40 ANNI DI RINNOVAMENTO DELLA VITA
CONSACRATA
MEMORIA, PRESENTE E FUTURO
È stata tracciata una panoramica del cammino percorso e ne è uscito una
specie di film in “chiaroscuro”, tra luci e ombre. Sono state descritte le
nuove basi teologiche, bibliche ed ecclesiologiche della vita consacrata e
sottolineati le costanti, i segni di novità, i ritardi e le mete di un
rinnovamento “incompiuto”.
A 40 anni dalla promulgazione del
decreto postconciliare Perfectae caritatis la Congregazione per la vita
consacrata ha promosso il 26-27 settembre scorso un simposio su questo
argomento. Scopo dell’incontro, svoltosi in Vaticano nell’aula del sinodo, era
quello di ripercorrere il cammino della vita consacrata (cf. p. 1), fare il
punto sui traguardi raggiunti, con le sue luci e ombre, e cercare di
intravedere il profilo degli orizzonti che ci stanno davanti.1
Fra i tanti relatori è stato
soprattutto il clarettiano
Iniziando il suo intervento ha voluto
precisare subito un dato importante: il cammino percorso dai consacrati in
questo quarantennio va visto come «una esperienza di grazia condivisa insieme a
tutte le componenti della Chiesa. Non è possibile, infatti, comprendere il
significato del decreto conciliare sul rinnovamento della vita consacrata
prescindendo dal cammino complessivo postconciliare di tutta la Chiesa, anche
se è vero, che, come è stato osservato da padre Cabra, l’unico documento
postconciliare in cui si parla espressamente di “rinnovamento” è proprio quello
relativo alla vita consacrata.
È un dato di fatto, ha aggiunto
Fino alla vigilia del concilio, la vita
consacrata era appesantita e caratterizzata da una forma di pensiero e di
organizzazione prevalentemente volontaristica, moraleggiante e giuridica.
Quando si è incominciato a mettere in pratica gli orientamenti del Perfectae
caritatis, «ci si è mossi con grande entusiasmo, ma non sempre con una pedagogia
adeguata e proporzionata alle sue reali possibilità di assimilazione». Tutti
parlavano di rinnovamento, ma la sua traduzione operativa non è sempre stata
rettilinea, uniforme e propositiva. Alcuni sono rimasti in attesa, altri hanno
sofferto di nostalgia, altri si sono lasciati facilmente andare a forme di
fondamentalismo, altri infine, inerpicandosi per sentieri impossibili, hanno
perso di vista la strada. La grande maggioranza, però, sia pure con ritmi
diversi, si è seriamente impegnata nel seguire gli orientamenti conciliari,
perseguendo «una vita più evangelica e più sintonizzata sulle urgenze degli
uomini del nostro tempo e di ogni luogo».
UN PERCORSO
A OSTACOLI
Ripercorrendo questo lungo cammino è
immediata la percezione di passare, come in un film in chiaroscuro, tra “luci e
ombre”. Anche se ad ogni nota positiva è facile contrapporne una negativa, si è
visto, però, emergere via via un nuovo volto di Chiesa e di vita consacrata. Lo
testimonia «la moltitudine di martiri e di santi di tanti nostri istituti,
canonizzati e non. Lo testimonia la fondazione di nuovi istituti suscitati
dallo Spirito Santo, tutti «segni inequivocabili che la vita consacrata è una
realtà carismatica viva e valida per i nostri tempi».
Certo, non sono mancate difficoltà,
conflitti e sofferenze. Come la Chiesa nel suo complesso, anche la vita
consacrata non poteva non essere coinvolta, a tutti i livelli, nelle
trasformazioni culturali e sociali del nostro tempo. «Ha sperimentato la realtà
della democrazia, del potere mediatico, della fragilità dell’individuo, della
“rete” come nuova forma di organizzazione, del trionfo della velocità, della
rivoluzione digitale e della rivoluzione biologica». Si è trovata ad affrontare
grossi eventi come il ‘68, il secolarismo, la teologia della morte di Dio, il
pensiero postmoderno, il neopositivismo, il post-strutturalismo e una infinità
di correnti relativiste e sincretiste.
