VC E INTERROGATIVI DALLA BASE
“DATECI DEL VOSTRO OLIO…”
Oggi per la
maggioranza degli istituti storici è necessaria una coraggiosa, creativa
immersione nella crisi, piuttosto che costituirsi saltuariamente come organo
normativo, «normalizzante». Servono nuovi tavoli in cui la preoccupazione non
sia di riaggiustare ciò che non può più essere riaggiustato, dove la preoccupazione
carismatica sia più forte di quella istituzionale.
Quanti pensavano che l’«olio» di ieri bastasse per
sempre, oggi si trovano nella stessa precaria situazione delle «vergini
imprudenti che corrono ai ripari quando è ormai troppo tardi: Non vi conosco!»
è la risposta che si sentono dire coloro «che assopiti nella notte della
tradizione non sono pronti per il veniente». Questo è quanto scrive un monaco
maestro dei novizi.1 Prendo da qui lo spunto per dire, a modo di intervista,
quanto sotto forma di domanda esprimono un buon numero di religiosi/e.
Sento spesso dire che la VR è arrivata a questo punto di
difficoltà perché i religiosi/e non sono sufficientemente spirituali…mentre a
tutt’oggi nella varie comunità in cui ho vissuto mi sono incontrata con la
maggior parte delle sorelle veramente donate a Dio.
Sono i religiosi/e che sono diventati poco spirituali
(cosa pur possibile) oppure è la spiritualità della vita religiosa che non è
«spiritualmente» a misura di un mondo che è cambiato?
Nel corso di 20 secoli si sono evidenziate molte
sfaccettature della spiritualità cristiana. Hanno avuto molta considerazione la
spiritualità del deserto, la spiritualità della croce, la spiritualità
dell’apostolato, ma la spiritualità dell’incarnazione – dice il biblista Piero
Rattin – è stata pressoché misconosciuta. In Ripartire da Cristo si dice: «La
società odierna attende di vedere in loro (consacrati/e) il riflesso concreto
dell’agire di Cristo, del suo amore per ogni persona, senza distinzioni e
aggettivi qualificanti» (2). Di quale Gesù si parla? Quel Gesù la cui missione
è consistita nel condividere la vita di tutti e questo è stato il modo di
essere Messia che è piaciuto al Padre. Il progetto di salvezza ha posto Dio
sulla strada della solidarietà con tutti gli uomini. Strada non lastricata di
segni sacri o religiosi, ma «profana», esattamente come per la maggior parte
degli uomini e delle donne di questo mondo. Ecco un contrassegno tipico del
mistero dell’incarnazione: è proprio la «profanità» che non è contrapposta a
soprannaturalità o divinità. È stata questa, non la sacralità a caratterizzare
l’avventura terrena del figlio di Dio. Cosa c’è di più «profano» di Dio che
nasce in una stalla, in un ambiente di pastori? E poi carpentiere, anziché
rabbino? La morte stessa è stata quella di un profano: fuori della città santa,
con la morte dei reietti. Mentre gli osservanti in quella Parasceve si
trovavano dentro i confini del sacro, Dio, nel suo figlio, era fuori da quello
spazio. Era da tutt’altra parte. Quando poi finalmente giunse per Gesù il momento
di rivelarsi per quello che era, scelse come cattedra la Galilea non
Gerusalemme. La Galilea era lontana dal tempio, dai dottori della legge. Era
fatta di gente per la gran parte povera, in senso economico ma anche religioso.
Gente che si chiedeva: che c’entra Dio con la vita dura di ogni giorno? Con il
lavoro, con gli affari, con le stesse tasse da pagare, con l’esistenza da
mandare avanti? Qui Gesù annuncia: «Il regno dei cieli è vicino» (Mt 4,17),
cioè qui, ora, per voi.2 Nella società giudaica del suo tempo – scrive il
biblista G. Barbaglio – Gesù è stato un laico. Nella sua incarnazione il Figlio
di Dio non ha affatto assunto i connotati di una personalità sacrale – come un
sacerdote, ad esempio – ma quelli di un «laico», e come tale si è comportato.3
Se Gesù è stato un laico, nulla di strano che si possa e
si debba parlare di laicità anche in riferimento ai suoi discepoli. La vita
consacrata stessa è una realtà laicale, nasce tra i laici, sulla base del
battesimo, aperta alle sollecitazioni che provengono dal mondo: (lavoro,
sanità, povertà, scuola, assistenza). Si pone dalla parte della gente con una
missione che è dell’ordine della rivelazione, segno che provoca a ripensarsi
continuamente alla luce del Vangelo. Una riduzione della componente di laicità
al solo laicato non è accettabile, nota Bruno Forte: è tutta la Chiesa che deve
confrontarsi con il mondo, lasciandosi segnare da esso nel suo essere e nel suo
agire. Non c’è un ambito sacro di cui si occuperebbero il clero e i religiosi/e
e un ambito profano di cui si occuperebbero i laici.
