzato; ma, di un dialogo “Io-Tu”. In effetti, noi non crediamo in
“qualcosa”, ma in “Qualcuno”. La nostra risposta non è “io credo”, bensì “ti
credo”, io credo in te; e poiché credo in te, credo quanto mi dici.
Fede-speranza-amore e preghiera sono dunque in se stessi inseparabili. Non si
può credere senza pregare, e non si può pregare senza credere.
Ma andiamo ancora più in profondità. Cosa facciamo, cosa
succede, quando preghiamo-meditiamo? Quando preghiamo/meditiamo, prendiamo
coscienza di qualcosa che sta effettivamente avvenendo in noi, qui e ora, e
cioè:
– che il Padre mi ha amato, mi ama, mi sta amando qui e
ora, e mi mantiene nell’esistenza (cf. Sap 11, 23-26), mi attira a sé, alla sua
comunione;
– che il Figlio mi ha redento, mi redime, mi sta
redimendo, qui e ora, sta attuando in me il suo mistero pasquale;
– che lo Spirito Santo mi ha santificato, mi santifica,
mi sta santificando, qui e ora, mi sta immergendo nella Trinità, mi sta
configurando a Cristo, mi sta suggerendo di invocare Dio “Padre, Abbà!” (Rm
8,15).
Pregare/meditare è dunque vivere coscientemente con Dio
la vita di Dio che sta avendo luogo in me, qui e ora; se esisto, si mi apro a
lui, se mi abbandono a lui, se mi fido di lui, se lo amo, lo invoco…, è perché
io vivo in lui e lui vive in me: “In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed
esistiamo” (At 17,28); “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal
2,20). Pregare significa essere consapevoli di quanto disse Cristo: “Se uno mi
ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e
prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,22-23). La preghiera/meditazione non è
altro che prendere coscienza di una presenza: la presenza di Dio in me!
Prendiamo coscienza di essere templi di Dio, vita di Dio, che lui vive in noi e
noi in lui. «Pregare è “essere”; è essere continuamente vissuti da Dio» (Teresa
Tosi). «La preghiera non è per…; la preghiera è, e basta» (R. Bohigues).
«Pregare non è dire preghiere: / pregare è rotolare / nel buio / della tua
luce, / e lasciarci raccogliere, / e lasciarci parlare, / e lasciarci tacere /
da te. / Pregare sei tu che preghi, / sei tu che respiri, / tu che mi ami; / e
io mi lascio amare / da te. / Pregare è un prato d’erba; / e tu ci passi sopra»
(Adriana Zarri). «La vita di preghiera consiste quindi nell’essere
continuamente alla presenza del Dio tre volte santo e in comunione con lui»
(CCC 2565). Sant’Agostino riassume in modo mirabile le tre dimensioni della
preghiera di Gesù: «(Egli) prega per noi come nostro sacerdote; prega in noi
come nostro capo; è pregato da noi come nostro Dio. Riconosciamo, dunque, in
lui la nostra voce, e in noi la sua voce» (Enarr. In Ps. 85,1); (CCC 2616).
Orbene, per renderci consapevoli di tutto questo, noi
creature umane abbiamo bisogno di tempo perché siamo nel tempo, siamo storia;
anche se non abbiamo necessariamente bisogno di molte parole. Ci occorre,
quindi, del tempo di preghiera, di riflessione, di meditazione per far sì che
poco alla volta sboccino in noi atteggiamenti di amore filiale, di fiducia
incondizionata, di fede umile e sincera. In effetti, «L’Amore è la sorgente
della preghiera» (CCC 2658); «L’umiltà è il fondamento della preghiera» (CCC
2559); e «il Fiat è la conclusione» (CCC 2617).
Per questo, i mistici hanno potuto definire la vita di
preghiera/meditazione in un modo profondo, semplice e sintetico allo stesso
tempo: «L’orazione mentale, a mio parere, non è che un intimo rapporto di
amicizia, nel quale ci si intrattiene spesso da solo a solo con quel Dio da cui
ci si sa amati» (santa Teresa, CCC 2709); o, come dice san Giovanni della
Croce: «(È) un’attenzione piena di amore e di pace in Dio». «La preghiera non
consiste nel molto pensare, ma nel molto amare», perché «non tutte le persone
sono capaci di pensare» (santa Teresa, Fond. 5,2). Come il contadino di Ars:
«Signore, ecco Giovanni; io lo guardo, ed egli mi guarda» (CCC 2715). La
preghiera/meditazione è soprattutto «uno stato di stupore, gratitudine e
fiducia» (R. Guardini). Quando stiamo con gli amici non facciamo grandi
discorsi; semplicemente stiamo insieme e chiacchieriamo senza impegno, eccetto
quello di vivere e rafforzare l’amicizia, dando e trovando accoglienza e
comprensione. La preghiera è sedersi amichevolmente ai piedi del nostro amico per
eccellenza, come Maria di Betania (Lc 10,39), perché: “Voi siete i miei amici”
(Gv 15,12; “Voi, amici miei…”, Lc 12, 4).
