GLI ISTITUTI E L’IMPEGNO MISSIONARIO
DIALOGO VIA DELLA MISSIONE
Il dialogo nelle
attuali circostanze esprime in modo nuovo il vecchio impegno missionario della
vita consacrata. In un mondo pluralistico e fatto di più linguaggi, gli
istituti religiosi devono essere come dei “laboratori” per la Chiesa, e segno
della sua nuova missionarietà, mediante una precisa volontà e capacità di
dialogo.
Il mese di ottobre ci offre l’opportunità di tornare a
riflettere sul tema della missione “ad gentes” e sulle nuove prospettive e
modalità che oggi l’esprimono e l’accompagnano, tenuto conto anche delle nuove
accentuazioni ecclesiologiche maturate nei tempi recenti. P. Hermann Schalück,
direttore della Internationales Katholisches Missionswerk, di Aquisgrana, e
autore di queste riflessioni, non è nuovo ad approfondimenti di un tema come
questo. Offriamo queste sue recenti riflessioni soprattutto a coloro che operano
più direttamente nel campo della missione tra i popoli di diverse culture e
religioni.
Da circa due secoli si parla sempre più, almeno in Europa
e nel Nord America, di crisi di identità degli istituti religiosi. In effetti,
il tentativo di avviare una nuova partenza creativa nel mondo moderno
pluralistico e globalizzato è un compito che riguarda tutti. In questo mio
contributo vorrei cercare di far vedere come l’esercizio del dialogo culturale
e interreligioso rappresenti per le comunità religiose un compito che nelle
attuali circostanze esprime in modo nuovo il vecchio impegno missionario della
vita consacrata. I cristiani, discepoli di Gesù, cooperano, in obbedienza al
Vangelo, al carisma di fondazione e ai segni della realtà presente, a plasmare
il mondo e a parlare in maniera nuova di Dio.
Una seconda osservazione: anche il termine e la prassi
della missione sono esposti a vari malintesi. Invio (missione), tuttavia, è un
termine fondamentale nella Bibbia, nella Chiesa, nella teologia e spiritualità.
Non possiamo rinunciare ad esso nonostante tutte le difficoltà storiche che
l’hanno accompagnata. Dobbiamo piuttosto riappropriarcene nell’attuale contesto
mondiale, caratterizzato da indifferenza, da concezioni religiose pluralistiche
e non ultimo da esperienze di una violenza religiosamente motivata. “Messa per
lungo tempo in secondo ordine, forse perfino resa sospetta, spesso passata
sotto silenzio, la parola missione acquista nuovo significato” (card. K.
Lehmann). È chiaro che ciò non deve avvenire in un’affermazione monologica di
sé, ma in una rinnovata, sensibile prassi di incontro e di dialogo con le
singole persone, con i rappresentanti delle altre religioni e culture. “Il
dialogo è il nuovo modo di essere Chiesa”, ebbe a dire Paolo VI. E nel primo
incontro di preghiera per la pace ad Assisi (1986), Giovanni Paolo II disse:
“Con i credenti delle altre fedi noi siamo fratelli e sorelle di viaggio. Ci
troviamo tutti in cammino sulla stessa strada verso la meta che Dio ci
prepara”.
NUOVE ACCENTUAZIONI
ECCLESIOLOGICHE
Il concilio Vaticano II ha posto nuovi accenti sull’unica
missione della Chiesa: la missione in quanto invio, trasmissione, il non
esistere per se stessi non è un’attività accanto a tante altre, ma appartiene
alla natura della Chiesa. Nella seconda metà del secolo scorso nel modo di
concepire la missione della Chiesa cattolica è avvenuta una svolta copernicana:
da un’autoreferenzialità (ecclesiocentrica) si è passati a un’apertura al
mondo. La Chiesa non è fine a se stessa, ma deve essere un segno visibile tra i
popoli della edificazione del regno di Dio e della sua giustizia (LG). Una
delle affermazioni più importanti del Vaticano II è che l’unica Chiesa di Gesù
Cristo, nel suo insieme e per tutti i tempi, è per sua natura missionaria, vale
a dire, dinamica, comunicativa, relazionale, dialogica, impegnata a dare la
vita al mondo, e coopera a plasmare il futuro del mondo” (GS). In ogni caso ciò
significa anche: una Chiesa che crea solidarietà sia con i lontani sia con i
vicini.
