IN DIFESA DELLA FAMIGLIA

UN IMPEGNO A TUTTO CAMPO

 

La normativa sulle unioni di fatto è solo un tassello di un processo più ampio che riguarda il volto globale della nostra società. La norma giuridica da sola non basta, ma è necessaria per promuovere una mentalità sociale attenta ai valori della famiglia. Occorre pertanto agire a livello non solo di impegno socio-politico, ma anche di evangelizzazione.

 

Il recente clamore intorno alla normativa giuridica riguardante le unioni di fatto è una conferma eloquente di quanto la problematica familiare resti centrale, a tutti i livelli. Siamo consapevoli, come osservava la Gaudium et spes, che «il bene della persona e della società umana e cristiana è strettamente connesso con una felice situazione della comunità coniugale e familiare» (47).

La posta in gioco però va oltre le problematiche propriamente familiari e riguarda il volto complessivo della nostra società. Questa consapevolezza deve essere di stimolo a tutti per partecipare attivamente alla ricerca delle soluzioni più giuste. Sarebbe ingenuo restare alla finestra per poi lamentarsi dei passi compiuti dagli altri.

 

IL BENE COMUNE

ATTRAVERSO IL DIALOGO

 

Alla luce dell’importanza e della delicatezza delle tematiche famigliari, non può non dispiacere il tono duro di certi interventi, interessati più alle appartenenze (politiche, culturali, ideologiche…) che alla concretezza dei problemi da affrontare. Quando a prevalere è la polemica, allora anche il bene e il futuro della realtà familiare, che pure riguardano tutti e che perciò hanno bisogno del contributo di tutti, diventano motivo di scontro e di contrapposizione. E riaffiorano nostalgie ideologiche, che chiudono in posizioni decise aprioristicamente.

Dicendo questo, bisogna subito aggiungere che sarebbe farisaico scaricare la responsabilità di questo clima da corrida, che si rischia di creare intorno alla normativa familiare, solo su coloro che, opponendosi alla visione maturata dai credenti lungo la storia, la etichettano come posizione confessionale e integralista, valida solo a livello dei singoli. Vorrebbero perciò negarle il diritto di essere presente nella determinazione dei modelli sociali e giuridici.

Vale anche per queste problematiche l’amara constatazione che Gaudium et spes faceva nei riguardi dell’ateismo: «Occorre riconoscere che nella genesi dell’ateismo possono contribuire non poco i credenti, nella misura in cui, per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione ingannevole della dottrina, o anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della religione» (19).

È certamente ingenuo pensare che una norma giuridica da sola possa risolvere i problemi. Essa però è necessaria, se si vuole promuovere una mentalità sociale attenta ai valori della famiglia. In ogni caso occorre recuperare ritardi e pigrizie, a livello non solo di impegno socio-politico, ma anche di evangelizzazione, che purtroppo si riscontrano tuttora nella comunità cristiana. Solo così sarà possibile promuovere una cultura e una politica capaci di dare risposte significative a realtà che si evolvono rapidamente. Soprattutto è necessario che i credenti testimonino con maggiore chiarezza e coerenza la bellezza del vangelo della famiglia.

Tutto questo coinvolge l’intera comunità cristiana, a cominciare naturalmente dalle stesse famiglie. Il contributo dei consacrati deve essere di stimolo e di sostegno, sottolineando l’anticipo di grazia che permette la fedeltà al vangelo della famiglia e la fiducia creativa per dargli espressioni concrete e significative. Deve però anche sottolineare la necessità di conversione e rinnovamento per i modelli e gli stili di vita familiare.

In questa maniera la franchezza della proposta, evitando la contrapposizione, assumerà il volto e lo stile del dialogo e della ricerca insieme, secondo l’indicazione di Novo millennio ineunte: «Per l’efficacia della testimonianza cristiana, specie in questi ambiti delicati e controversi, è importante fare un grande sforzo per spiegare adeguatamente i motivi della posizione della Chiesa, sottolineando soprattutto che non si tratta di imporre ai non credenti una prospettiva di fede, ma di interpretare e difendere i valori radicati nella natura stessa dell’essere umano. La carità si farà allora necessariamente servizio alla cultura, alla politica, all’economia, alla famiglia, perché dappertutto vengano rispettati i principi fondamentali dai quali dipende il destino dell’essere umano e il futuro della civiltà» (51).