Non è stata solo la vita consacrata a
trovarsi privata delle sue sicurezze, delle sue ferme convinzioni. Anche ogni
essere umano in quanto tale si è trovato nell’insicurezza, nella incertezza,
senza sapere a volte a che cosa aggrapparsi. La domanda sulla propria identità,
così frequente nei primi anni del postconcilio, sia pure con molte varianti, si
è sempre riproposta fino ai nostri giorni. Per quanto contrappuntato da luci e
ombre, questo cammino è sempre stato, però, un percorso di purificazione e di
fecondità.
Proprio mentre venivano messi in
discussione tanti modi di pensare e di agire, si prospettavano insieme anche «grandi
opportunità per riaffermare la propria fedeltà al Signore della storia». Sono
stati aperti nuovi orizzonti anche «quando la penombra sembrava volesse
spegnere ogni luce e soffocare ogni speranza». È questo il motivo per cui
«quando parliamo di cammino, intendiamo esprimere una convinzione, e cioè che
il rinnovamento è fedeltà dinamica e creativa».
Senza il primato dello Spirito Santo,
però, tutti i progetti personali e comunitari di vita, tutte le nuove
costituzioni, tutte le risoluzioni capitolari non avrebbero alcun valore. I
tanti impegni apostolici dei consacrati non sarebbero nient’altro che servizi
sociali. Il protagonista di ogni autentico rinnovamento, infatti, non può non
essere lo Spirito Santo. È lui, infatti, che suscita nella Chiesa i fondatori e
le fondatrici per rispondere alle sfide dei tempi. È sempre lo Spirito Santo in
quanto luce e vita, dono e amore, che «vivifica tutte le mediazioni, le
trasforma e le rinvigorisce con la trasparenza del vangelo».
Grazie a lui è possibile condividere il
mistero della Chiesa in quanto comunione di carismi e ministeri, capire ed
accogliere la missione dei pastori e condividere i doni con le altre vocazioni
nel popolo di Dio. «Lo Spirito ci fa entrare in relazione col mondo
contemporaneo attraverso il dono della vocazione specifica che ci concede.
Provoca la nostra apertura e la nostra sensibilità, sostiene la profezia e
stimola in noi l’impegno per la trasformazione del mondo secondo i disegni di
Dio».
È anche vero, però, «che non sempre
siamo stati attenti alla voce dello Spirito. Lo riconosciamo e, nel nostro
riconoscimento, diamo gloria a Dio perché, se la vita consacrata continua a
essere viva, come di fatto è, lo si deve unicamente al fatto che la
misericordia di Dio è più grande delle nostre miserie».
Non è facile però convincersi di un
fatto, e cioè che «l’aspetto più oscuro del rinnovamento non sta tanto in
quello che abbiamo fatto in modo imperfetto, quanto piuttosto nel non saper
lasciar trasparire e nel non promuovere la bellezza del dono che ci è stato
accordato. Non riusciamo a essere segni attraenti».
Perché negarlo? Anche gli istituti di
vita consacrata «hanno conosciuto e sofferto tentazioni, situazioni di
ambiguità e cadute lungo il proprio cammino». Non per nulla Giovanni Paolo II
ha parlato esplicitamente di certe tentazioni presenti anche nella vita
consacrata. È il caso, ad esempio, di una certa “tiepidezza religiosa”, delle
troppe concessioni al secolarismo, della febbre del fare e dell’attivismo. La
spinta al cambiamento ha portato spesso alla confusione, alla fuga davanti alla
complessità delle situazioni, da una parte, o alla eccessiva semplificazione
dei propri impegni, dall’altra. Ma la cosa più grave, forse, «è quella di
esserci astenuti troppo a lungo dall’esercizio della profezia».
Tentazioni ancora più sottili e
ingannevoli sono state quelle del neognosticismo, del volontarismo,
dell’autorealizzazione e della libertà personale senza limiti. Quante volte si
è arrivati a credere che bastasse pronunciare certe parole nuove per
convincersi illusoriamente di vivere quello che significavano.
«So benissimo, osserva
ALCUNE
LINEE DI FORZA
Non è difficile convenire con il
relatore quando afferma che i tre perni centrali attorno ai quali è girato
tutto il processo del rinnovamento non solo della vita consacrata ma di tutta
la Chiesa di questi ultimi decenni sono stati quelli dell’identità, della
comunione e della missione. Mistero, comunione e missione, infatti, «sono i
grandi nuclei dell’ecclesiologia di comunione del Vaticano II». È questa la
prospettiva all’interno della quale si deve costantemente guardare la vita
consacrata. Non si può comprendere a fondo il significato dell’esortazione Vita
consecrata, prescindendo dalle altre esortazioni postsinodali Christifideles
laici, Pastores dabo vobis, Pastores gregis. Tutte sono pensate e scritte a
partire da questi nuclei fondamentali.