La continua effusione dello Spirito di Dio su questo
mondo implica l’impegno a comprendere il mondo e la creazione come un intreccio
di vita derivante dalla mano di Dio. La coscienza della missio Dei in Cristo e
nel suo Spirito ci offre uno sguardo solidale sugli “altri”, vicini e lontani.
Ci dà la consapevolezza della responsabilità che tutti abbiamo gli uni verso
gli altri. Pone la base della solidarietà interpersonale, allaccia e rafforza
anche i rapporti sociali e mondiali. In una parola: la fede libera; la fede
fonda la solidarietà. La fede nel Dio della vita crea spazi di vita comune e di
speranza comune. Per i cristiani, la fonte caratteristica della solidarietà sul
piano mondiale sta nella consapevolezza che lo Spirito del Signore crea vita e
che la sequela di Cristo apre gli occhi e i cuori alla compassione, al
camminare insieme, all’amore e all’aiuto reciproco (cf. Mt 5,3-12).
Giungiamo così direttamente a uno dei problemi centrali
riguardanti il futuro degli istituti religiosi oggi. Nel difficile e laborioso
processo di rinnovamento e di “rifondazione” della vita religiosa una cosa è
chiara: il significato della vita consacrata non sta in quello che essa fa ma
in ciò che dovrebbe essere: luogo di esperienza di Dio, “testimonianza di Dio
nel mondo d’oggi”, in obbedienza alla missio Dei, anticipazione del regno di
Dio, anche se in maniera ancora esitante e a piccoli passi. Questo compito
permanente e fondamentale degli ordini e delle congregazioni è inserito in
quello basilare della Chiesa, ossia di non porsi come un assoluto, ma essere in
tutto strumento e sacramento della salvezza che viene da Cristo. Gli istituti
religiosi sono perciò significative rappresentazioni “quasi sacramentali” (W.
Kasper) e profetiche di ciò che la Chiesa è, di ciò che è la vita secondo le beatitudini,
della vita secondo lo Spirito, di una fede vissuta in maniera radicale che
lascia tutto per guadagnare tutto. La Chiesa, e tutto ciò che la costituisce,
serve il regno di Dio, la sua giustizia e la sua pace e annuncia con la parola
e la testimonianza che Dio è la vita e vuole la vita ( e non la miseria e la
morte) per la sua creazione.
Gli ordini e tutti gli istituti di vita consacrata sono
perciò segno della trascendenza, vale a dire, segno di ciò e di chi è Dio e del
suo disegno sulla storia. Nonostante tutti i condizionamenti storici, essi sono
segni escatologici che interpretano il tempo e insieme indicano oltre il tempo
e ricordano che la storia dell’umanità e del cosmo è in definitiva una storia
di salvezza e di liberazione, che attende il suo compimento, una storia non
solo di tragedia e di peccato, ma di dono del perdono, dei nuovi orizzonti,
della sempre nuova incarnazione del Vangelo. Chi ricorda ancora all’uomo
postmoderno con la sua religiosità a-storica e spesso puramente interiore e in
parte esoterica e à la carte (fatta di propria scelta) questa prospettiva? Per
tutte le forme di vita religiosa oggi è una sfida fondamentale non solo
cooperare in maniera particolare con coloro che sono incaricati della missio ad
gentes, ma anche di trovare la loro più profonda identità nella missione: una
missione che in prima linea non si comprende a partire da una presunta e sicura
posizione in quanto attività di “conversione dell’altro”, ma in primo luogo
come incontro di “ascolto attivo” e contemplativo e come incontro dialogico con
l’altro in un processo di reciproco arricchimento, di comprensione e di
conversione.
LA MISSIONE ELEMENTO
FONDAMENTALE DELLA VC
Bisogna partire pertanto da un dato fondamentale della
vita consacrata tenendo presente ciò che ha scritto Giovanni Paolo II
nell’omonimo documento: la vita religiosa continua in modo speciale la missione
di Cristo e dello Spirito, la rappresenta, la attualizza, l’incarna e la
contestualizza in ogni epoca della storia.