 

IL FUTURO

DELLA SOCIETÀ

 

Il dibattito di queste settimane pone in luce quanto ormai sia forte l’incidenza della cultura dei bisogni, interpretati individualisticamente, su tutta la nostra mentalità. Vanno lette su questo sfondo le proposte di equiparazione giuridica tra famiglia e unioni di fatto tra persone sia dello stesso sesso che di sesso diverso: si pongono come il punto di arrivo di un cammino culturale complesso che ha gradualmente svuotato di significato sociale la famiglia. Da asse portante e misura di ogni altra struttura sociale, essa viene sempre più confinata nel privato e ridotta a risposta ai bisogni affettivi delle singole persone.

Se la famiglia è solo questo, diventa chiaro che lo stato non può intervenire. O meglio, l’unico intervento sarebbe quello di fare in modo che venga rispettata la libertà individuale di rispondere ai bisogni affettivi senza danneggiare la libertà degli altri.

Nessuno nega questo fondamento e questa articolazione interpersonale e affettiva della famiglia. Non è possibile però ridurla solo a questo. Alla famiglia, infatti, sono affidati compiti che riguardano l’intera società: soprattutto le è affidata la procreazione, cioè il futuro della società. La famiglia perciò non può non essere preoccupazione di tutti. Anzi deve stare al centro dei progetti di bene comune, in maniera che vengano posti in atto forme di sostegno e di aiuto. Tutto questo pone certamente dei costi, da distribuire equamente in tutta la società; si tratta però di sacrifici che non saranno visti come pesi immotivati, dal momento che sono per il futuro della società.

È proprio questo farsi carico del futuro, cioè l’apertura ai figli, che pone differenze sostanziali tra la famiglia e tutte le altre forme di unione tese solo a realizzare una risposta ai bisogni affettivi di due persone. Affermare tali differenze non è discriminazione; sarebbe invece ingiustizia dimenticarle, ponendo tutto sullo stesso livello.

Questo non significa certo chiudere gli occhi dinanzi ai problemi presenti nelle unioni di fatto e al bisogno che lo stato dia loro delle risposte anche sul piano giuridico. Significa invece ricordare che la normativa nei loro riguardi non può dirsi giusta se mette sullo stesso livello tutte le unioni di fatto ed estende a esse le leggi e le politiche familiari.

Risorse e mezzi, frutto dei sacrifici fatti volentieri da una comunità, perché destinati alla famiglia in quanto servizio al suo futuro, non possono essere dirottati in favore di chi decide di vivere insieme con un’altra persona, lasciandosi guidare solo dai propri bisogni personali. Ancora una volta, non si tratta di discriminare o tacciare di egoismo chi opera tali scelte, ma di evidenziare che in esse mancano le prospettive specificamente familiari.

In ultima analisi, ciò che legittima la particolare protezione e cura del bene comune nei riguardi della famiglia è il servizio alla vita che essa realizza: un servizio da cui dipende il futuro della società.

 

UN’ACCOGLIENZA

UMANA ALLA VITA

 

Questa maniera di ragionare può sembrare a prima vista superata dalle possibilità che lo sviluppo della genetica e delle tecniche di procreazione assistita mette oggi a nostra disposizione. Esse permettono di generare anche senza che ci sia amore e unione tra uomo e donna. I figli possono essere solo un “prodotto” di procedimenti tecnici sempre più sofisticati.

Le ricadute culturali di una tale visione inducono sempre più a vedere il figlio come “oggetto” da gestire a proprio piacimento, dimenticando che egli è persona, da accogliere con amore, rispettandone sempre la specificità e la libertà. Devono parimenti preoccupare i rischi di trasformare il nascere umano in “affare” in balia dei più furbi.

Il bene comune di una società non può essere indifferente nei riguardi dell’accoglienza che viene data alla nuova vita. Deve anzi preoccuparsi perché sia veramente umana: chi nasce deve potersi riconoscere in un padre e una madre che sono veramente tali, a livello fisico e psicologico; contare su un affidamento e un prendersi cura incondizionati, finché non raggiunga la sua maturità; essere certo che il proprio diritto a vivere non sarà subordinato a considerazioni, più o meno egoistiche.

Oggi, più forse che nel passato, i diritti dei bambini ci stanno a cuore. Merita un plauso sincero lo sforzo fatto per enuclearli e proporli, anche se resta ancora tanto cammino da fare perché essi vengano veramente rispettati e promossi per tutti i piccoli. Il bene comune deve preoccuparsi che essi ispirino le scelte sociali e politiche. Di questi diritti, fa certamente parte quello di nascere in maniera umana, cioè di essere accolti e protetti con amore fin dai primi momenti dell’esistenza.

