DISPOSTE ANCHE AL MARTIRIO
“ESTAMOS EN CHINA”
Avventura missionaria in Cina di un drappello di religiose italiane dal
1932 al 1949. Semplicità di vita, sapiente tessuto di relazioni, dedizione
evangelica ai poveri fino a sfiorare il martirio.
È stato il governo di Pechino a
invitare le Missionarie della Carità ad aprire in Cina una loro casa a servizio
dei poveri e degli abbandonati: lo ha dichiarato suor Nirmala Joshi, attuale
superiora generale dell’istituto fondato in India da madre Teresa di Calcutta e
ormai diffuso in tutti i continenti.
La stampa che ne ha parlato ha
sottolineato il fatto che con la prima casa delle Missionarie della Carità si
tratta del «primo ordine cattolico internazionale ad aprire ufficialmente una
sede nella Repubblica Popolare dai tempi di Mao Zedong» (Avvenire 4.10.2005).
La notizia ormai sicura ci ha portato a
rileggere un libro straordinario, Estamos en China, edito nel 1990 dalla
Tipografia Poliglotta Vaticana. Nelle sue pagine, infatti, Emilio Giovanneschi
racconta la storia di una presenza di religiose italiane in Cina, iniziata nel
1932 e conclusa nel 1949, pochi mesi prima che Mao Zedong (Mao Tze-tung)
proclamasse sulla piazza Tienanmen la fondazione della Repubblica Popolare
Cinese. Erano le Suore Francescane Minime del Sacro Cuore, fondate dalla beata
Margherita Caiani nel 1902 a Poggio a Caiano (FI), di diritto pontificio dal
1933.
Nessun imperatore cinese né alcun
Mandarino le aveva invitate e il loro istituto non aveva ancora trent’anni di
vita, ma tante di loro chiedevano già alla superiora generale di poter essere
mandate in missione. Dove? Anche in Cina, dovessero affrontare il martirio pur
di annunciare il Vangelo.
Ed ecco il Vicario apostolico di Funing
nel Fukien in Cina, p.Teodoro Labrador o.p., cerca – è il 1930 – «suore
domenicane per la sua missione», ma «le domenicane di Francia hanno già
missioni e non possono accettarne altre per ora. Ho proposto le Minime e
Monsignore ne è contentissimo»: così scrive alla generale sr. M.Giuseppina
Bizzaguti un altro domenicano, p. Filippo Caterini, allora Procuratore generale
dell’ordine di s. Domenico, che sapeva del sogno “minimo”.
UN SOGNO “MINIMO
CHE SI AVVERA
I tempi cinesi erano lunghi – Estamos
en China! diceva il latinoamericano mons. Labrador, come a dire “Che vogliamo
di più?” – e alla lentezza delle trattative cooperò persino nell’agosto del
1931 «un tifone distruttore» che aveva desolato il Vicariato, distruggendo
sette chiese e almeno cinque residenze dei missionari. E così le Minime
dovettero attendere fino al maggio del 1932 di essere ammesse a collaborare con
la missione domenicana di Funing. Sulla gioia delle suore soltanto l’ombra
delle forti spese da sostenere, da quelle per il viaggio alle spese per loro
eventuali progetti missionari.
S’imbarcarono sul Conte Rosso nel porto
di Brindisi l’11 novembre 1932: erano in sei con la superiora sr. M. Giacomina
Pellegrini ad affrontare la prima sfida della missione, la traversata per varie
tappe di mari sconosciuti fino al porto di Hong Kong che raggiunsero il 2 dicembre.
Qui furono ospiti delle suore Canossiane per poi imbarcarsi nonostante il mare
in tempesta e approdare il 17 a Foochow, dove vennero accolte dalle Terziarie
domenicane in attesa di salpare verso il porto di Santuao cui faceva capo
Funing.
Sapevano che nella sede di Ningteh le
attendeva una casa già ammobiliata poveramente ma con seggiole, letti e tavole;
e una casa così essenziale e in linea con il carisma francescano immaginavano
lungo il viaggio.