La vita religiosa, secondo questo documento (72), è
sempre in missione. Anzi, è “missione”. Essa rappresenta in maniera esemplare
che cosa significa Chiesa missionaria. Senza il rapporto con l’ “invio” di Gesù
e con l’obbedienza a lui, senza la coscienza della presenza dinamica del suo
Spirito nella Chiesa, nel mondo, nella creazione e anche nelle altre religioni
la vita religiosa non avrebbe alcun fondamento. Essa deve parlare in maniera
particolare di Dio, deve leggere i segni dei tempi a partire dall’incontro con
Dio e dalla contemplazione e vivere in una fedeltà dinamica nuove modalità
della trasmissione della fede e dell’evangelizzazione (73). Testualmente: “La
storia missionaria testimonia il grande contributo da essi dato
all’evangelizzazione dei popoli: dalle antiche famiglie monastiche fino alle
più recenti fondazioni impegnate in maniera esclusiva nella missione ad gentes,
dagli istituti di vita attiva a quelli dediti alla contemplazione, innumerevoli
persone hanno speso le loro energie in questa “attività primaria della Chiesa”
(VC 78). E ciò deve avvenire soprattutto in una spiritualità missionaria di
dialogo e di incontro con gli “altri”.
IN PRINCIPIO
ERA LA RELAZIONE
La nostra tradizione e la nostra spiritualità cristiana
si ispirano chiaramente all’affermazione che all’inizio era la Parola (Gv 1,1).
La filosofia e l’antropologia derivate dalla tradizione giudaico-cristiana
della prima metà del secolo XX preferiscono dire invece: “All’inizio era la
relazione”. Filosofi come Martin Buber e Franz Rosenzweig descrivono l’esistenza
umana non come una monade esistente in se stessa ma come una relazione io-tu.
L’uomo può avere autonomia, capacità di articolazione, dignità, capacità di
giudizio e creatività solo se si comprende come parte di una rete di relazioni.
Può essere uomo in senso pieno, solo quando può amare, ascoltare, rispondere,
pregare. In altre parole: quando ha imparato a vivere in relazione con un tu,
con l’altro, con l’ambiente, con Dio in una “esistenza dialogica” (Martin
Buber). Gli uomini non vengono chiamati all’esistenza per condurre un monologo.
“Noi siamo un dialogo” (Hölderlin). Una persona che non ha imparato a entrare
in relazione non può sviluppare in senso pieno la sua dignità e la sua
somiglianza con Dio. La capacità di dialogo va perciò definita come capacità di
relazione. Ciò richiede un processo di apprendimento che non termina mai e dura
tutta la vita. L’esercizio del dialogo e della relazione è sempre anche un
passo di spoliazione e di trascendenza di sé che può comportare incertezze e
provocare sofferenze. È la via dell’obbedienza al Padre, la via dell’obbedienza
della Chiesa alla Spirito che la guida.
Non esiste altra via in grado di guidare la propria vita,
la propria fede e la propria spiritualità nelle varie tappe verso la maturità e
la pienezza di Cristo.
DAL MONOLOGO
AL DIALOGO
Il monologo, in quando discorso, azione o progetto di
vita, è una strada a senso unico. Il dialogo al contrario è un evento che fin
dall’inizio prende coscienza dell’altro, percepisce la realtà che ci circonda
ed entra in relazione con essa. L’individuo che cerca il dialogo, ed è egli
stesso “dialogo”, fin dall’inizio qualifica se stesso e la propria azione in
base alla percezione di non essere solo uno che dà, ma anche uno che riceve e
“giunge a parlare” in maniera migliore e più durevole quanto più ascolta ed è
“obbediente”: “Ogni discorso si basa sul dialogo vicendevole” (Wilhelm von
Humbolt). Questo scambio ha bisogno di tempo, fa parte della storia umana e la
plasma (la crescita dell’uomo, la sua formazione, la sua vocazione, le sue
attività creative, la sua competenza sociale, la sua capacità di amare e di
essere solidale). In questo scambio si trova in effetti un nuovo
“essere-per-gli altri” (Levinas). Il vero e il bello, come anche tutte le virtù
e i valori umani non possono essere raggiunti dalle prestazioni di un singolo
soggetto: al contrario sono frutto dello scambio, il punto d’arrivo di un
cammino fatto insieme, il punto finale sulla via della comune responsabilità
verso la vita e verso la creazione. La struttura dialogica della natura umana
acquista la sua massima visibilità nella complementarietà tra uomo e donna.