È stato possibile comprendere più a
fondo la realtà della vita consacrata quando «è stata proiettata e la si è
contemplata nel mistero trinitario, nella centralità della persona di Gesù, nel
mistero della Chiesa, nella presenza di Maria e nella sua missione nel mondo».
Tutto questo è stato possibile grazie anche a un più attento ascolto della
Parola di Dio, a un più profondo discernimento, proprio a partire da questa
Parola, degli avvenimenti, alla centralità della vita comunitaria, dell’Eucaristia,
della liturgia delle ore e a una riscoperta della spiritualità delle proprie
origini.
La vita consacrata è in qualche modo
rinata quando «si è andata radicando nei fondamenti biblici e nella tradizione
patristica, quando ha incominciato a studiare e a discernere le proprie origini
anche alla luce dei condizionamenti storici, quando ha dato importanza alla
persona e agli apporti delle scienze umane, quando ha riconosciuto il valore
delle differenze e ha prestato attenzione ai contesti sociali e culturali,
quando si è più profondamente coinvolta nel suo impegno con gli “ultimi” della
società».
Queste costanti che sono state e
continuano ad essere vere linee propulsive, vanno ben oltre i singoli carismi e
le situazioni dei singoli istituti. Sono ormai presenti ovunque, sia che si
tratti di voti, di vita comunitaria, di impegno apostolico, di formazione o di
governo. Ma proprio per questo stupisce il fatto di quanti non riescono ancora
oggi a individuare il punto di partenza nel definire il proprium della vita
consacrata. Fino a quando non si comprende che entrano in gioco tutte le chiavi
interpretative cristologiche, ecclesiologiche, carismatiche e sacramentali, non
si va lontano nel rinnovamento della vita consacrata.
Il discorso di queste costanti può e dev’essere
integrato anche da alcuni dinamismi più specifici della vita consacrata. Primo,
fra tutti, quello della conversione e della vita teologale, senza il quale
tutto può ridursi a pura strategia umana o a puro adattamento. Attraverso la
conversione si arriva alla vigilanza e al combattimento spirituale di fronte
alle insidie del male. La vita teologale poi «facilita nel consacrato la sua
trasformazione da parte di Cristo perché possa vivere in povertà, castità e
obbedienza, dando così risposta alle naturali tendenze umane sempre in agguato
nelle tentazioni del potere, dell’avere e del volere». Fortunatamente non sono
mai mancate nella vita consacrata voci profetiche capaci di stimolare la
tensione e l’apertura verso la propria conversione. Queste voci, sorte
all’interno sia delle comunità che della Chiesa e, a volte, anche della società
stessa, hanno sempre ricordato ai consacrati la loro prima ragion d’essere,
vale a dire «l’impegno della testimonianza e il compito del servizio».
Non meno importanti sono poi l’analisi
della realtà, lo studio e il discernimento. La realtà sociale e quella
ecclesiale interpellano incessantemente la vita consacrata. L’atteggiamento
della ricerca e dell’analisi dei problemi è sempre stata una delle note
caratteristiche che ha accompagnato tutte le fasi del rinnovamento della vita
consacrata.
Un esempio concreto di discernimento,
ad esempio, è stato quello offerto dalla “plenaria” della congregazione dei
religiosi, nel maggio di 1978, con la pubblicazione delle delibere su quattro
grandi problemi di allora: l’opzione per i poveri e la giustizia, le attività e
le opere sociali dei religiosi, l’inserimento nel mondo del lavoro, la
partecipazione diretta nella prassi politica (cfr. “Religiosi e promozione
umana”, 1980). Non è mai venuto meno il pressante invito alla fedeltà creativa
alla propria missione e al conseguimento di tutte le competenze necessarie allo
svolgimento del proprio lavoro.
Anche il dialogo e la partecipazione
hanno enormemente favorito il rinnovamento della vita consacrata. È forse il
caso di ricordare che «il dialogo non è semplicemente un rapporto colloquiale,
bensì un atteggiamento e una capacità di ascolto, di rispetto, di attenzione
all’altro». È questo il caso del dialogo ecumenico o di quello interreligioso.