I PRINCIPALI MOMENTI
DELLA LECTIO DIVINA
Come abbiamo detto, tutto questo richiede dedizione,
tempo e calma interiore. Non possiamo perciò correre, essere tesi, guardando
ogni tanto l’orologio, con la fretta di sbrigarci… Bisogna “lasciarsi pregare”.
A questo scopo può bastare una breve lettura, una frase, una parola, o anche
niente: è sufficiente la sola coscienza della sua presenza.
Certo esistono anche altri modi di meditare, ad esempio,
la cosiddetta “meditazione dettata” (da non confondere tuttavia con una omelia,
una conferenza o una conversazione) Chi “detta” dice qualche frase ogni tanto,
o una serie di frasi che introducono il tema o i punti su cui poi ognuno medita
in silenzio. Il silenzio e la riflessione personale sono parti essenziali della
meditazione.
Qual è allora il significato delle formule di preghiera?
Esse hanno sicuramente un valore, ma relativo. Sono dei mezzi che aiutano a
esprimere l’atteggiamento interiore di preghiera. Ecco perché non sono
essenziali, anche se in qualche modo e in certi momenti più che in altri, ne
abbiamo bisogno; certe persone più di altre. Ma, attenzione, ci sono persone
che dicono tante preghiere, ma non sono degli oranti. Come dice san Giovanni
Crisostomo, commentando Mt 6,7-15: «Gesù ci proibisce le lunghe preghiere. Non
le orazioni lunghe nel tempo…, ma quelle che sono un fiume di parole.
L’essenziale è dire qualche cosa con perseveranza, insistendo nella preghiera,
come dice san Paolo. Il Cristo, con gli esempi di una vedova che riesce a
piegare un giudice o dell’amico importuno, ci insegna che quello che conta è
l’insistenza e non le inesauribili e interminabili preghiere-fiume! Bisogna
esporre con semplicità quello che desideriamo!.. La preghiera non significa
rivelare a Dio i nostri bisogni, ma trovare la strada del suo cuore e rendere
ancora più intima la nostra unione con lui; e questo attraverso la preghiera
frequente e l’umiltà del cuore: un cuore di peccatore che prega a Dio» (Om. sul
Vangelo di Matteo).
Per quanto riguarda il modo di procedere durante il tempo
di meditazione, può essere utile ricordare i momenti proposti dalla lectio
divina:
– assumere un atteggiamento corporeo di serenità e pace,
servendoci magari di qualche breve esercizio fisico;
– invocare lo Spirito Santo affinché quel momento di
preghiera sia utile per la nostra vita e quella degli altri. Adottare un
atteggiamento interiore ed esteriore di ascolto aperto, sincero, umile,
accogliente;
– leggere lentamente e attentamente un testo, non lungo;
se è necessario, ripetere una e più volte la stessa lettura per capirla meglio
e lasciare che essa ci entri dentro;
– scrutare/meditare ogni frase letta, esaminandola e confrontandola
magari con dei testi paralleli, nel caso di un testo biblico, o ricordando
altri insegnamenti, riflessioni, o sentimenti, letti o vissuti altrove;
– parlare al Signore, secondo quanto ci ha suggerito il
testo, lodando, ringraziando, amando, supplicando, confrontando quanto abbiamo
capito con la nostra vita concreta;
– scegliere qualche breve frase da ricordare durante la
giornata, affinché ci serva di aiuto per vivere la presenza di Dio nella nostra
vita;
– fare una scelta o un proposito per rendere operante la
nostra preghiera/meditazione, affinché trasformi in qualche misura o qualche
aspetto della nostra vita in quella giornata. Qualcosa che sia fattibile,
concreto e di cui sappiamo di avere bisogno per la nostra/mia crescita
spirituale nel rapporto con Dio.
ALCUNI
CONSIGLI PRATICI
Tirando le conclusioni, provo ora a dare qualche
consiglio ancora più pratico.