Ambedue gli esseri sono dotati della stessa dignità, vale a dire, sono
fondamentalmente uguali sia secondo la tradizione giudaico-cristiana sia
secondo la concezione moderna secolare dei diritti umani. L’unico essere umano
viene raggiunto e vissuto in senso pieno solo quando l’uomo e la donna
percepiscono e vivono le loro differenze come complementari in ordine allo
stesso fine. Qualcosa di simile si può dire nei riguardi della pluralità delle
razze, culture e religioni: tutte sono molto diverse le une dalle altre. In
origine ciò tuttavia non costituisce un assoluto. Soltanto “per le persone e i
sistemi totalitari con modelli di pensare e di agire esclusivi queste
differenze sono un assoluto”. La pluralità insita nella realtà umana e presente
nell’intera realtà è quindi un costante invito alla relazione, ossia al
dialogo, all’attuazione di convergenze per costruire insieme il mondo.
L’esercizio del dialogo e della capacità di relazione per
tutta la vita significa l’esercizio di una spiritualità e di un modo di
trasmettere la fede che proprio nel nostro mondo occidentale può avere un
futuro.
Incontrare l’altro in forma dialogica vuol dire incontrare
l’altra persona all’“altezza dello sguardo”, redimerlo e liberarlo nella sua
solitudine e desiderio di un rapporto significativo. Vuol dire ancora
riconoscere i propri limiti, lasciarsi arricchire dall’altro, creare insieme
significato e valori a vantaggio del bene di tutti e della creazione.
PER UNA SPIRITUALITÀ
MISSIONARIA
I cristiani riusciranno plasmare la loro vita come
comunione della Chiesa di Cristo e come esistenza dialogica solidale se si
ispireranno alla relazione che è presente in Dio e nella sua Trinità. Questa
“unità nella diversità” non è frutto della speculazione individuale. È un dato
della storia della salvezza: Dio stesso entra in relazione con il mondo, con le
singole persone, con il popolo d’Israele e col “nuovo” Israele, con la creazione
intera. Non con “un dialogo che spaventa” (Mircea Eliade), come in effetti pare
avvenga in molti passi dell’AT, ma per mezzo azioni di liberazione, di
“costruzione” (Ger 1,10; 31,4) della salvezza. Il Dio cristiano si rivela nella
storia come Padre, Figlio e Spirito Santo. Gesù parla di Dio, parlando della
sua relazione con il Padre (cf. Gv passim). In particolare l’espressione
giovannea “Dio è amore” (1Gv 4,8) può essere interpretata “in Dio è relazione,
quindi dialogo”. Qui si trova anche un dato fondamentale della spiritualità
cristiana: tutti sono chiamati ad accogliere e a sviluppare la loro identità
(dignità, immagine e somiglianza di Dio, libertà, carismi, esistenza in quanto
uomo o donna). Ciò tuttavia è possibile solamente stando in relazione e in
dialogo con l’altro, nel riconoscimento della sua libertà e nella
responsabilità solidale comune, gli uni verso gli altri e verso l’intera
creazione. Il punto di convergenza di questo genere di “dialogo di vita, di
fede e di responsabilità” è descritto molto bene dall’apostolo Paolo: in Cristo
“non c’è più giudeo né greco, né schiavo né libero poiché tutti sono una sola
cosa in Cristo Gesù” (Gal 3,28). Un elemento fondamentale della spiritualità
del dialogo sta quindi non nel porre se stessi come un assoluto, ma nell’essere
servi dell’altro e nel vedere in Cristo sia il punto di partenza sia quello di
arrivo di una cammino comune.
