USMI E CISM DEL TRIVENETO A CONVEGNO
LE SFIDE DEL NORD EST
Problematica
situazione socio-religiosa, soprattutto giovanile. Alcune risposte alle tante
sfide pastorali. Il peso delle grandi opere. Chiesa locale e vita consacrata
alla ricerca di una nuova identità. Autentiche comunità cristiane prima che
religiose.
Non succede spesso di imbattersi in nutrite assemblee di
religiosi e di religiose per riflettere insieme sul rapporto tra Chiesa locale
e vita consacrata, come è avvenuto il 22 ottobre u.s., a Monselice (Padova) in
occasione dell’assemblea congiunta della Cism e dell’Usmi del Triveneto. È
stata una mattinata densissima, anche troppo, aperta dal saluto del vescovo di
Belluno-Feltre, mons. Giuseppe Andrich, delegato della conferenza episcopale
della regione per la vita consacrata. Non ha detto molte cose, ma ha
sottolineato opportunamente il tema della spiritualità evangelica, nel senso
forte del termine, un tema che non solo è stato poi ripreso e sviluppato dai
relatori, ma che soprattutto è al centro della più ampia riflessione odierna sul
tema generale della vita consacrata. A tutti ha augurato di vivere questo
incontro di formazione permanente non solo come un processo pedagogico, ma
soprattutto come luogo teologico, nella piena assunzione di una responsabilità
condivisa in ordine alle risposte da dare alle sfide del nostro tempo.
Ogni luogo teologico, però, si incarna in un preciso
luogo geografico e storico-culturale. Nel caso specifico, era in gioco il nord
est d’Italia. Ma, com’era facile prevedere, la ricerca di un nuovo rapporto tra
chiesa locale e vita consacrata (p.
LA “ZONA BIANCA”
È FINITA
L’unico relatore che ha sviluppato a fondo il rapporto
tra chiesa locale e vita consacrata è stato p.
La massima dichiarazione di lontananza dalla Chiesa,
anche nel Triveneto, si riscontra da parte dei giovani. Pastoralmente
costituiscono un problema “colossale”. Non lasciamoci illudere dai mega raduni.
Sono funzionali alla spettacolarizzazione inseguita dai mass media. Ma la
realtà concreta, sul piano religioso ed etico, del pianeta giovani è molto più
problematica. Non basta guardare ai giovani. Bisogna alzare il velo anche sullo
stile di vita dei loro genitori. Sono ben noti gli sforzi sempre più ingenti
della pastorale giovanile. Ma se sta fallendo un po’ da tutte le parti,
potrebbe anche significare che è seriamente in crisi anche tutta una
trasmissione catechistica e di formazione cristiana di queste generazioni.
Anche le religiose, ha osservato tra l’altro madre
Simionato, presidente dell’Usmi, nel suo intervento sulle risposte della vita
consacrata alle sfide del nord est, non possono sentirsi estranee al processo
di trasmissione della fede. È un problema che va affrontato con strumenti nuovi
e con intelligenza. Da un sistema di vita garantito dalle strutture e dalla
solidità organizzativa propria della vita consacrata del passato, le religiose
sono chiamate oggi a dar vita a organismi vivi, nei quali sia possibile
esperimentare che «la relazione fondante con Cristo e la dimensione comunitaria
della missione generano vita nuova nelle persone e nella società». Quanti
giovani, apparentemente così lontani dalla vita consacrata, in realtà
potrebbero trovare proprio nei consacrati delle guide per un nuovo cammino alla
scuola del vangelo. E ciò che è vero per i giovani, non lo è da meno per le
famiglie, per tutti.
Purtroppo, però, ha detto Biscontin, nella grande
maggioranza delle famiglie, comprese quelle con genitori credenti e praticanti,
oggi avviene sempre meno la trasmissione dell’esperienza della fede. Si sono
fatti sforzi enormi per riorganizzare la catechesi nelle parrocchie, convinti che
bastasse per risolvere il problema della iniziazione cristiana. «La voragine
che si crea a causa della mancata trasmissione dell’esperienza di fede in
famiglia, molto difficilmente può essere supplita da attività pastorali nel
centro parrocchiale, per quanto intense esse siano». Si sta via via
estinguendo, anzi dissanguando la tradizione cristiana, quel «miracolo della
presenza vivente di Gesù risorto nel tessuto di una comunità, che, impregnata
della sua grazia, ne costituisce il corpo vivente percepibile».
