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RAPPORTI VATICANO - CINA

 

Sono trascorsi ormai quasi 60 anni dalle vicende narrate nel libro di cui parla l’articolo e la situazione della Chiesa in Cina soffre tuttora delle conseguenze di una realtà politica che non accenna a risolversi, soprattutto per quanto riguarda la possibilità di stabilire rapporti diplomatici con il Vaticano. Un’ennesima prova è stata la mancata autorizzazione ai quattro vescovi cinesi – due della chiesa clandestina e due della chiesa patriottica – di partecipare al sinodo dei vescovi che si è concluso il 23 ottobre scorso. E Giovanni Paolo II aveva tante volte confidato di avere un sogno per il quale aveva tanto pregato: di poter un giorno recarsi in Cina, ma è morto senza che si avverasse.

Dei rapporti tra la Santa Sede e il governo di Pechino, dopo la scomparsa di Giovanni Paolo II, ha parlato recentemente il vescovo di Hong Kong, Joseph Zen in un editoriale pubblicato sul Sunday Examiner di Hong Kong. A suo parere, le difficoltà – superabili – nascono non tanto dalle relazioni che il Vaticano intrattiene con Taiwan, ma soprattutto dalla richiesta del governo cinese di esercitare il controllo sulla nomina dei vescovi da parte della Santa Sede. Ma, sottolinea mons. Zen, la Cina non può sperare in un cambiamento della politica vaticana finché non saranno date alla chiesa cinese precise garanzie circa la libertà di religione e finché il governo cinese non ammetterà che la designazione dei vescovi «non costituisce una interferenza negli affari cinesi», ma corrisponde a un preciso dovere pastorale del papa.

La situazione pertanto sembra a un punto morto. Anche perché, secondo mons. Zen, pare per il momento che le autorità di Pechino non abbiano grande interesse al problema.

Un moderato ottimismo si era acceso in occasione della malattia e della morte di Giovanni Paolo II per gli auguri e successivamente le condoglianze giunte a Roma da Pechino. Ma anche in quelle circostanza il governo tornava a ripetere le stesse cose per quanto riguarda un’eventuale allacciamento dei rapporti.

Primo: sciogliere i legami con Taiwan; secondo: smettere di interferire negli affari della Cina, anche per quanto riguarda la religione.

Da parte della Santa Sede sciogliere i rapporti con Taiwan, osserva mons. Zen, sarebbe certamente problematico poiché mai nel corso della storia lha compiuto un’azione unilaterale del genere. Ma la difficoltà non sembra insormontabile. Infatti, già nel 1999, l’11 febbraio, il cardinal Sodano, segretario di stato, ebbe a dichiarare: «La nostra nunziatura a Taipei è la nunziatura in Cina e se Pechino è d’accordo noi possiamo trasferirla a Pechino, non dico domani, ma oggi stesso». Ma a quella dichiarazione non ci fu alcun seguito.

Il dilemma davanti a cui si trova oggi il Vaticano è perciò questo: o mantenere lo status quo e abbandonare i fedeli della terraferma al loro destino, oppure cercare di venire loro incontro venendo a patti con il governo di Pechino.

Se è vero che il punto più delicato è quello relativo alla nomina dei vescovi, secondo mons. Zen, si potrebbe giungere a un compromesso, purché ci sia realmente la volontà di aprire un dialogo. La Santa Sede infatti potrebbe accettare una certa partecipazione del governo di Pechino contando anche su esperienze analoghe, per esempio, sulle procedure seguite in questa materia in Vietnam o con il governo di Cuba. Ma i tempi non sembrano ancora maturi ed è improbabile che possa cambiare, almeno per il momento.

Intanto, mentre passano gli anni, poco alla volta continua a sollevarsi il velo sul martirio a cui è stata sottoposta la chiesa in Cina in questi ultimi sei decenni. Fra le tante vicende, destinate un giorno a riempire interi libri di memorie, l’ultima riguarda il vescovo “clandestino” Peter Chang (Zhang) Bai Ren – vescovo della diocesi di Hanyang, nella provincia cinese centro-orientale dell’Hebei – morto a 90 il 13 ottobre scorso, la cui lealtà al papa gli è costata 24 anni di prigione, tra il 1955 e il 1979.

Mons. Chang era nato il 14 febbraio 1915 ed era entrato in seminario nel 1926. Laureato in Teologia presso il pontificio Collegio Urbaniano di Roma, fu ordinato sacerdote il 19 dicembre 1942, e consacrato vescovo nel 1986.

Nei suoi scritti, risalenti al 1997 nota: «Quando giunsi nella diocesi di Hanyang il 16 gennaio 1953 (…) offersi solennemente la mia diocesi al Cuore Immacolato (di Maria) e le chiesi due favori: che la nostra diocesi si liberasse dalla peste della riforma religiosa contro il papa di Roma e che io, il più debole degli uomini, non fossi un Giuda…».

«Sono trascorsi 45 anni di severa persecuzione da quando ho offerto la nostra diocesi al Cuore Immacolato. I fatti provano che ci ha concesso i due favori che avevamo chiesto”.

Racconta: «Il 13 settembre 1955, quando i poliziotti, puntandomi contro le armi, mi minacciarono chiedendomi di rinunciare al papa di Roma, dissi loro esattamente: “Sparatemi, ma non rinuncerò al papa”. Non mi spararono, ma ho trascorso 24 anni in prigione e ho lavorato come uno schiavo nei campi di lavoro».

 

Le vicende di mons. Chang sono state fatte conoscere dalla The Cardinal Kung Foundation, con sede a Stamford (Connecticut, USA), creata dal cardinal Kung Pin-mei , vescovo di Shanghai, costretto nel 1987 a fuggire in esilio insieme al nipote negli Stati Uniti (morto nel marzo del 2000 a 98 anni). L’organismo si dedica alla promozione della libertà religiosa della Chiesa cattolica in Cina.