Mai questo mi era stato così chiaro e convincente come
durante una visita che ho compiuto la domenica delle Palme del 1997, come
superiore generale, con alcuni fratelli della famiglia francescana al
patriarcato serbo-ortodosso di Belgrado. Fummo invitati a prendere parte alla
liturgia divina, presieduta dal patriarca Pavle. Per spiegare ai fedeli della
sua Chiesa la nostra presenza e il significato di una tale visita di amicizia,
mentre si profilava il pericolo di una nuova guerra balcanica, egli si servì di
un’immagine che è comune alla teologia ecumenica: a prescindere dalla Chiesa o
confessione a cui apparteniamo, noi tutti siamo in una relazione di obbedienza
al Signore, il quale sta al centro. Come parti della “periferia” siamo, in
certo modo, molto lontani tra di noi. Nella misura tuttavia in cui dalla
periferia ci muoviamo verso il centro, non solo ognuno si avvicina a Cristo, ma
ci avviciniamo gli uni gli altri, ai fratelli e alle sorelle di altre chiese e
confessioni, di altre culture e religioni.
NUOVA CREAZIONE
E VITA IN PIENEZZA
Il più importante punto di partenza per una spiritualità
del dialogo e della relazione per i cristiani si trova nel modo di concepire
Dio. Il Dio cristiano è in se stesso comunione e relazione al suo interno
(Trinità). Anche verso l’esterno (rivelazione) egli, secondo l’insegnamento
della Scrittura dell’antico e nuovo Testamento, non è mai statico, ma un Dio
sempre dinamico, che crea rapporti e comunione, che si manifesta nell’invio e
nel destino di Cristo e nella costante presenza dello Spirito Santo nella
Chiesa. Ma il Dio cristiano non crea solo spazi di incontro e di amore. Egli è
amore (1Gv 7,16). Per mezzo del dono di sé in Cristo e la promessa della
costante presenza dello Spirito, in cui, finché esisterà la storia umana,
avranno sempre il loro spazio il ricordo, l’attualizzazione e “l’anticipo delle
cose nuove” e quindi “la “profezia”, cresce la “vita in pienezza” (Gv 1 4,8s),
diventeranno possibili sempre nuove relazioni tra gli uomini, sul fondamento
della pari dignità davanti a Dio (cf. Gal 3,28), e inizia, anche se forse in
maniera ancora indecifrabile e non sempre facile da interpretare, una nuova
creazione per tutti (cf. Rm 8).
L’autorivelazione di Dio per mezzo del Figlio nello
Spirito Santo fonda un “nuovo popolo” (1 Pt 9-10), fonda la Chiesa. La
partecipazione al corpo e al sangue di Cristo (1 Cor 10,16s) è l’espressione
sacramentale-visibile di questa comunione. Ma essa ha anche un aspetto
interpersonale e sociale: la comunità che testimonia il Risorto, che prende
parte al corpo e sangue di Cristo ed è unita in questo sacramento è il luogo
della condivisione, della solidarietà dell’aiuto reciproco tra i membri che la
compongono, ma anche con le comunità sparse nel mondo e le chiese locali tra di
loro. Nella comunione universale delle comunità e delle chiese particolari,
nella diversità riconciliata tra fratelli e sorelle di diversa razza, origine e
nazione sotto l’unico Signore come cristiani vediamo un dono già presente dello
Spirito. Ma è anche un compito permanente per tutti i cristiani e le chiese
testimoniare meglio la fondamentale unità, e nella solidarietà, amicizia e apertura
radicarla più profondamente nella storia, celebrarla in maniera sempre più
visibile, nella liturgia come anche nella vita. A causa del Vangelo e nella
comune preoccupazione per la vita del mondo e del cosmo, bisogna sottolineare
più ciò che unisce di quello che ancora innegabilmente ci divide, e rendere più
forti le forze della guarigione di quelle chiare o latenti dell’esclusione.
