CAPITOLO GENERALE DEI BÉTHARRAMITI
TRA NOVITÀ E CAMBIAMENTO
I lavori capitolari si sono svolti entro l’orizzonte della “rifondazione” e
l’esigenza di fare dell’istituto una comunità autenticamente fraterna, guidata
dall’unità di intenti e dalla condivisione di obiettivi, che, forte della sua
identità religiosa, vive per la missione e va in missione, santificandosi nella
missione.
La situazione culturale e religiosa del
nostro tempo interpella non solo la Chiesa ma anche ogni istituto di vita
consacrata. Questa realtà ha consolidato la consapevolezza della necessità, non
più procrastinabile, del cambiamento.
A partire da questa consapevolezza, la
congregazione dei padri bétharramiti, proprio perché chiamata a vivere in
un’epoca attraversata da trasformazioni veloci e radicali, ha sentito il
bisogno di rivedersi allo specchio delle sfide della storia e del proprio
carisma, di interrogarsi sulla propria identità – eredità del passato e
autenticabile nel presente – per proiettarsi nel futuro con discernimento e in
modo non provvisoriamente consolatorio e palliativo.
È stato questo l’orizzonte entro cui si
è svolto il capitolo generale che si è tenuto a Roma lo scorso mese di maggio,
durante il quale è stato eletto anche il nuovo superiore generale nella persona
di p. Gaspar Fernandez, spagnolo, ma dall’ordinazione operante in Argentina.
Molto significativamente per questo capitolo era stato scelto il tema Una
famiglia che si rinnova in un mondo che cambia, che può essere considerato come
lo sviluppo logico di quello del capitolo del 1999, alla vigilia del terzo
millennio: Una famiglia aperta sul futuro.
La pubblicazione degli Atti permette
ora di avere una visione esauriente – al di là del clima fraterno in cui si
sono svolti i lavori.
NON BASTANO
LE PIE ESORTAZIONI
La relazione di p. Francesco Radaelli,
superiore generale uscente dopo 12 anni, richiamava il capitolo (e la
congregazione) a ripensare e a riappropriarsi della propria identità, che si
radica nella scoperta del Dio-Amore che dona al mondo il suo Figlio per la
salvezza di tutti gli uomini e che si esplica e si esprime nel tentativo,
sempre da ridestare, e nella passione, sempre da riaccendere, di riprodurre,
nella vita personale e comunitaria, l’amore di Cristo per il Padre – è qui la
santità – e, nella vita apostolica, l’incarnazione di Cristo nel mondo dei
bisogni dell’uomo del nostro tempo.
Ciò comporta ed esige di rifondare la
vita religiosa, il che «non significa realizzare una nuova forma di vita
bétharramita, ma creare nuovi modi di viverla oggi, perché sia più radicale,
vitale e feconda». E occorre andare in profondità: «non bastano più rimedi, pie
esortazioni, pezze aggiuntive al vestito vecchio». La rifondazione deve –
nell’oggi dell’istituto – partire dal cambiamento di una mentalità ancora
radicata, per la storia passata, in molti religiosi: si tratta di prendere atto
che l’asse portante della congregazione si sta spostando dall’Europa
all’Africa, all’Asia (Thailandia, India) e all’America latina. Questa realtà
chiama e spinge a ripensare il carisma in termini e in obiettivi nuovi, così
come la formazione e la presenza pastorale in termini culturali e operativi
nuovi.
Recependo sostanzialmente le
riflessioni della relazione del p. Radaelli, nei lavori del capitolo le esigenze
della novità, del cambiamento sono state costantemente la guida delle
discussioni e delle indicazioni, a cominciare dalla prima fondamentale
“novità”: la costruzione di comunità autenticamente fraterne, guidate
dall’unità di intenti e dalla condivisione di obiettivi. Una comunità, è stato
efficacemente sintetizzato, che, forte della sua identità religiosa, vive per
la missione e va in missione, santificandosi nella missione.
COMUNITÀ
IN MISSIONE
La formula comunità in missione è stato
il tema trasversale e unificante del capitolo, che invita i religiosi a
percepire come tale l’intera congregazione e a essere coscienti della loro
chiamata carismatica, a essere e a vivere come “mistici dell’incarnazione” e a
tenere sempre vivo – in questa prospettiva – un impegno sempre rinnovato «per i
giovani, le famiglie, i poveri, in un atteggiamento di accoglienza,
accompagnamento, e servizio missionario».
“
Le comunità debbono essere coraggiose:
illuminate e lanciate dalla parola di Dio, non devono temere le difficoltà
interne e le sfide esterne, ma essere pronte a rispondere con la necessaria
dottrina e il costante impegno. Le comunità sono viste tutte come
“missionarie”: forti di una (cercata e ) ritrovata identità e animate dalla
spiritualità di comunione operano nel mondo di oggi con la certezza che esso è
ricco di culture differenti, che ormai sono presenti anche nell’istituto, e di
inedite possibilità per la comunicazione del vangelo di Cristo.