Ora, se si è insistito tanto sulla
partecipazione e sulla collaborazione «non è stato per opportunismo, né per
motivi di efficacia operativa o di comportamento etico, bensì per una esigenza
intrinseca della vocazione cristiana e della vocazione consacrata». Sicuramente
la partecipazione è stato il dinamismo più scomodo per quanti si attendono
sempre e tutto dal vertice. Questi non si rendono conto che se vogliamo
ascoltare lo Spirito, bisogna sapersi ascoltare l’un l’altro. Senza questa
capacità di dialogo è impossibile, sia a livello locale che provinciale e
generale, garantire l’unità e un futuro alla missione dei consacrati nella
Chiesa e nel mondo.
Un ultimo e importante dinamismo è
quello presente nelle tante esperienze di vita, soprattutto quelle di vita
comunitaria tra i poveri, gli emarginati o gli esclusi. La formazione
permanente stessa è sempre stata un’esperienza creativa per ogni tipo di
persone e nelle più diverse situazioni. Non sono mancate comunità nate con il
preciso intento di favorire una vita spirituale più intensa. Abbiamo assistito
anche al sorgere di esperienze missionarie di frontiera nel campo del dialogo
interreligioso e interculturale. Ma ne esistono molte altre, anche se meno
eclatanti e più silenziose, e forse, proprio per questo più capaci di favorire
la penetrazione del Vangelo, ad esempio, nel campo della ricerca, della
riflessione, della promozione della pace e della giustizia, dell’arte, della
letteratura.
SEGNI
DI NOVITÀ
Insieme a queste linee di fondo e a
questi dinamismi si sono resi sempre più evidenti alcuni segni di novità propri
della vita consacrata, ormai codificati non solo nel diritto canonico ma anche
e prima ancora nelle costituzioni dei diversi istituti religiosi. È il caso
della scoperta da parte del Vaticano II della chiamata comune di tutti i membri
del popolo di Dio alla santità e l’affermazione dell’appartenenza dei
consacrati alla vita e alla santità della Chiesa. Grazie a queste acquisizioni
è stato possibile «superare la doppia via della perfezione e porre fine, così,
alla classificazione bipolare dei chierici da una parte e dei laici
dall’altra».
Inoltre basta sfogliare sia il
Perfectae caritatis che la Gaudium et spes per constatare il passaggio dalla
fuga mundi all’inserimento nel mondo, dalla semplice giustapposizione della
vita dell’uno accanto a quella dell’altro alla riscoperta di un vero e proprio
progetto comunitario di vita. La rivalutazione della persona come soggetto di
relazione, poi, ha favorito non solo lo sviluppo integrale della persona nella
vita di comunità, ma anche una più corretta visione della reciprocità della
vita maschile e di quella femminile. Solo in questo modo si è progressivamente
pervenuti al giusto riconoscimento dell’apporto della donna consacrata nella
società, nella Chiesa e anche in riferimento alla vita consacrata maschile.
Solo una rinnovata comprensione della
Chiesa come comunione di carismi e dei ministeri e di missione «ha fatto sì che
la vita consacrata potesse entrare in una nuova dinamica di correlazione e di collaborazione».
La sua ecclesialità diventa così più esplicita e operativa sul doppio versante
della universalità e della particolarità. «È nella Chiesa particolare che si
stabiliscono le relazioni con gli altri membri della comunità cristiana: con il
pastore e con i ministri ordinati, con gli altri istituti di vita consacrata
(attraverso la collaborazione intercongregazionale) e con i laici». Il
rinnovamento ecclesiale della vita consacrata «si consolida attraverso
l’inserimento nella Chiesa particolare, la sua incorporazione effettiva nella
vita liturgica, pastorale e caritativa». Anche e soprattutto i consacrati
dovrebbero ricordare sempre che «nella Chiesa particolare si fa memoria
dell’universalità e cattolicità della Chiesa, si ampliano le relazioni con
tutte le altre Chiese, incrementando in questo modo lo spirito missionario».
Dalla comprensione della Chiesa come
comunione di carismi, la vita comunitaria dei consacrati è divenuta uno dei
segni del nostro tempo, anzi un segno profetico, di grande speranza per la
Chiesa e la società stessa. È stata proprio l’ecclesiologia di comunione a
fornire le basi «per vedere la comunità religiosa come dono e come scuola dove
si impara a essere fratelli e a essere soggetto di missione». È questo il
signum fraternitatis di cui parla Vita consecrata in riferimento sia alla
Chiesa che al mondo sempre più diviso, luoghi per eccellenza nei quali la vita
consacrata «è chiamata a esercitare un inequivocabile servizio di comunione».