NELLA COM-PASSIONE
PER I POVERI ED EMARGINATI
I religiosi dovranno perciò oggi lasciarsi interpellare
in maniera più radicale che mai sulla loro ragion d’essere: qual è il senso
della tua esistenza in questa epoca della globalizzazione, della violenza, del
dominio di coloro che sono economicamente forti sui deboli, delle molteplici
forme di “incomunicabilità” tra culture e religioni? Quale immagine di Dio, di
Cristo e della sua Chiesa porti in te stesso? Che cosa ascolti?
Penso che la Chiesa nel suo insieme e in essa la vita
consacrata debbano assumere in maniera del tutto nuova la spiritualità
dell’obbedienza descritta in Fil 2: è la via dell’annientamento, della discesa
dall’alto al basso, la via della debolezza, della non violenza, della vicinanza
ai poveri e a tutta la creazione che Dio stesso ha scelto nel Cristo. Una
siffatta spiritualità di “kenosis”, proprio nel mondo postmoderno è un
presupposto indispensabile per poter tessere un rapporto e un dialogo, per
farsi prossimi e essere capaci di com-passione con i poveri e gli emarginati.
Un atteggiamento del genere non minaccia nessuno, né con l’ideologia, né con la
forza, il dominio culturale o la saccenteria. Una spiritualità dialogica del
genere non si esprime con discorsi moraleggianti, ma soprattutto con il
silenzio e l’ascolto. Essa è aperta alla vita, alla sofferenza e alle
esperienze di fede degli altri. È una forma moderna di “mistica della
compassione”, una “mistica dagli occhi aperti”. J. B. Metz scrive: “Parlare di
Gesù Dio significa inevitabilmente parlare della sofferenza degli altri,
deplorare la responsabilità ignorata, la solidarietà rifiutata”.
SERVIZIO
CHE LIBERA
Tutte le forme di sequela – come tutta la Chiesa – hanno
il compito di trasformare il mondo in vista del compimento definitivo in
Cristo, che è l’opera stessa dello Spirito Santo. I consigli evangelici di
povertà, castità e obbedienza devono essere intesi come un servizio alla vita
del mondo, come sorgenti di energia spirituale, a partire dai quali la Chiesa e
il mondo possono essere positivamente trasformati. Essi consentono di
partecipare al suo pellegrinaggio terreno, e anche alla sua sofferenza e morte.
Essi tuttavia sono qualcosa di più. Permettono di partecipare anche alla
risurrezione di Cristo, alla sua glorificazione e all’invio dello Spirito, alla
trasformazione del mondo in vista della sua forma definitiva. Sono a servizio
del compimento della creazione, a servizio della vita. Sono, a modo loro,
ricordo di Gesù e profezia in quello Spirito che è effuso sul mondo dal Padre e
dal Figlio.
I consigli evangelici possiedono un loro atteggiamento di
fondo: la libertà di mettersi a servizio del regno di Dio e della sua
giustizia. Il loro intento è quello dell’amore e del servizio alla vita ed esso
non è dettato da una legge, ma è molto creativo, ricco di intuizione e
liberante. La povertà, la castità celibe e l’obbedienza costituiscono una forma
di legame con il Dio della vita e dell’amore. Sono allo stesso tempo
un’espressione dell’invio, che porta al mondo l’amore affinché tutti abbiano la
vita e riconoscano l’amore di Dio. Una forma di vita siffatta è significativa
se è intesa profeticamente, se volge lo sguardo ai propri contemporanei al di
là dell’esistente, se rende sensibili alla liberazione degli uomini, di tutti
coloro che sono oggetto di abuso, sono maltrattati e non amati. Ci insegna a
vivere in modo tale da donare vita a tutti e alla creazione. La logica della
rinuncia per il regno dei cieli non è una logica di rinnegamento della vita o
una fuga dal mondo, ma è un sì alla vita e un volgersi amoroso al mondo. È
un’opzione per la vita e un impegno soprattutto là dove essa è minacciata. È un
sì deciso all’inculturazione del Vangelo nel mondo d’oggi così come è.