Non fu agevole arrivarci, il 21
dicembre. «Fuori dalle grandi rotte, la navigazione sotto costa per i centri
minori avveniva esclusivamente su natanti di fortuna, allestiti occasionalmente
e pronti a salpare non appena le condizioni del mare, battuto costantemente da
spaventose tempeste, rendevano meno rischioso il viaggio». Sul tratto verso
Funing viaggiarono come raccontò sr. Salesia M. Sala: «Sul “Conte Azzurro”,
come scherzosamente volle chiamare mons. Labrador il barcone da scarico che ci
ospitò, l’unica cabina, se così si poteva chiamare, era quella del comandante
arredata con una sedia, un tavolino e quattro tavole che servivano da letto».
FINALMENTE
LA MISSIONE
Le suore da un oblò di quella cabina
vedevano alternarsi velocemente «tra un’ondata e l’altra in un’altalena
spaventosa e massacrante, acqua, cielo, costa e monti. Silenziose e impaurite,
ognuna rimaneva rigidamente inchiodata ai posti di partenza: “Sr.Teobalda
sull’unica sedia a disposizione, sr.Edvige e sr.Bruna su quelle quattro tavole,
la superiora, sr.Salvatrice e sr.Salesia su una specie di cassa vicino al
tavolo”».
Sballottate così per lunghe otto ore,
giunto il momento di sbarcare, sorpresa: si trovavano allo stesso punto di
partenza del mattino! E fra nuove peripezie, narrate poi nei suoi incantevoli
diari da sr.Salvatrice Agosti, ripresero la strada verso Ningteh, dove il 31
marzo «tra lo scoppiettio dei mortaretti con i quali cristiani e beate
(battezzate nubili che collaboravano nella missione) salutarono l’avvenimento
presero possesso della casetta cinese». La quale superava anche la fantasia
francescana di sr. Salesia che la descrive: «Una scatola a due piani con
soffitti che si toccano con le mani, composta da sei piccole stanze mancanti di
finestre e nelle quali non entra mai né aria né sole». Ma poco importava,
davanti all’esigenza di rimboccarsi subito le maniche cominciando con
l’accogliere «una trovatella» affidata loro nel momento stesso della cerimonia
inaugurale.
I compiti delle missionarie erano
infatti la cura dei malati e il controllo delle bambine raccolte dall’opera della
“Santa Infanzia” con in più i trentacinque ragazzi della scuola tenuta dalle
beate. Gli impegni meno importanti non richiedevano minori responsabilità, se
si pensa all’enorme penuria in cui le Minime appena arrivate dovevano operare:
curare un orticello, cucinare non solo per le suore ma per quanti si
presentavano affamati, cucire per adattare i propri abiti al clima caldissimo e
umido, per le tonache dei missionari e pure per vestire gl’ignudi che premevano
alla loro porta.
PRIMA
I MALATI
«La voce che le suore bianche curavano
così bene gli ammalati si diffuse dentro e fuori le mura. Il tratto umano,
l’affabilità, ma ancor più l’alto grado di professionalità raggiunto da sr.
Salesia all’Ospedale Grande di Viterbo e al Policlinico Morgagni di Roma conquistò
il popolo di Funing. Dall’alba alla notte, sr. Salesia rimaneva al servizio
degli ammalati. Briganti, banditi e reietti, respinti altrove, trovavano
amorevole accoglienza e cura. Sempre più frequentemente veniva invitata a
visitare malati e infermi a domicilio. Il vincolo della lingua, però, e precise
disposizioni vicariali, impedivano di soddisfare le richieste. Ma come
resistere davanti a tanta insistenza per dei limiti incomprensibili alla gente
locale? Intanto, al di là della muraglia, dalle campagne circostanti, come
dalle vallate e montagne attorno, invocavano la giovane suora infermiera
bianca. Con le portantine già pronte fuori dalla Missione, i familiari degli
ammalati la imploravano alle porte dell’ambulatorio». Si decise perciò di
rischiare, e l’infermiera sr. Salesia in compagnia di una beata come interprete
partiva per «avventurosi viaggi di ore e ore. In bilico su strapiombi
spaventosi sale e discende pendii incredibili, attraversa fitte foreste tra i
ruggiti delle belve, guada fiumi... ma natura e uomini paiono inchinarsi
davanti a questa intrepida ragazza con solo un crocifisso a protezione».
