FELICE DA NICOSIA SUGLI ALTARI

IL SANTO DALLA “BISACCIA EROICA”

 

Semplice fratello cappuccino, illetterato, ma ricolmo della sapienza che Dio dona ai piccoli e agli umili. Dedito a numerosi servizi, si definiva il somarello del convento. Di fronte a ogni umiliazione rispondeva sempre con un sorriso: «Sia per amor di Dio». È stato una vera icona di minorità, secondo lo spirito più genuino del francescanesimo.

 

«I santi non cessano di interpellarci e continuano a lanciare il loro messaggio di vita nuova nello spirito e a stimolarci nella santità della vita consacrata. È una felicità e una fortuna per noi e non possiamo restare indifferenti come se nulla fosse accaduto».

Lo scrive fr. John Corriveau, ministro generale dei cappuccini, in una lettera all’ordine in occasione della canonizzazione di Felice da Nicosia, avvenuta il 23 ottobre scorso.

È un nuovo santo cappuccino, la cui storia viene un po’ da lontano, ma che ha il sapore e lo splendore delle cose nuove, poiché la santità non invec­chia mai.

«Seguire la sua vicenda biografica – scrive fr. Corriveau – è un compito di estrema facilità. Dalla sua “bisaccia eroica”, come venne intitolata una sua moderna biografia, possiamo estrarre queste notizie fondamentali.

Si chiamava Filippo Giacomo Amoroso e nacque a Nicosia, nella fertile terra di Sicilia, il 3 novembre 1715, già orfano di padre, di nome Filippo, mentre la madre si chiamava Arcangela La Nocera. La famiglia era assai povera e il fanciullo venne presto messo a bottega nella più rinomata calzoleria della città, gestita da mastro Giovanni Ciavirella. Qui apprese bene il mestiere che il padre, prematuramente morto, non gli aveva potuto insegnare (era anch’esso un ciabattino) e mentre sedeva appartato in silenzio al suo deschetto di fatica, trovava modo di inculcare serietà, rispetto e devozione anche agli altri colleghi operai. Benché giovanissimo, nella sua accesa religiosità era riuscito non solo a frequentare la pia unione dei Cappuccinelli presso il convento di Nicosia, ma a esservi iscritto e quindi a indossare la cappa dei congregati, con un piccolo cappuccio francescano, assimilando con ardore la spiritualità cappuccina. E questa spiritualità la esprimeva in tutti i suoi atti e durante il suo lavoro.

Sembrava fatto apposta per diventare cappuccino. E invece dovette attendere molti anni. Diciottenne nel 1735 bussò alla porta del convento per esservi accolto come fratello laico, non essendo istruito. Ne ricevette sempre un sonoro diniego, perché la povertà della famiglia richiedeva il suo contributo insostituibile di lavoro, ma anche per verosimili interferenze e disposizioni anticurialiste che allora avevano preso il sopravvento nella gestione politica del regime borbonico. Egli rifece molte volte la domanda, e non si stancò e non cercò altre vie. Una vocazione non facile, ma provata, matura e ampiamente ponderata e desiderata. Finalmente, dopo dieci anni di attesa, il “cappuccinello” poteva diventare un frate cappuccino integrale, col nome di Felice da Nicosia, deciso a battere la stessa strada di Felice da Cantalice, il primo santo cappuccino.

Dopo l’anno di noviziato a Mistretta e la sua solenne professione il 10 ottobre 1744, fra Felice fu destinato alla sua Nicosia, dove rimase questuante per tutta la vita, diventando nella città una presenza di spiritualità radicata nella popolazione. Di casa in casa, assai raccolto e mortificato, silenzioso, la corona in mano, camminava – racconta un teste – “gli occhi intrana grutta, cioè chiusi chiusi, come entro una grotta, sempre in silenzio, e mi pareva, quando lo guardavo, sempre raccolto in Dio”. L’unica parola che tutti, ormai, avevano imparato, era un sorridente ringraziamento: “Sia per l’amor di Dio”. Definiva se stesso col vezzeggiativo ’u sciccareddu, il somarello del convento, che arrivava carico, dopo la questua, come usavano i carrettieri siciliani.