Questa certezza deve essere frutto
della formazione iniziale: una formazione personalizzata che permetta di
sviluppare la libertà e la responsabilità, in grado di fare discernere valori
da prendere in considerazione e individuare i controvalori. Sempre con
attenzione alla cultura del tempo, alle domande della Chiesa,
all’attualizzazione del carisma nei molteplici ambiti della pastorale. E frutto
anche della formazione permanente, che implica: il riconoscimento sincero di
“dove siamo” sia spiritualmente che culturalmente, la volontà di uscire dagli
schemi in altri tempi recepiti e validi, la disponibilità ad accogliere le
novità (sia di idee che di persone), l’apertura a «ri-leggere l’azione di Dio
nella nostra storia personale, per amore di noi stessi e per amore di coloro
che si è chiamati a servire». La formazione è necessaria per “essere dentro” i
cambiamenti del nostro tempo.
Soltanto una comunità che vive la
propria vocazione – rileva con forza il capitolo – potrà farsi proposta
vocazionale. I giovani che bussano alla porta dell’istituto sono molti nel
mondo e intendono condividere la spiritualità e la missione della
congregazione. Ma esigono che i religiosi presentino – con e nella vita
comunitaria – la loro originalità di uomini di Dio. Di qui la responsabilità e
il compito di «avere qualcosa da offrire», attraverso l’accoglienza, la
condivisione di momenti di vita, gli incontri di preghiera, per portarli a
porsi le domande sul senso della vita, a scoprire e ad impiegare per grandi
ideali le loro passioni e capacità, per suscitare in loro l’opzione per Cristo.
Per la formazione di significative
comunità in missione – sottolinea il capitolo – è essenziale ripensare il servizio
dell’autorità. Un aspetto riconosciuto “difficile e fragile”, ma necessario e
da tenere ben presente, perché la vita della congregazione si esprime
concretamente attraverso le singole comunità, i singoli religiosi, e l’unità
della comunità è ottenuta dall’autorità, che è al servizio di ogni consacrato.
Soltanto in questa dimensione il senso dell’autorità è – oggi – sentito e
condiviso dal religioso e il vero senso lo si ritrova richiamando alla mente e
vivendo nella prassi l’esempio di Cristo (venuto per servire e non per essere
servito, per lavare i piedi ai discepoli, per offrire la vita come buon
pastore) e quindi fondato su motivi di fede. E l’esercizio dell’autorità deve
tenere in conto la persona, valorizzare le sue ricchezze umane, culturali, spirituali,
salvaguardando il bene comune. Alla radice dell’autorità nella comunità ci deve
essere la logica della comunione che si configura come “convivialità delle
differenze”, la quale non mortifica le diversità, ma le unisce nella comune
missione.
Ed è giunta l’ora – sottolinea il
capitolo, che ha voluto la partecipazione di alcuni di loro – di fare ulteriori
decisi passi nella condivisione del carisma con i laici. Il cammino fatto dagli
ultimi due capitoli generali (1993, 1999) è incoraggiante, soprattutto in
alcune province della congregazione, ma occorre che tutti i religiosi
concepiscano il contatto con i laici come una preziosa, reciproca e
insostituibile occasione per crescere in umanità e per capire meglio il
concreto della vita della famiglia, della cultura, dell’economia, della
politica, del lavoro, della società. Allora le comunità sono invitate ad
aprirsi senza paura ai laici, accogliendoli nel rispetto della vocazione di
ciascuno, associandoli alla ideazione e all’ esecuzione dei progetti, accompagnandoli
nell’approfondimento della dottrina spirituale della congregazione, che è
essenzialmente – e in modo significativo per il nostro tempo – spiritualità
dell’incarnazione. Il dinamismo del carisma è meglio vissuto nella condivisione
con i laici, che con i religiosi formano la “stessa famiglia”. Per assicurare
questa unità, un laico (una laica) in Italia sarà il tramite di comunicazione
tra il consiglio generale e i laici sparsi nelle comunità dei vari paesi.
La necessità e il coraggio di rifondarsi
hanno innervato i lavori del capitolo, teso a una rifondazione – come si è
precisato sopra – che è una rivitalizzazione della vita e della missione
dell’istituto, dando a esse radici che, rispettivamente, non deturpino la vita
consacrata e strutture che non rendano sterile la missione. Il capitolo si è
trovato a cercare di attuare l’intuizione del fondatore nel clima culturale e
pastorale di oggi, a riconoscere e a evidenziare le ragioni del suo essere
ancora dono per la Chiesa, a rifondarla, appunto, con lo sguardo sulla realtà
del mondo.
Allora – in questa faticosa ma
inevitabile impresa – le comunità sapranno “stare nella storia” quali visibili
testimoni e continuatori delle ricchezze del carisma ereditato dal fondatore.
E.B.