La preghiera deve essere semplice e profonda. Come dicevo
all’inizio, non è una trafila di sillogismi, neanche teologici… perché Dio non
è complicato e non fa fatica a capirci. Siamo noi a essere complicati,
contraddittori… Pregare non è discorrere, è “guardare all’Altro” (santa Teresa,
Camm. di perf. 26,3), uscire da sé e immergersi nell’Altro. Quando siamo fra
amici, i nostri sentimenti di amicizia si manifestano in modo spontaneo,
semplice e profondo, e le frasi sono semplici (a chi ci guarda dall’esterno
possono sembrare perfino banali), ma, sentite, lasciamo che il nostro cuore si
apra e si esprima con semplicità e spontaneità. Non ci viene in mente di fare
grandi discorsi; ci sembrerebbero ridicoli. Comunichiamo e basta. L’importante
è che l’altro ci capisca e che lo possiamo capire noi, è sentirci vicini,
accorgerci di vivere insieme, anche quando il modo di esprimersi è più o meno banale.
Parole che in altre circostanze ci sembrerebbero senza importanza, ora
acquistano un significato ricco e talvolta unico.
La preghiera deve essere costante. Noi tendiamo, invece,
a essere discontinui, volubili, un giorno sì e l’altro no… Cambiamo con estrema
facilità. A volte, dopo un ritiro o un corso di esercizi spirituali, c’è chi
già si considera a posto per un bel po’ di tempo… La costanza richiede
regolarità; è un modo di aiutare se stessi. A questo scopo è fondamentale
fissare dei momenti concreti (anche brevi) di preghiera-meditazione nel corso
della giornata, oltre a quelli occasionali e spontanei; ed essere fedeli a quei
momenti, anche se questo non vuol dire che non ci possa essere l’eccezione. Ma
è importante che sia soltanto un’eccezione, e non diventi pian piano la
“regola”. Questo significa essere fedeli anche nei giorni in cui “non mi va…”;
anzi, quelli sono ancora più importanti, perché se siamo fedeli all’impegno
della preghiera, non è per inerzia, ma per convinzione. Solo così riusciremo a
creare in noi un abito e una vita di preghiera, e farne un atteggiamento
esistenziale che pian piano diventerà insostituibile. Non dimentichiamo,
infatti, che, quanto più si prega, tanto più se ne sente il bisogno; e,
viceversa, quanta meno si prega, meno se ne sente il bisogno…, anche se magari
si dice “mi dispiace…”, cosa che in fondo non è affatto vera, ma è solo una
scusa per tacitare la coscienza e il senso di colpa.
Bisogna dunque imparare a pregare, non soltanto nei
momenti importanti e/o prefissati, ma «… in ogni tempo, nelle vicende di ogni
giorno» (CCC 2659); «pregare negli avvenimenti di ogni giorno e di ogni istante
è uno dei segreti del Regno rivelati ai “piccoli”, ai servi di Cristo, ai
poveri delle beatitudini» (CCC 2660); senza dimenticare che «si prega come si
vive, perché si vive come si prega» (CCC 2725). È necessario pertanto
introdurre la vita nella preghiera e la preghiera nella vita, a cominciare dai
fatti che talvolta ci sembrano piccoli, banali…, ma che sono parte della nostra
quotidianità.
La preghiera deve essere umile. L’umiltà è la base della
fiducia, dell’amore, della donazione, della capacità di riprendere il cammino o
di cominciarlo di nuovo, malgrado i nostri limiti e le nostre incoerenze:
«L’umiltà è la disposizione necessaria per ricevere gratuitamente il dono della
preghiera: “L’uomo è un mendicante di Dio” (sant’Agostino)» (CCC 2559). L’umile
possiede una forza incredibile, perché non ha bisogno di difendersi, mentre il
superbo e l’arrogante, pieni di sé, sentono il bisogno continuo di difendere la
loro facciata, l’immagine più o meno irreale che si sono fatto di se stessi.
La preghiera deve essere impegnata. Deve portare a dei
comportamenti concreti. “Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la
mettono in pratica” (Lc 11, 28); “Non chi dice «Signore, Signore» entrerà nel
Regno dei cieli; ma, chi fa la volontà del Padre mio” (Mt 7,21s; Ger 7,4-7).
Impegni possibili, non irrealistici, bensì concreti, fattibili, e di cui poi
chiedersi conto nel momento dell’esame di coscienza.
Senza paura, infine, delle distrazioni. Sono il tallone
d’Achille della nostra vita di preghiera. Cosa fare, come affrontarle?
Non spaventiamoci Le hanno avute anche i santi. Santa
Teresa di Lisieux non riusciva a concentrarsi nel coro perché una suora anziana
quando pregava faceva rumore con la corona del rosario …, ed è santa e dottore
della Chiesa!.