Salvo ammalarsi anche lei, dopo che sr.
Teobalda per prima deve lasciare il lavoro con febbre a 40 gradi, e tutte si
sottopongono a una cura di chinino e riposo, sospendendo persino la lezione di
lingua cinese, prese da più gravi paure come il diffondersi del vaiolo nero
intorno a Funing; la resistenza fisica delle suore al caldo orientale infatti
diminuisce, «insoliti malesseri fiaccano più del previsto le energie, il corpo
si riempie di eruzioni insopportabili mentre le gambe non rispondono più alla
volontà».
Ma anche tutto questo passò e tornarono
in primo piano i malati; tra questi le bambine (e si sa perché proprio le
bambine) che commossero subito le sei suore come la piccola di quattro anni
detta Nung Ka¯´ (gambe paralizzate), trovata legata in una soffitta per farla
lentamente morire e che loro chiamarono Rosina.
DONNE SAGGE
FEDELI E CREATIVE
Indubbia ammirazione suscitano queste
missionarie le quali, «attente, umili e fortemente determinate, costruiscono
opere d’amore incredibili», senza un momento di enfasi neppure negli scritti
più riservati, senza «la sottolineatura di un merito specifico, l’agitazione
per un grande progetto, sempre ultime, semplici esecutrici senza mai tentazioni
di protagonismo», instancabili a servizio dei bisognosi di qualsiasi genere, e
in un contesto culturale e sociale lontanissimo da quello pur semplice lasciato
in Italia. Un contesto al quale si adeguarono con intelligenza: «Stando in Cina
– scrive nel suo diario commentando usanze anche strane dei cinesi sr.Teobalda
Colombo – anche noi necessariamente abbiamo preso le loro stesse abitudini»,
dalla sveglia alle 4,30 al tramonto con la preghiera serale.
«Mentre fuori la rugiada continua a
scendere sopra i campi dei pochi cristiani e sopra quelli degli infedeli,
inginocchiate presso il tabernacolo preghiamo il Dio della misericordia perché
voglia trasformare questa rugiada materiale in grazie di conversione per i
meriti di Gesù Cristo e quelli di tante anime nascoste che pregano, soffrono,
amano e si consumano per questa santa causa»: così il diario di sr. Teobalda,
come se anche lei e le consorelle non stessero consumandosi nel nascondimento e
solo per amore. E inoltre, «vorremmo che la nostra buona madre sentisse le
nostre ricreazioni animate e serene, convincendosi di quanto siamo sommamente
liete. Dopo cena la ricreazione è animata dalle nostre piccine finché, vinte
dal sonno, si addormentano tra le nostre braccia».
EROICITÀ
DI UN EPILOGO
La madre era la superiora generale
Bizzaguti, che riceveva dalla Cina lettere bellissime: precise nelle
informazioni sui particolari della missione, poetiche nella descrizione della
geografia locale e dei fenomeni naturali osservati nelle diverse ore della
giornata, concrete nel presentare la realtà. Ed è ammirevole il senso di matura
libertà con cui le comunicano disagi e problemi, come fa sr.Edvige Azara:
«Quante pene, madre carissima, in quest’anno, talmente tante che sarebbe
impossibile enumerarle. Intanto, mi permetta di dirle che si soffre molto
vedendo la superiora continuamente angustiata perché non riesce a mettersi in
pari con le spese. Con questo non si vuole criticare nessuno, perché le nostre
care consorelle d’Italia sono state generose con noi, ma si vuole dimostrare
soltanto quali siano le nostre condizioni. Bisognerebbe mettersi in mente che
per il mantenimento delle suore missionarie pensasse la congregazione,
gloriandosi così d’avere la rappresentanza in prima linea dove scorre fresco il
sangue dei martiri. Per avere un’idea della Cina e specialmente del Fukien
bisogna dimorarvi a lungo. Solo ora cominciamo a capire qualche cosa. Solo ora
capiamo perché il nostro Vescovo quando salimmo sul barcone a Santuao per
recarci a Funing non poté trattenere le lacrime, sapendo a quali pericoli si
poteva andare incontro».
