FORMAZIONE INTERPERSONALE E COMUNITÀ RELIGIOSE

 

Il problema della formazione nel contesto della vita consacrata, è stato per molto tempo occasione di riflessione, soprattutto negli anni del grande rinnovamento conciliare. Il volume di  Giuseppe Crea, Gli altri e la formazione di sé, permette di aprire tale tematica a nuovi orizzonti e a nuovi contributi, per prendere coscienza non solo delle difficoltà di una formazione relegata ad un settore specifico della crescita umana, ma soprattutto per rilevare come i processi formativi coinvolgono tutto l’arco dell’esistenza di ognuno.1

Con tale prospettiva, anche i disagi e le crisi che si incontrano nella vita acquistano un ottica completamente diversa, perché è diverso il modo di guardare agli eventi e in particolare a quelli che coinvolgono ognuno nelle relazioni significative.

Oggi sembra essere un luogo comune affermare che viviamo in un’epoca di vuoto educativo, di mancanza di valori, di perdita di senso… Sono tante le situazioni che sembrano confermare questa profezia nefasta: manca formazione a scuola, a casa, in oratorio, mancano modelli formativi a cui i giovani possano rivolgersi. Anche nelle nuove sfide della vita consacrata si sente il bisogno di nuova formazione.

Oggi abbiamo bisogno di proposte educative che aiutino le persone a orientarsi a partire dal bagaglio esperienziale di cui ognuno è competente, in particolare nel campo dei rapporti e delle relazioni. Il libro è una proposta educativa che si pone sullo sfondo di un approccio centrato sulla speranza fattiva e sulle potenzialità riscoperte e pertanto condivise con l’altro, con quanti fanno parte del proprio entourage significativo, il gruppo, la famiglia, l’équipe, la comunità religiosa. Ogni individuo, quindi, ha il diritto e il dovere di riconosce le “parti positive” di cui è portatore come un’occasione fondamentale per continuare il cammino meraviglioso di crescita umana con cui è possibile proporsi nelle diverse situazioni, piuttosto che subirle passivamente. La riscoperta della propria identità profonda facilita la capacità di far fronte alle difficoltà e alle diverse realtà. Si tratta quindi di una psicologia in favore dell’uomo non tanto per consolarlo delle sue ferite (consce o inconsce che siano) ma per rafforzarlo nella scoperta della sua dignità umana e, proprio per questo, profondamente spirituale.

Pertanto, piuttosto che centrare l’attenzione su etichette diagnostiche relative alle difficoltà intrapsichiche o relazionali che generano conflitti e incomprensioni, il libro sottolinea l’importanza di un modello di formazione che dia direzione valoriale alle risorse umane dell’individuo, aiutandolo a procedere verso la realizzazione di un progetto che lo pone nella direzione della pienezza di vita. Tale processo educativo accompagna le persone nei contesti dove è per loro abituale attingere sostegno relazionale, come appunto nelle relazioni comunitarie, in cui le funzioni di cooperazione reciproca sono integrate per perseguire un comune obiettivo di autentica vita comune.

In questo modo il gruppo comunitario è inteso come soggetto di formazione continua, cioè protagonista del proprio processo evolutivo piuttosto che semplice “oggetto di assistenza”, come a volte accade nella concezione classica di formazione permanente che in fondo non cambia nulla nelle persone.

La comunità, in quanto “nucleo animatore” è perciò agente di formazione di questa nuova mentalità relazionale, vero laboratorio perché ognuno impari in essa l’arte della condivisione, per giungere a una crescita integrale delle persone.

Per questo è importante integrare l’approccio pedagogico dell’intero ciclo di vita con i momenti difficili, personali o di gruppo che siano, in un contesto che sia veramente “permanente”, proprio perché inserito nella “permanente realtà evolutiva” dei rapporti interpersonali, comprensiva dei diversi stimoli interpersonali come pure delle discrepanze relazionali normalmente presenti nei gruppi significativi come è stato evidenziato dalla ricerca presentata nei capitoli precedenti.