Per le strade istruiva i fanciulli nei rudimenti del catechismo e, per attirarli, dava loro pane e fave. Anzi, aveva un suo metodo pratico. Dalle sue tasche, sempre provvedute, estraeva per i poveri bambini denutriti e malvestiti piccoli doni: una noce, tre nocciole, cinque fave, dieci ceci, a ricordare a quei bimbi il Dio uno in tre persone, le cinque piaghe di Gesù crocifisso e i dieci comandamenti di Dio: regalucci e carezze che riflettevano una lezioncina di fede. Come Felice da Cantalice per le vie di Roma, così egli insegnava anche graziose canzoncine condite di preghiere, di atti delle virtù teologali. Una di queste canzoni è ricordata nel processo:

Quando incontrava poveri che trasportavano legna o altre cose pesanti, egli si prestava ad aiutarli. Ma ogni sofferenza trovava un’eco profonda nel suo cuore. Non si dava pace finché non avesse potuto far qualcosa per i bisognosi. Per gli ammalati era sempre pronto a servirli, giorno e notte. Ogni domenica, andava a visitare i carcerati e portava loro del cibo.

 

“SIA PER L’AMOR

DI DIO”

 

Padre Macario da Nicosia, lo trattò duramente nei 23 anni che fu suo direttore spirituale. Tutti conoscevano i suoi rimbrotti e nomignoli coi quali umiliava il suo fra Scuntentu, poltrone, ipocrita, gabbatore della gente, santo della Mecca. A questi toni crudi e aspri faceva da contrasto la nota dolcissima come un ritornello: “Sia per l’amor di Dio”.

Egli era analfabeta. La sua devozione era semplice, la parola un fatto di vita, non una considerazione intellettuale. Era devotissimo dell’Eucaristia, della Vergine Addolorata e di Gesù crocifisso. Il sagrestano del convento di Nicosia, fra Francesco da Gangi così lo ricorda: «Egli sempre mi diceva e mi raccomandava d’impararmi a fare orazione mentale, e specialmente sopra la passione di Gesù Cristo, e mi diceva che chi medita e pensa alla passione di Gesú Cristo non patirà pene d’inferno, e ciò me lo diceva con tanto fervore di cuore, e piangendo».

Sarebbe interminabile il racconto dei numerosi fatti e aneddoti fioriti come leggenda durante la sua vita. Ma resta un aspetto da non tralasciare: la sua candida religiosità popolare, che utilizzava come rimedio infallibile di ogni male le “polize” della Madonna, striscioline di carta ritagliate, sulle quali erano stampate invocazioni devote alla Vergine, in latino o siciliano. Ne aveva sempre con sé e spesso le distribuiva. Le appendeva alle porte di case dov’erano ammalati o poverelli, alle botti da cui riceveva l’elemosina del vino, le gettava nel fuoco che aveva attaccato i covoni pronti per la trebbiatura, nel grano annerito per calamità naturale, nella cisterna screpolata e senz’acqua, e fiorivano grazie e miracoli, spesso veri scherzi della Provvidenza.

Alleggerito da ogni incarico, col fisico ormai ridotto male per le estreme penitenze e mortificazioni, era sempre pronto a ogni forma di servizio, soprattutto con gli ammalati in infermeria del convento. Mentre le forze diminuivano nel languore dei suoi 72 anni, cresceva in intensità la sua concentrazione in Dio e la sua lieta e semplice obbedienza. Se di Francesco d’Assisi è stato detto che era divenuto la personificazione della preghiera, di Fra Felice si potrebbe dire che era l’obbedienza in persona, come atto di puro amore. E fu questo il suo ultimo e unico messaggio. Alla fine del mese di maggio del 1787 ’u sciccareddu, il somarello del convento, sceso nel chiostro a badare alle sue erbe medicinali che coltivava per gli ammalati, si accasciò sull’aiuola, senza forze. Nel suo lettuccio, ricevuti i sacramenti, e raccomandandosi a “mani ’nchiuvati”, mani inchiodate, al padre san Francesco, invocava spesso la Madonna. Venerdì 31 maggio chiese al suo superiore l’obbedienza di morire, e ricevette l’assenso solo alla terza richiesta, restando luminoso nel suo dolce sorriso e nell’ultimo fil di voce: “Sia per l’amor di Dio” che mormorò, chinando il capo.

 

UNA BELLISSIMA ICONA

DELLA MINORITÀ

 

Felice da Nicosia è un dono dello Spirito alla Chiesa. Ma lo è in modo particolare all’ordine dei cappuccini, come rileva molto bene fr. Corriveau. «Fratelli carissimi – commenta – quella di Felice da Nicosia non è una bellissima icona della minorità? Le sue virtù e gli eventi della sua vita hanno cercato di cancellare, di far sparire la sua presenza. Una poverissima famiglia, che stentava a procacciarsi di che vivere, un umile lavoro, una vocazione faticosa, una continua crudele umiliazione da parte del suo confessore e direttore spirituale, una celletta disadorna, abbandonata dopo le soppressioni del 1866 e poi distrutta in un crollo del convento trasformato in penitenziario; e infine, in tempi più recenti, anche un doloroso rogo avvenuto a Mistretta, che tentò di distruggere i resti mortali. Ma questo fulgore della minorità risalta di più ora che la Chiesa l’ha innalzato con l’aureola di santo.