Ed ecco eventi estremamente dolorosi si
preparano dopo i bombardamenti del 1938, tra la guerra civile che impazza e i
fatali anni 1945-49 quando riaccesesi le ostilità fra comunisti e nazionalisti
anche la missione di Funing ne soffre gravissime conseguenze, che la lucida
memoria delle missionarie ha custodito nei diari e nelle rievocazioni orali.
La punta massima degli assalti dei
guerriglieri alle suore si ebbe il martedì 22 maggio 1945 quando bande
inferocite irrompono tra loro e le bambine e non bastando a essi il saccheggio
in tutta la casa adocchiano le bambine e le ragazze, poi le suore: «Alcuni si
avvicinano a noi, con sfacciataggine accarezzano la superiora, squadrano ad una
ad una le ragazze più grandi. Immobili si prega sottovoce mentre entrano in
cappella ma come impauriti non osano avvicinarsi all’altare».
Rapiscono la catechista Siu Mui, che si
riesce a sottrarre loro e nascondere in cappella sotto la panca dove sono
sedute le suore; ma «una masnada più forsennata» entra per recuperare la preda
e tra il pianto delle bambine colpisce ripetutamente le stesse suore «con
bastoni e fucili. Il missionario s’inginocchia chiedendo pietà, mostrando le
piccine che piangono; per tutta risposta ha anche lui immediatamente la sua
parte di colpi. Poi ritornano a battere sopra di noi. Pare impossibile che si
possa resistere a tanta violenza, sicuramente è la potenza di Dio che non
permette loro di ammazzarci; si sentono sì i colpi, ma le nostre teste e le
nostre spalle sono ben dure e sostenute da Gesù, nostra forza. Resistiamo
imperterrite.
Accendono il fuoco, ce lo buttano sopra
e sotto le vesti ma non riesce a bruciarci. Con forza ripetiamo incessantemente
a voce alta: “Sacro Cuore di Gesù, Sacro Cuore di Gesù!” ed essi ci
scherniscono. Continuano a batterci senza tregua», mentre il padre missionario
in ginocchio continua a implorarli. Escono e tornano nella notte. Colpi
fortissimi piombano con la spada sopra la superiora finché si accascia come
morta sopra le ragazze. Furibondi, con il calcio del fucile mi battono sopra la
testa». È il diario di sr. Teobalda.
«Infine, come impazziti afferrano due
colonne di legno portafiori scaraventandoceli contro, poi è la volta di alcuni
libri e infine sfondano il cassetto del tavolino sopra le nostre teste. È l’una
quando i demoni incarnati decidono di lasciarci in pace».
La situazione dopo quella tragica notte
sembrò mettersi al bello, ma quando «si avvicinò furiosa la tempesta comunista,
facendo presagire le più tristi conseguenze», le missionarie ridotte a quattro
– sr. Giacomina, colpita da paralisi, era rientrata in Italia con sr. Salesia –
dovettero decidere anche il loro rientro, dopo aver sistemato tutto cominciando
dall’ospedale luogo di tanto puro amore ai sofferenti.
Dopo una Messa di commiato celebrata
dal cinese p. Giovanni Tuan, lasciate le loro cose a catechiste e beate,
affidate le bimbe a famiglie cristiane che spontaneamente si offersero di
custodirle, presero l’ancor tribolata via del ritorno. «Fuori dalla porta, due
portantine attendono le meno forti sr. Salvatrice e sr. Bruna. Un folto gruppo
di cristiani, vera guardia d’onore, continua a scortarci piangendo tra gli
stretti sentieri e il folto delle piante. Si arriva a Yimin e la barca è pronta
per salpare. Si scambiano tra i singhiozzi gli ultimi saluti. La marea è già
alta».
Zelia Pani