SPIRITUALITÀ
DI PRESENZA
Nella teologia contemporanea della missione e
dell’inculturazione, ma anche della vita religiosa, viene attribuito un
significato tutto particolare alla testimonianza di vita. Infatti in una
società secolare come quella dell’occidente, ma anche di fronte alla
molteplicità di religioni e ideologie in un contesto globale la testimonianza
dialogica cristiana di vita – che non esclude altre forme di testimonianza, ma
le accoglie come una ricchezza – forse è la via più importante del Vangelo e
della sua inculturazione. Nell’atteggiamento di obbedienza di Gesù (Fil 2) essa
crea spazi per il superamento della violenza e di ogni forma di esclusione, per
l’incontro, il dialogo, la comunione, la stima, la fiducia e la pace.
In che modo Gesù ha incontrato gli uomini? In che modo
era presente ad essi? “Tutti” volevano toccarlo di persona o almeno toccargli
l’orlo del mantello (cf. Mt 5,27-28 e passi paralleli) per la forza che usciva
da lui (cf. Lc 16,19) e agiva in maniera così liberatoria. Anche lui in diverse
circostanze ha toccato le persone per guarirle. Ma un abbraccio esplicito lo
dona solo a un fanciullo (Mc 9,36).
Un caratteristico abbraccio liberatore e la restituzione
a un contesto di vita pieno di significato si trovano tuttavia soprattutto nel
racconto del ritorno del figlio prodigo (Lc 15,11-32), che il padre accoglie
tra le sue braccia. Esso è rappresentativo dell’azione risanatrice di Dio nei
riguardi della singola persona, ma anche in tutta e per tutta la creazione: il
buio e l’assurdo devono diventare luminosi, ciò che è malato essere risanato, e
gli individui essere “riportati a casa” dall’isolamento e dalla solitudine.
Nella “presenza che risana”, negli incontri che guariscono nei contatti e
abbracci sono da scorgere dei segni della tutela e del compimento della
creazione. E anche un ricordo che “Dio ha fatto bene tutte le cose” (Mc 7,37).
Sono un atto di fede in Dio che si schiera dalla parte dei poveri (Lc 4,18) e
crea anche oggi cose nuove – spazi di vita, di speranza, di rapporti che
risanano e non distruggono tra gli uomini e nella creazione. Sono espressione
di quell’amore liberante che Dio ha verso la canna incrinata e il lucignolo
fumigante.
I gesti, gli atteggiamenti e i rapporti di dialogo che
liberano, tutelano e proteggono non sono mai possessivi e umilianti. Sono
piuttosto invitanti, rispettosi, pacifici, gesti che custodiscono, proteggono,
consolano e riconciliano. Ricordano in maniera concreta come effettivamente la
salvezza che viene da Dio percorre le vie umane. Vie della relazione,
dell’incontro, del camminare insieme, del dialogo fiducioso come nel racconto
di Emmaus (Lc 24).
DUE ESEMPI
DI PRESENZA
Ancora due esempi dalla storia. Anzitutto l’intuizione
missionaria di fondo di Francesco d’Assisi: noi vediamo in lui soprattutto un
atteggiamento di incontro con l’“altro” che fa parte della prassi di vita della
sequela. Egli abbracciò fuori della mura della città un lebbroso. La città
medioevale era disposta in genere in maniera concentrica. Al centro vivevano i
ricchi e i potenti, i “maiores”. Più ci si allontanava dal centro, più ci si
mischiava con la gente comune, i minores. Ai margini vivevano i mendicanti. E
completamente fuori, senza alcun rapporto con l’ambiente sociale della “città”
di allora, vivevano i lebbrosi. Abbracciare uno di essi voleva dire liberarlo
dall’isolamento e riportarlo nella casa comune di vita.
Di lui come è noto viene riferito anche un altro
straordinario incontro: quello con il “feroce lupo di Gubbio”. La leggenda
vuole anche che in un’altra città dell’Umbria venisse data la caccia a un’altra
pericolosa belva. Francesco le andò incontro, l’abbracciò e addomesticò
rendendola un abitante ben visto del comune.
L’espressione più importante della sua spiritualità
missionaria si trova nella cosiddetta Regola non bollata: “I frati che escono,
possono muoversi spiritualmente tra di essi (i musulmani) in due modi. Il primo
consiste nel non suscitare discussioni o contese, ma nell’essere sottomessi per
amore di Dio ad ogni creatura (1Pt 2,13) e confessare di essere cristiani.