VERI
CRISTIANI
Volendo allora far fronte seriamente alle tante sfide
pastorali che ci stanno di fronte, Biscontin ha suggerito quattro percorsi fra
loro strettamente correlati: una appropriazione personale delle fondamentali
verità della fede cristiana, un comportamento personale coerente con la fede
professata, uno stretto legame di appartenenza alla comunità cristiana nella
piena consapevolezza della sua identità, un’apertura all’esperienza
dell’incontro personale con il Cristo. Senza questo incontro non c’è
conversione cristiana vera e propria. Senza questa relazione personale e viva,
anche l’adesione alla dottrina della fede, l’osservanza dei precetti morali e
la partecipazione alla ritualità della comunità «perdono la loro anima e loro
senso propriamente cristiano».
Tutto questo è importante non solo per i “buoni
cristiani” ma anche per i consacrati. Ha forse sorpreso più di un convegnista
la conclusione di p. Gardin nel suo intervento sul nuovo rapporto tra chiesa
locale e vita consacrata. «Io credo, ha detto, che abbiamo bisogno di rimettere
al primo posto delle nostre preoccupazioni di consacrati l’ansia di essere veri
cristiani. Questo non suoni scontato o addirittura ridicolo». Questa
affermazione è giunta al termine di un percorso articolato dal relatore in tre
tappe: da dove veniamo, che cosa è cambiato e sta cambiando, verso dove andare.
Veniamo da un contesto ecclesiale in cui lo stesso
termine Chiesa locale era assente. La vita consacrata aveva una sua relativa
libertà di movimento, grazie anche alla “esenzione” di cui godevano soprattutto
gli ordini e gli istituti religiosi maschili. Schematizzando il discorso si
potrebbe forse dire che mentre il clero diocesano aveva come punto di
riferimento il proprio vescovo, i religiosi guardavano direttamente al papa.
Tutte le loro opere educative, sociali, caritative, pastorali, ecc., non
costituivano, certo, una zona franca rispetto all’autorità del vescovo. La
gestione di queste opere, però, era abbastanza autonoma, avendo come punto di
riferimento soprattutto i propri superiori maggiori. Inevitabile, allora, anche
un certo palpabile antagonismo. Se i preti diocesani tendevano a considerare i
religiosi come falsi poveri, potenti, invadenti, dal canto loro i religiosi
qualificavano facilmente i sacerdoti diocesani come incapaci di comprendere la
vita consacrata, autoritari e accentratori, preoccupati quasi esclusivamente
dei propri seminari. In un contesto in cui la visione sia della chiesa locale
che della vita consacrata aveva una specifica e prevalente connotazione
giuridica, era facile, sia da una parte che dall’altra, andare soggetti a
precomprensioni e a pregiudizi veri e propri, anche se, a volte, «sembrano
avere degli strascichi anche nel presente».
Con il concilio, comunque, le cose sono notevolmente
cambiate. Sia da parte della chiesa locale che della vita consacrata è andata
maturando la netta presa di coscienza di una propria nuova identità. Forse più
da parte della prima che non della seconda. La Chiesa locale, infatti, è andata
assumendo, insieme a quello giuridico, anche un nuovo spessore teologico ed
esperienziale. Anche se già nell’immediato post-concilio padre Tillard invitava
i consacrati a “sapersi parte della diocesi”, a partecipare con la propria vita
e il proprio progetto apostolico alla missione universale della Chiesa, «a me
pare, però, ha osservato Gardin, che la vita consacrata si sia trovata
piuttosto impreparata di fronte a questo mutamento, e vi abbia colto delle
richieste non facili da introdurre nella sua prassi».