Si tratta di diritti fondamentali che non possono essere subordinati ai bisogni, sia affettivi sia di qualsiasi ­altro tipo, delle persone adulte. Questi biso­gni meritano certamente rispetto, ma devono riconoscere la priorità dei diritti fondamentali di chi ­nasce. Quando non lo si fa, è facile incamminarsi su una strada che, privilegiando i bisogni dei più forti, porta a giustificare anche «alcuni delitti contro la vita in nome dei diritti della libertà indi­viduale» (Evangelium vitae, 4). È una strada sulla quale poi è difficile fermarsi.

Tutto questo appartiene al bene comune di una società. Lasciarlo solo alla responsabilità dei singoli significherebbe ignorare che esistono soggetti deboli la cui libertà di scelta ha bisogno di sostegno da parte della comunità. Soprattutto, significherebbe lasciare via libera ai furbi che sanno trasformare in affare la debolez­za altrui.

Per questi motivi credo non sia corretto aggregarsi passivamente a ciò che negli altri paesi si è fatto o si fa, in nome della modernità. Non sono infatti pochi quelli che, sulla normativa riguardante le unioni di fatto, vorrebbero troncare ogni discussione per il fatto che in altri paesi esiste già una normativa che le equipara alla famiglia. Un tale ragionamento però dice rinunzia alla libertà di pensare e di valutare, lasciandosi guidare dalla verità e dal bene. Inoltre occorre verificare sempre la correttezza delle informazioni che vengono proposte. Soprattutto non è possibile identificare il bene con ciò che statisticamente appare come più diffuso. Gli altri vanno sempre ascoltati e meritano una considerazione attenta, ma ciò che io devo fare dipende dal giudizio responsabile che io sono chiamato a compiere. E questo vale non solo a livello di scelte personali, ma anche a livello di scelte sociali. Del resto sappiamo bene quanto siano stati amari i frutti di politiche e di normative giuridiche fondate sulla omologazione passiva a ciò che gli altri già fanno.

Per i credenti poi si tratta di non privare il cammino della nostra società di quella ricca esperienza di umanità che la Chiesa ha maturato lungo i secoli alla luce della fede. Non si tratta certo di imporre agli altri tale esperienza, ma di chiedere che essa possa entrare nei processi democratici di ricerca del bene comune: rispettandone i passaggi e le modalità e testimoniando sempre rispetto e ascolto per le posizioni diverse, i credenti non possono non chiedere che un tale rispetto e ascolto vengano dati anche alle proprie proposte.

 

UN IMPEGNO

A LARGO RESPIRO

 

La normativa sulle unioni di fatto è solo un tassello di un processo più ampio che riguarda il volto globale della nostra società e il ruolo e le modalità della famiglia al suo interno. I processi storici al riguardo sono talmente profondi e rapidi che spesso si fa fatica a comprenderli.

Occorre che la comunità cristiana riscopra con maggiore chiarezza l’impegno per la famiglia: a livello culturale, sociale, politico, ecclesiale. In questo i consacrati hanno un ruolo ­importante di sensibilizzazione e di stimolo. È necessario ricordare con franchezza a tutti che, come scriveva Giovanni Paolo II nella Lettera alle famiglie, «seguendo il Cristo “venuto” al mondo “per servire” (Mt 20,28), la Chiesa considera il servizio alla ­famiglia uno dei compiti essenziali. ­­In tal senso sia l’uomo che la famiglia costituiscono la “via della Chiesa”» (2).

I consacrati devono ricordare che tutto questo comincia sempre dalle famiglie più povere e deboli. Le loro attese e i loro diritti vanno posti al centro del bene comune. È stato più volte fatto notare che spesso, nel nostro paese, i grandi proclami in favore della famiglia non trovano riscontro e coerenza nelle scelte politiche e amministrative. I confronti con le politiche di sostegno alle famiglie di altri paesi invitano a riflettere. È più che mai urgente passare dalle parole e dai proclami ai fatti, se non si vuole restare imprigionati in dinamiche sempre più costringenti.

Dovrebbe farci riflettere il silenzio al quale è stata condannata, non solo nella società ma anche nella stessa comunità cristiana, la proposta della Carta dei diritti della famiglia, abbozzata nel sinodo sulla famiglia del 1980, ripresa in Familiaris consortio (46) e proposta ufficialmente dalla S. Sede nel 1983.

I diritti in essa formulati abbracciano tutta la vita familiare. Riprenderla e rimetterla nel circuito delle nostre comunità può essere la maniera migliore per affrontare costruttivamente le sfide che oggi premono su di noi.

 

Sabatino Majorano