Spesso le ambiguità individuali possono essere considerate come una degenerazione di condizioni relazionali altrettanto ambigue che, se non vengono adeguatamente contenute e risolte, rischiano di logorare i vissuti personali e interpersonali, fino a giungere a veri e propri comportamenti devianti. Sappiamo bene quanto tali fenomeni non siano del tutto marginali anche nel contesto della vita sacerdotale e consacrata, e come attraverso queste degenerazioni gli individui cerchino di raggiungere un adattamento anomalo al proprio disagio interiore.

Il libro presenta esperienze concrete e casi clinici specifici a conferma di tale analisi dinamica dei gruppi comunitari.

Quante volte si sente di individui che vivono ben adattati in comunità (come anche nel contesto familiare), non davano mai fastidio, erano le più affettuose, da loro non ci si sarebbero mai aspettati certi comportamenti devianti. Dinanzi a queste situazioni, l’autore sottolinea il legame tra mondo interiore e mondo sociale, in modo particolare riferendosi a persone che vivono in contesti comunitari di dedizione reciproca.

Per esempio, lì dove ci sono persone che si incontrano sempre di sfuggita, che non hanno rapporti significativi ma occasionali, è più facile che il singolo mascheri dentro la comunità il proprio vissuto distorto. La propria fragilità trova un terreno più fertile perché in pratica può andare avanti per molto tempo senza che nessuno se ne accorga.

 

Se da una parte c’è la possibilità di trovare individui che si presentano con un sé fragile e non definito, dall’altro possiamo avere un contesto di gruppo altrettanto fragile e non definito. Cioè, se la comunità perde la propria identità, destruttura ancora di più la persona fragile che è presente in essa, e facilita comportamenti di disadattamento. Occorre quindi sottolineare l’importanza della dimensione sociale della comunità religiosa per prevenire situazioni di “distruttività” interpersonale. La perdita della dimensione sociale in una comunità è indicata dal fatto che le persone non sono più in contatto tra loro, o comunque permettono dei contatti falsi che facilitano nell’individuo psicologicamente più fragile la stabilizza­zione del falso sé. Nella comunità che non ha una chiara dimensione sociale si perde il significato dei ruoli di ciascuno e, di conseguenza, la definizione dei propri confini personali, che rende presente e significativo ogni individuo nel suo contesto comunitario. In altri termini, la persona che si trova a vivere in un ambiente “confuso” a livello di distinzione di ruoli, è una persona che sarà poi sollecitata a vivere rapporti di tipo fusionale dentro e fuori la comunità, soprattutto quando essa ha già un sé fragile e non strutturato.

Pertanto, quando si viene a perdere il codice relazionale o, meglio, quando si instaurano codici relazionali non funzionali per il giusto riconoscimento sociale del gruppo comunitario, gli individui perdono il senso della propria identità nel gruppo, non sanno chi sono e perché sono lì.

Ecco allora l’importanza delle mediazioni sociali, ancor più per la vita religiosa nella quale l’individuo ha un ambito ben preciso a cui riferirsi, ambito dato dalla stessa comunità dove è inserito.

In questo modo la relazione diventa la chiave di interpretazione della propria storia di maturazione e di crescita, perché è il luogo dove il modellamento intrapsichico si coniuga con il modellamento interpersonale o, per dirla più semplicemente, dove il cambiamento e la maturazione di sé va di pari passo con il cambiamento e la maturazione dei rapporti con gli altri. Se la relazione è l’opzione preferenziale per la crescita, essa è anche il sentiero che ognuno percorre per realizzare un progetto di vita che tenga conto dell’alterità come una preziosa opportunità di arricchimento e non come una minaccia alla propria identità.

 

Giuseppe Crea

 

1 CREA GIUSEPPE, Gli altri e la formazione di sé, EDB 2005, pp. 302, € 20,50.