La vita consacrata allora necessita di una nuova
spiritualità; la spiritualità dell’incarnazione. Anche in questo settore la VC
è in ritardo, frenata e bloccata da diversi ostacoli e impedimenti. Alcuni
provengono dai religiosi/e stessi, figli della spiritualità concepita come fuga
mundi. A questo punto il problema è di formazione: «si tratta di motivare un
cammino che è nello stesso tempo psicologico e teologico, razionale e spirituale,
senza cedere alla logica dell’ideale supremo, del dovere per il dovere o di
quella perfezione disincarnata o destoricizzata tipica di chi non ha ancora
imparato a leggere la storia come luogo della presenza di Dio e della
possibilità d’incontrarlo».4
Sento in aumento le voci di chi, per uscire dalla
situazione attuale, non scommette più sui grandi momenti istituzionali (ad es.
i capitoli). Quali possono essere i motivi?
La svolta radicale – diceva Schillebeeckx – è
l’affermazione risoluta del primato del futuro sul passato (e quindi sulla
tradizione). Con altre espressioni potremmo dire che non è possibile
legittimare il nuovo facendo riferimento alla storia e identità (eccetto quella
carismatica) delle origini, ma si tratta di integrare in quell’identità ciò che
non è mai esistito.
Questo fatto immette in una situazione critica. Il
termine crisi – e qui è il problema – viene percepito inconsciamente come
iattura piuttosto che come opportunità esprimibile nella domanda: e se fosse la
Provvidenza che ci porta a questa specie di vicolo cieco per una nuova
proposta? In fondo se noi siamo cristiani è grazie alla crisi avvenuta alla
morte di Stefano, quando le autorità palestinesi decisero di allontanare dalla
comunità di Gerusalemme tutti gli ellenisti i quali si spinsero nella Fenicia,
a Cipro e soprattutto ad Antiochia la cui comunità è diventata prototipo di
missionarietà per la sua capacità di essere “crisi” nei confronti della casa
madre di Gerusalemme, rifiutando di questa tutto ciò che non era essenziale.
Dobbiamo accettare di essere smentiti nel considerare ideale (al di là delle
quattro perseveranze) la comunità di Gerusalemme, perché ha posto qualche
resistenza allo Spirito Santo. Lo si nota nella prima accoglienza del
neoconvertito Saulo il quale pensa bene di ritornarsene a Tarso e poi
l’accoglienza di Pietro di ritorno da Ioppe e da Cesarea, che deve
giustificarsi di fronte alla comunità. Altra chiusura e rifiuto pregiudiziale
si ha, anche, più tardi al concilio di Gerusalemme.
Dunque non basta guardare alla comunità di Gerusalemme,
come sembrano fare la maggior parte dei documenti, per operare un confronto con
la tradizione delle origini; occorre andare oltre i primi cinque capitoli degli
Atti. Rimane vero che allo Spirito Santo si addice più l’impazienza che
l’immobilità,5 più la crisi che la routine, per cui ancora oggi ci vorrebbe che
lui irrompesse come a Cesarea, interrompesse le prediche, come avvenne per
Pietro e riempisse i cuori e le menti degli ascoltatori. Lo Spirito – qui si
colloca l’ottimismo – trova comunque le vie all’apertura aldilà del conosciuto;
vie che a volte sono situazioni problematiche a prima vista, tutt’altro che
scelte di organi istituzionali o volute dalla comunità nel suo insieme. Allora
credo che per la maggior parte degli istituti storici sia necessaria una
coraggiosa, creativa immersione nella crisi, piuttosto che costituirsi
saltuariamente come organo normativo, «normalizzante». Ma non ci sono capitoli
che decidano di far entrare in crisi un istituto e nemmeno che decidano di
costituirsi unità di crisi. Servono allora nuovi tavoli in cui la
preoccupazione non sia di riaggiustare ciò che non può più essere riaggiustato,
o in cui «per amore di concordia e di comunione trasversale e globale, la
profezia evapori in propositi generici, in slogan roboanti ma distanti dalla
realtà, come anche dalla vera cultura e dalle sensibilità religiose della gente
concreta».6 Tavoli in cui la preoccupazione carismatica sia più forte di quella
istituzionale e soprattutto aiutino a prendere coscienza che in tempi di
navigazione a vista i colpi di timone a ritmo sessennale non portano da nessuna
parte, specialmente nella società della comunicazione istantanea in cui appare
sempre più evidente che ciascuno, nella propria area culturale e territoriale è
creatore assieme agli altri, dei mondi di significato. Dunque per arrivare alla
soglia dell’inedito servono tavoli di concertazione generatori di nuova
coscienza. A tal fine servono minoranze creative – come ripetutamente dice il
papa Benedetto in riferimento alla Chiesa – ma queste, solo residualmente sono
presenti nelle sedi capitolari.