Altro segno di novità è la riscoperta
del ruolo dei fondatori nel processo di rinnovamento. «Grazie a loro abbiamo
percepito la gratuità della vocazione, il senso della sequela radicale di
Cristo, il sentire con la Chiesa e il fatto di operare con lei e per lei». Sono
stati i fondatori a insegnare l’esercizio della profezia e la promozione della
giustizia. Grazie allo studio dei carismi di fondazione si è pervenuti alla
comprensione degli istituti religiosi come “comunità”, mentre precedentemente
erano sempre visti come delle “società” con specifiche e proprie finalità.
Soprattutto si è riscoperta «la comunità di persone animate da uno stesso
spirito, sempre in cammino e aperta a tutte le sfide».
La nota forse più rilevante nel
rinnovamento della vita consacrata è stata la sua nuova prospettiva missionaria.
La missione è diventata sicuramente più complessa, proprio per le diversità
etniche, linguistiche e culturali delle persone coinvolte. È impossibile oggi
scindere la missione dal dialogo, dalla “sanzione della memoria”, dalla
riconciliazione, dalla solidarietà e dalla fraternità universale. L’attività
missionaria, insieme alla denuncia dei totalitarismi, delle corruzioni
politiche, delle guerre e di ogni forma di ingiustizia, comporta anche «un
invito incessante alla conversione e alla proclamazione del Regno di Dio in
tutta la sua profondità, le sue esigenze e la sia costante proiezione
escatologica». Giustamente la Chiesa esige oggi nuovi atteggiamenti
nell’esercizio della sua missione, quali l’umiltà, il pentimento, la
riconciliazione, l’accompagnamento, tutti atteggiamenti che è possibile
conseguire attraverso le scuole, le università, i centri di salute, le opere
sociali di promozione umana, i mezzi di comunicazione.
La missione ha allargato sempre più gli
orizzonti obbligando a rivedere i propri schemi di vita e di comportamento, nel
pieno rispetto di tutte le culture, i luoghi e gli stili di vita dei
consacrati. Anche la vita consacrata è chiamata a dare una risposta convincente
alle domande di fondo della gente di oggi: da dove veniamo, dove andiamo, come
viviamo ecc. Proprio per questo «la missione è diventata progressivamente
l’asse centrale dello stile di vita, della comunità e della spiritualità»,
dando ormai per scontato il superamento, almeno sul piano teorico, di tutte le
contrapposizioni tra l’essere e il fare, tra la consacrazione e la missione.
Oggi si è sempre più convinti che «ciò che importa non è il “fare tutto”, ma il
privilegiare la nostra presenza come segni e animatori di una nuova vita».
OPZIONI
APOSTOLICHE
Se il discernimento è fondamentale nel
comprendere il senso della vita consacrata oggi, non lo è meno però in
riferimento anche alle diverse attività apostoliche dei consacrati. È un fatto
che gli istituti di vita apostolica hanno continuato a cambiare anche la loro
“geografia occupazionale”, con conseguenti ripercussioni sulla qualità della
vita evangelica, sull’efficacia apostolica, sulla trasparenza e la
testimonianza di tutta la loro vita.
Per lungo tempo si è vissuti sotto la
“sindrome del sospetto” sulla validità e sulla legittimità delle istituzioni
apostoliche. Era il periodo in cui la vita consacrata veniva valutata solo o
prevalentemente in base alla sua utilità e alla sua funzionalità sociale. Non è
sempre stato facile giustificare e legittimare il proprio servizio alla Chiesa
nelle tante istituzioni nate dal carisma dei fondatori.
Un po’ alla volta si è fatta strada
l’esigenza di verificare se, effettivamente, con quelle istituzioni si stava
operando una vera e propria evangelizzazione. Ma solo in questi ultimi tempi il
problema è andato assumendo aspetti più radicali. C’è, infatti, una domanda di
fondo a cui non si può oggi non rispondere: i consacrati, attraverso le loro
opere, non rischiano forse di trovarsi dove non dovrebbero stare e di non
trovarsi invece dove dovrebbero stare? Il rinnovamento della vita consacrata
«non passa unicamente attraverso il discernimento dei segni dei tempi, ma anche
dei luoghi», attraverso un discernimento in cui «non sono implicati solo i
consacrati, ma anche i vescovi e le comunità cristiane, perché la missione
universale della Chiesa è un problema di tutti».