La Regola, al capitolo VI, ci dice che dobbiamo servire il Signore in povertà e umiltà. Le nostre costituzioni ci esortano a non essere “dei falsi minori, ma veramente tali nel cuore, nelle parole e nelle opere” (n. 33, 2). Il VI CPO ricorda che “i cappuccini hanno posto in maggiore evidenza l’austera semplicità nel modo di vivere la povertà e la vicinanza al popolo nel praticare la minorità” (n. 5) e ha dato molte indicazioni per rivivere l’esempio dei nostri santi. Il VII CPO ha approfondito questo aspetto della minorità quale “essenziale caratteristica dei frati minori cappuccini non solo come individui, ma anche come istituzione” (n. 3). Che dobbiamo fare?

Forse alcune ferite nel cuore dell’uomo moderno, e quindi anche del nostro, assediano la nostra libertà interiore e la nostra capacità di raggiungere un’opzione esistenziale. Que­ste ferite sono:

1) un collettivo collasso di memoria dove i racconti della fede sono diventati un linguaggio estraneo o perduto e c’è uno sradicamento di ogni tradizione di senso;

2) una seconda ferita è il senso di appartenenza, cioè una mancanza di radici e quindi un grave indebolimento di quella base naturale della fede che è la comunità e che dipende più dagli affetti che dal pensiero con la conseguenza di uno sfrenato individualismo, come ha ricordato recentemente il Santo Padre Benedetto XVI. Per questo oggi si cerca di ricuperare la ricchezza umana della fede, vista non tanto come un assenso intellettuale alla verità, ma come una avventura interpersonale con Dio in Cristo, attraverso la testimonianza della comunità viva che è la Chiesa e nutrita di preghiera personale che libera le energie da investire nel servizio dei fratelli;

3) la terza ferita riguarda l’immaginazione religiosa, una vera crisi di sensibilità, che non è solo incapacità di credere certe verità riguardo a Dio che i nostri antenati credevano, ma nell’incapacità di sentire nei confronti di Dio e dell’uomo come essi sentivano. Quest’ultima crisi è la più radicale e la più pericolosa.

In altre parole è una mancanza di amore attivo e passivo. Non c’è il respiro d’amore, quel “Sia per amor di Dio” di san Felice da Nicosia. Un amore che nasce perché mi sento amato, perché riconosco un amore che mi abbraccia molto prima che io possa dare una risposta. Il razionalismo, la cultura libresca, l’edonismo individualista, il qui e subito, l’usa e getta, possono impedire i pensieri e sentimenti di Cristo in noi. Non riusciamo più a meditare, a fermarci nella meditazione, a commuoverci, a sentire nel cuore, e quindi a innamorarci di lui, a vederlo vivo accanto, anzi dentro, in noi, come motore della nostra azione... Hai nascosto queste cose ai saggi del mondo, a chi si crede saggio... Se non diventerete come piccoli, non entrerete... è questa la porta stretta, solo i piccoli vi entrano... La fede è la conoscenza nata dall’amore... Non voglio conoscerti se non per amarti, come dicevano le nostre antiche costituzioni. La fede è un evento nel quale dobbiamo entrare e lasciarci coinvolgere drammaticamente. Noi crediamo perché amiamo... Minori e sudditi a tutti... minorità, povertà-umiltà, il bambino è il più povero di tutti perché incapace di tutto, ma è il più amato, portato, accompagnato, seguito, vestito, nutrito ecc. Questa minorità fiorisce nel profumo dell’amore che è obbedienza, disponibilità, distacco, umiltà e dimenticanza di sé, povertà profonda...

I nostri santi, come san Felice da Nicosia, non hanno fatto altro che praticare in modo sublime i valori e i toni profondi della nostra tradizione spirituale, dimostrando nello stesso tempo una varietà di toni e colori di santità che ancora oggi rapisce… Non so concludere questa mia lettera se non ripetendo a voi, anzi esortandovi a ripetere insieme con lui, in un coro internazionale: “Sia per amor di Dio”».