Con ciò non intendo dire che momenti assembleari alti, a
scadenza pluriennale non abbiano uno scopo. Mi spiego con un esempio. Dopo il
capitolo di un istituto chiesi a un capitolare: «Com’è andato il capitolo?»;
«Molto bene», fu la risposta». «E ora – continuai – che cosa cambierà?»;
«Niente o quasi», aggiunse. Mi pare che l’asserzione positiva vada innanzitutto
a indicare la necessità di incontro a valenza prevalentemente carismatica e
spirituale, insostituibile ai fini della comunione che passa attraverso il
conoscersi, il riconoscersi, il celebrare, la collaborazione, reciprocità,
mutualità, corresponsabilità; ma questa risposta viene a dire anche che questo
incontro a scadenza pluriennale non incide nel “continuo” del momento
evolutivo, oggi particolarmente accelerato, in riferimento ad aree geografiche
e culture diverse, specie se si esprime attraverso deliberazioni
tendenzialmente omologanti. Ma non è soltanto questo: gli “atti” capitolari
calano su comunità in cui il rapporto giovani-anziani è di uno a nove, dunque
culturalmente dominate da persone le quali hanno speso con grande abnegazione
un’intera esistenza in opere che hanno dato loro una identità, al punto da
ritenere insignificante la vita quando queste vengono meno. Si tratta di
religiosi/e già ipertesi/e, portati a riconoscersi in ciò che sempre hanno
fatto, per cui sono controproducenti nuove imposizioni o norme, essendo
incapaci di estroversione.
C’è poi una vasta fetta di religiosi/e per i quali queste
assemblee hanno una debole forza emotiva perché, diversamente da un tempo, non
si sentono identificati nella rappresentatività giuridica. Al centro
dell’attuale cultura non c’è la delega a qualcuno perché “pensi e decida per
me”, ma l’individuo come principio e come valore, che in situazioni in cui
altri pensano, deliberano, si trova nella tentazione di prendere i propri
spazi.
BISOGNA
SCENDERE DA CAVALLO
Una frase emblematica del convegno internazionale sulla
VC è stata «scendere da cavallo per gesti di tenerezza». Cosa sta a indicare il
cavallo da cui scendere?
A modo di esempio penso voglia dire passare:
dalle precauzioni di «purità e di legalità» (parabola del
samaritano), allo «sporcarsi le mani» nel soccorrere; da maestri a
condiscepoli; dal pensarci luce sul monte al cercare di essere un pizzico di
sale nella massa; da «arrivati» a cercatori con coloro che cercano; dallo stare
in cattedra ad andare a braccetto; da esperti nel «predicare» a esperti
dell’ascoltare, domandare, dialogare, condividere; da donatori di «acqua» al
riconoscere in sé la sete che è di tutti, per poter indirizzare a colui che
ristora quella sete; dall’essere tanti e forti all’accettare la precarietà; dal
poter fare da soli ad aver bisogno di complementarietà; dalla forza della
ragione alla sapienza del cuore. E ancora quantaltro vada a dire che stando
alti in sella, non sono possibili gesti di prossimità nei confronti di chi
cammina lungo la strada della vita.
Più complessivamente, scendere da cavallo significa
riproporre l’esperienza storica della vita religiosa in forme che siano
risposta al bisogno dell’uomo d’oggi; questo è quanto suggerito da Ripartire da
Cristo n. 12: «Davanti alla progressiva crisi religiosa che investe tanta parte
della società, le persone consacrate, oggi in modo particolare, sono obbligate
a cercare nuove forme di presenza e a porsi non pochi interrogativi sul senso
della propria identità e del loro futuro».
Rino Cozza c.s.j.
1 Giuseppe Cicchi, monaco maestro dei novizi a
Camaldoli in Consacrazione e Servizio, 6, 2005.
2 Piero Rattin.
3 G. Barbaglio.
4 A. Cencini, L’albero della vita, ed. S. Paolo.
5 Piero Rattin.
6 B. Secondin in Testimoni, 12, 2005.