Le grandi opzioni apostoliche operate
dagli istituti religiosi si possono forse ridurre sostanzialmente a tre: per i
poveri, per la missione ad gentes e per la fraternità universale. Proprio come
risposta all’opzione dei poveri, sono nate nuove forme di vita consacrata, più
direttamente inserite nella vita e nella realtà quotidiana dei poveri. Solo
progressivamente, la comunione dei beni «ha incominciato a essere vista come una
forma di solidarietà che andava molto al di là delle frontiere delle proprie
comunità o dei propri istituti». Da qui al favorire la ricerca di nuove forme
di vivere la povertà, di comprendere il lavoro come povertà, di rivedere la
povertà personale e comunitaria il passo è breve. In parole povere, «la vita
consacrata ha compreso nel postconcilio che non c’è vero rinnovamento senza
amore ai poveri e senza solidarietà con loro».
I poveri da una parte e la missione ad
gentes dall’altra, è un binomio che per lungo tempo ha camminato e continua a
camminare insieme. Nel 1968 Paolo VI ha chiesto ai religiosi europei concreti
aiuti per l’America Latina. Nel 1992 Giovanni Paolo II, a sua volta, ha chiesto
ai religiosi dell’America Latina di collaborare nella missione universale della
Chiesa a partire dalla propria povertà. Sia gli uni che gli altri hanno sempre
risposto generosamente. In questi ultimi quindici anni, poi, molti istituti
hanno scoperto una nuova ricchezza: quella di vocazioni provenienti dall’Africa
e dall’Asia, non poche delle quali si sono fatte a loro volta missionari in
paesi diversi da quelli della loro provenienza. In questo modo si sono andate
aprendo nuove strade al vangelo, si sono allargati gli orizzonti culturali e
geografici della Chiesa, assicurando una “capacità di futuro” a non pochi di
questi istituti religiosi. Sono stati soprattutto i consacrati non solo a
spostarsi da un luogo all’altro, ma più ancora ad assumere generosamente
impegni apostolici in paesi con lingue, culture, abitudini e situazioni
sociologiche e politiche diverse, testimoniando concretamente la loro piena
adesione e la loro fedeltà al mandato missionario di Cristo e della Chiesa.
Soprattutto attraverso la missione ad
gentes è stato possibile ampliare il dialogo, la comunione, la solidarietà, in
una parola, la fraternità universale. «Anche se durante tutto il processo di
rinnovamento non si è mai trascurata l’esigenza della testimonianza a cui è
chiamata la vita consacrata, alla fine del secolo scorso si sono verificate
delle situazioni che hanno favorito una maggiore consapevolezza nei religiosi
di essere segno e strumento di comunione nella Chiesa e nel mondo». La crescita
del numero di vocazioni provenienti da diverse nazioni, razze e lingue porta
con sé un nuovo problema, quello del pluricentrismo, con non poche, nuove e
problematiche ripercussioni nella vita delle comunità e degli istituti di vita
consacrata. Si tratta, infatti, di gestire la pluralità delle espressioni
concrete di vita consacrata insieme ai non pochi cambiamenti strutturali e a
nuovi modelli formativi.
UN RINNOVAMENTO
“INCOMPIUTO”
Anche se non lo dice mai espressamente,
Anche il processo dell’inculturazione è
un traguardo molto lontano dalla sua piena realizzazione. Non bastano
affrettati e superficiali adattamenti, bisogna entrare nella logica di «una
consapevole assunzione del dinamismo del mistero dell’incarnazione». Parlare di
inculturazione della vita consacrata significa incidere direttamente «sulla
conoscenza e l’accettazione del carisma, su un nuovo stile di vita, sulla
preghiera e la liturgia, sull’esercizio dell’apostolato, sull’organizzazione
comunitaria, sulla forma di governo e di amministrazione dei beni». La
formazione stessa ha un ruolo fondamentale in questo processo sia per la
conoscenza e il riconoscimento dei valori che la sorreggono, sia per il dialogo
e per la trasparenza delle motivazioni nella vita dei consacrati.
Un’altra meta ancora lontana dalla sua
piena attuazione è quella relativa alla collaborazione tra tutti i membri della
Chiesa nel campo dell’evangelizzazione. «Si continua a rinviare processi come
la reciproca conoscenza, il coordinamento e la collaborazione nell’annuncio, la
celebrazione ed il servizio della carità. Non riusciamo a fare della Chiesa la
casa e la scuola di comunione. Sono del tutto insufficienti i tentativi fatti
per rendere operative le mutue relazioni tra vescovi e superiori religiosi».