Per quanto sia sempre difficile abbandonare certe
mentalità, certi stili di vita, certi modi di essere, non necessariamente
dovuti alla indolenza o alla insensibilità dei religiosi, è comunque fuor di
dubbio che «con il concilio e dopo il concilio, anche la vita consacrata ha
riscoperto se stessa, assumendo una nuova presa di coscienza della sua
identità». Il complesso e ricco percorso della vita consacrata dal concilio ad
oggi lo sta a testimoniare. Anche i consacrati, infatti, sono andati sempre più
scoprendo il valore della Chiesa locale «come spazio concreto della loro vita e
della loro missione». Nello stesso tempo, va anche riconosciuto come la Chiesa
locale, da parte sua, abbia imparato e stia imparando «a conoscere la natura
della vita consacrata, superando una visione strumentale di essa».
CRITICA
PROFETICA
A fronte dei passi positivi compiuti, non mancano, però,
alcuni preoccupanti problemi che non vanno sottaciuti. «Credo che si debba
riconoscere che non raramente persistono delle fatiche sia da una parte che
dall’altra: la vita consacrata stenta talora a riconoscere il giusto peso che
deve avere per i religiosi l’essere parte di una chiesa locale. La Chiesa
locale (in particolare nella figura del vescovo e nel clero diocesano) stenta a
conoscere e riconoscere il valore peculiare della vita consacrata». Scendendo
ancora su un piano più concreto, da una parte è facile sentire il clero
diocesano e i vescovi lamentarsi del fatto che i religiosi «agiscono con
eccessiva autonomia, non si curano dei progetti pastorali della Chiesa locale,
ignorano la funzione del vescovo come pastore di tutti membri della diocesi»,
mentre dall’altra sono i religiosi a lamentare il fatto che il clero ha una
concezione solo funzionale della vita consacrata, per cui i religiosi «sono
riconosciuti solo per quello che fanno (purché si collochi dentro gli schemi
diocesani) e non per quello che sono».
In sostanza le nuove prese di coscienza postconciliari,
sia da una parte che dall’altra «non trovano sempre facilmente una loro
armonizzazione reale, al di là di quello che si afferma in documenti ecclesiali
a vario livello».
Le difficoltà, però, a interagire armonicamente non vanno
esagerate. Spesso possono essere realisticamente comprensibili. Ciò non toglie
che «noi consacrati abbiamo bisogno di pensarci più concretamente dentro lo
spazio concreto della chiesa locale. È qui che noi siamo chiamati a vivere, a
testimoniare, a operare: non in una sovradiocesanità astratta e asettica». Ma,
insieme, va anche detto con chiarezza «che la nostra dimensione sovradiocesana
non rappresenta necessariamente né una fuga né una orgogliosa indifferenza
rispetto alla chiesa locale, come qualcuno sembra temere».
Senza colpevolizzarsi più del dovuto, non dovrebbe mai
mancare però anche una sana autocritica. Come mai, la Chiesa locale non
percepisce la valenza apostolica di quel segno fortissimo che dovrebbe essere
la vita fraterna delle comunità religiose? Dove sono, si chiedeva ancora vari
anni fa il teologo Metz, gli effetti d’urto degli istituti religiosi
all’interno della Chiesa? Dove è finita la critica profetica che, in forza
della loro particolare esistenza nella sequela, «non solo hanno il diritto, ma
anche il dovere di avanzare?».
I passi compiuti e anche questi interrogativi ancora in
attesa, spesso, di risposta, aprono già delle prospettive per il futuro.
Gardin ne ha ricordate due. Anzitutto quella di essere realmente, e non solo a
parole, degli “esperti di comunione”. Non è più possibile oggi «isolarci
dentro la Chiesa locale». È sempre più urgente conoscere e farsi conoscere, comunicare,
condividere, unire le forze in nome della missione, attualizzare il proprio
carisma come risposta alle esigenze della chiesa locale, in un contesto, per
altro, in cui «la comunità cristiana sta prendendo sempre più coscienza di
essere minoranza nella società».
In tal senso, inoltre, anche i consacrati, insieme a
tutti gli altri battezzati, dovrebbero nutrire l’ansia di essere veri
cristiani. È questo il contributo fondamentale che, prima ancora della ricchezza
del proprio carisma, prima ancora di ogni pur lodevole attività apostolica, i
consacrati possono dare alla chiesa locale. Le comunità religiose, ha concluso
Gardin, devono preoccuparsi di essere “vere comunità cristiane”, dove non si
lascia nulla di intentato per collocare realmente Dio al centro della propria
vita.
A.A.