Non vanno affrontate di petto, in battaglia campale,
frontale. Probabilmente perderemmo. Il miglior modo è la “guerra di
guerriglia”; cioè, affrontarle indirettamente, sfiancandole in questo modo o in
altri simili: non arrabbiamoci con noi stessi, non diventiamo impazienti,
nervosi, scoraggiati, ansiosi…; daremmo semplicemente prova di mancanza di
umiltà, di pazienza, di accettazione della nostra realtà umana; e, come
risultato, diventeremmo ancora più nervosi, più distratti. Invece, cerchiamo di
mantenere la calma e l’apertura a Dio, malgrado tutto. Accettiamo i nostri
limiti e le nostre debolezze (distrazioni) con umiltà e pazienza, fiduciosi nella
misericordia e nell’amore di Dio. Lui conosce le nostre difficoltà Quindi
continuiamo semplicemente a fare quanto stavamo facendo prima di distrarci,
pensando o meditando, e con serenità; riprendiamo il cammino. E ripetiamo
questo esercizio con perseveranza e semplicità tutte le volte che sarà
necessario. Così facendo sperimenteremo pian piano che diventa più fruttuoso
meditare o pregare, nonostante le inevitabili distrazioni e forse riusciremo a
migliorare poco alla volta la nostra capacità di stare attenti. L’umiltà e la
fiducia ci permetteranno di non scoraggiarci e di trarre profitto anche dai
nostri limiti.
A volte può essere utile metterci a riflettere e a
discernere davanti a Dio il contenuto della stessa distrazione. Una cosa è
certa: era qualcosa che ci interessava, visto che ci ha distratto: perché ci
interessava? Cosa ha di giovevole? Chiediamocelo davanti a Dio.
E quando, nonostante la nostra buona volontà, non
riusciamo a concentrarci, limitiamoci almeno a “stare” in atteggiamento di
preghiera, a bussare alla porta. Questo “stare” è già invocazione, donazione,
lode, abbandono, gesto di amore (cf. CCC 2729). E ci saranno dei giorni in cui
non saremo capaci di fare altro. Allora, leggiamo con calma qualche cosa,
ripetiamo qualche frase, qualche versetto di un salmo, qualche frase del
Vangelo o di san Paolo… La nostra preghiera magari si limiterà a ripetere
quanto diceva il pubblicano, lodato da Gesù: “O Dio, abbi pietà di me
peccatore!” (Lc 18,13); o diventerà eco di quella dei discepoli quando chiedevano:
“Aumenta la nostra fede!” (Lc 17,5), o come quell’altro che supplicava: “Credo,
aiutami nella mia incredulità!” (Mc 9,24); o la preghiera del contadino di Ars,
che prima abbiamo citato. Dio capirà il nostro gesto, perché questo è già
preghiera!
Teniamo presente il nostro corpo. Non prendiamo delle
posizioni scomode, altrimenti ci distrarremo più facilmente. Il nostro corpo è
parte di noi; noi siamo il nostro corpo. Così, quando siamo seduti per
meditare, manteniamo la schiena eretta: è l’atteggiamento in cui si ha la
sensazione di pesare di meno, e quindi si facilita il concentramento. Quando,
poi, preghiamo insieme, dobbiamo metterci d’accordo sulle parole, i gesti, i
canti, le posizioni, ecc., che vogliamo usar. Ma quando facciamo la nostra preghiera
personale è molto importante (come già accennavo all’inizio) che ognuno trovi
il suo modo di pregare: ci risparmieremo tante difficoltà e distrazioni.
Abbiamo da imparare tante cose dagli altri (ecco il valore delle letture, delle
conferenze, degli esercizi pratici, di vedere cosa fanno o facevano altri,
soprattutto i maestri di preghiera), ecc., ma solo per scoprire il nostro modo
migliore di pregare.
Infine, non dimentichiamo che la preghiera è un dono di
Dio, e non il frutto dei nostri sforzi (non è questione di ginnastica!). Noi
possiamo e dobbiamo prepararci a ricevere questo dono; dobbiamo chiederlo
incessantemente (Lc 18,1-4; 21,36; Ef 6,18; 1Ts 5,17). Questa è la nostra
parte. Il resto dipende da Dio. Il nostro compito è quello di stare davanti
alla porta e bussare. Ma la porta si apre soltanto dall’interno; quindi, solo
Dio può aprirla. Lasciamogli la libertà di aprirla se vuole e quando vuole; è,
da parte nostra, un segno di umiltà, di disponibilità, di povertà evangelica,
di fiducia in Lui; e la fiducia è amore. O, per usare di un altro paragone,
lasciamo la porta della nostra stanza aperta affinché se il Signore passa e
vuole, possa entrare. Non pretendere che entri; ma teniamoci pronti ad
accoglierlo. Se, invece, l’ospite passa, e la porta è chiusa, forse per
rispetto non la forzerà per entrare, rispettando così la nostra libertà. Ma,
ogni tanto o quando meno ce lo aspetteremmo succederà quanto scrive il libro
dell’Apocalisse: “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce
e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20).
J. Rovira cmf