Non è possibile parlare di “missione
condivisa” senza una preventiva scelta di “vita condivisa”.
Tutti gli orientamenti postsinodali
riguardanti i laici, i sacerdoti, i consacrati, i vescovi vanno nel senso di
una piena condivisione dell’unica missione della Chiesa, una missione che
presuppone però una più convinta promozione delle “mutue relazioni” tra tutti i
membri del popolo di Dio.
«Quali che siano stati i nostri
risultati, ha scritto Althea Gibson, qualcuno ci ha sicuramente aiutato a
conseguirli». Si può dire la stessa cosa anche in riferimento alla vita
consacrata? Sicuramente, risponde
Il discorso sul rinnovamento della vita
consacrata rimane comunque sempre aperto. È sempre più frequente oggi, nei
tanti discorsi, l’accento sul numero, sull’età, sulla provenienza delle
vocazioni, sull’attuale e complessiva situazione della vita consacrata. Si può
dire che «siamo entrati nel terzo millennio con più domande che risposte». Ma
solo attraverso un’attenta memoria del cammino percorso è possibile «apprezzare
il fatto che la vita consacrata non ha mai smesso di guardare in avanti,
sapendo di poter contare su alcune convinzioni di fondo che le consentono di
guardare con speranza al futuro».
Una prima e fondamentale convinzione è
che la vita consacrata è, innanzitutto, «vita e, pertanto, dono e compito. È
dono dello Spirito alla sua Chiesa e all’umanità». Anzi, si potrebbe dire che
sia sempre più una “avventura dello Spirito”. Se i consacrati possono dire che
il futuro appartiene loro, non è certo per il loro impegno, bensì «perché è
grazia che ci previene, ci raggiunge e ci rilancia in avanti». Inoltre i
consacrati hanno ormai imparato a superare la propria insensibilità, a uscire
dalla ristrettezza del proprio angolo visuale «per ascoltare la voce del
Signore nei segni dei tempi e dei luoghi. La nostra vita acquista valore solo
nella sua dedizione per il Regno di Dio».
Come Elisabetta è stata visitata da
Maria, così anche la vita consacrata oggi si sente particolarmente premiata
dalla visita di Dio. Proprio per questo dovrebbe costantemente cantare il suo
magnificat. La visitazione è l’incontro di Maria con Elisabetta. Due madri, due
generazioni diverse, due donne che sono state benedette dall’Onnipotente,
l’unico capace di dare vita nella sterilità e nella verginità. È l’incontro
dell’antica con la nuova alleanza, il cui frutto è l’ammirazione, il
riconoscimento e la lode perché il Signore fa meraviglie soprattutto con i
poveri e con gli umili. Proprio in riferimento alla situazione attuale della
vita consacrata è importante convincesi allora che «la povertà e la fedeltà del
Signore si estendono di generazione in generazione, saltando le barriere delle
nostre categorie e andando molto al di là di tutte le previsioni umane».
Dopo quarant’anni di rinnovamento della
vita consacrata, si chiede
È proprio nella qualità e nella
intensità di relazione che è possibile intravedere uno dei punti più avanzati
nel rinnovamento della vita consacrata.
È necessario, infine, “camminare verso
l’aurora” e “frequentare il futuro”, sforzandosi sempre di più nel vedere «dove
lo Spirito vuole unire le culture e il vangelo, dove vuole suscitare nuovi stili
di vita e nuovi metodi di evangelizzazione, nell’attesa di fare un mondo nuovo
nel quale tutti si sentano realmente fratelli».
Al principio del terzo millennio sono
quanto mai attuali, proprio in riferimento alla vita consacrata, le parole di
Giobbe: «Se tu cercherai Dio e implorerai l’Onnipotente, se puro e integro tu
sei, fin d’ora veglierà su di te e ristabilirà la dimora della sua giustizia.
Piccola cosa sarà la tua condizione di prima di fronte alla grandezza che avrà
la futura» (8, 5-7).
A. A.
1 Su questo stesso argomento Testimoni
ha pubblicato nel n. 15 del 15 settembre 2005 uno Speciale a firma di p.
Piergiordano Cabra intitolato Ha avviato il rinnovamento.