L’altro, nell’annunciare la parola di Dio quando vedono che ciò piace al
Signore”.
In un tempo di lotte violente tra il cristianesimo e
l’islam egli, indifeso, si affida alla forza trasformante dell’incontro
personale col sultano, al dialogo di vita e così conquistò, in mezzo alla
battaglia, l’amicizia del capo musulmano. Era convinto che il Vangelo può
“giungere” solo quando i suoi ambasciatori e ambasciatrici lasciano trasparire
nella propria debolezza la forza del Signore e del suo vangelo e portano nel
proprio corpo la povertà del Gesù terreno.
“Nel mondo devono andare senza contese o discussioni”,
essere presenti, non mettersi sopra gli altri, essere capaci di ascolto, non
vantarsi e non appropriarsi di cose superflue, e predicare più attraverso la
credibilità che non con le parole – queste erano e sono le forme elementari
della missione e della promozione della pace allora come oggi. L’annuncio esplicito
e il battesimo vengono dopo questa concezione della testimonianza di vita e
l’“essere sottomessi”.
I cristiani sono chiamati a trattare con gli altri e con
l’intera creazione in maniera nuova: per essi ciò che conta non sono le
strutture gerarchiche, basate sull’autorità o la sfruttamento. Essi scelgono
l’attenzione reciproca e la fraternità. La decisione di essere-sottomessi
caratterizza in maniera decisiva questa concezione della missione. Anziché
voler sottomettere gli altri alla propria esclusiva verità o al potere politico
del proprio campo, i frati sono esortati a essere sottomessi agli altri, ossia
ai musulmani. Del resto Dio stesso si manifesta in una condizione di umiltà,
come si constata nella persona di Gesù. L’umiltà di Dio consente di aprirsi
alla presenza dello Spirito anche tra gli aderenti di un’altra religione.
Questa apertura e tolleranza verso gli altri non portano a rinunciare alla
propria identità cristiana. Questo atteggiamento poggia sulla convinzione che
l’unico e vero Dio supera tutti i confini della teologia, della spiritualità e
del culto e che la ricerca di lui e del suo regno induce tutti gli uomini a una
ricerca comune della verità e a una comune responsabilità verso la creazione.
Una spiritualità del genere del resto si trova anche nei
sette monaci trappisti di Tibhirine, rapiti e uccisi in Algeria nel 1996 dai
fondamentalisti, e nell’arcivescovo domenicano di Orano, Pierre de Claverie, il
quale il 1° agosto 1996 fu ucciso da un gruppo di terroristi, assieme al suo
autista musulmano. Claverie era convinto che il posto della Chiesa e dei
religiosi si trovasse sul luogo di rottura tra i blocchi umani, soprattutto
dove gli uomini sono feriti, isolati ed emarginati. Si sentiva in Algeria come
religioso, sacerdote e vescovo nel posto giusto. L’esistenza dialogica nei
luoghi di rottura per lui costituiva l’essenza della sequela e la migliore
risposta cristiana al reale o presunto confronto provocato dai fondamentalisti
tra religiosi e culture. Claverie e i trappisti di Tibhirine ci ricordano che
la presenza dialogica oggi forse è la più importante testimonianza del Vangelo,
ma che la speranza della riconciliazione nei numerosi luoghi di rottura della
società contemporanea e nell’intimo stesso, dell’uomo può diventare anche una
via della croce e del martirio.
CONSEGUENZE
CONCLUSIVE
Da una rinnovata spiritualità dell’incontro e della
relazione con Dio, degli uni con gli altri e con l’“altro”, e con la creazione,
può derivare per i cristiani una durevole solidarietà, in base alla quale insieme
ci impegniamo per un cielo nuovo e una nuova terra. La liberazione dei poveri e
la solidarietà non sono mai una “prestazione”. La vera solidarietà è piuttosto
frutto di una nuova modalità di incontro, di percezione della realtà, di una
nuova cultura dell’ascolto, di obbedienza allo Spirito del Signore. La vera
solidarietà nasce dal contatto con una nuova realtà, che lo Spirito di Dio può
donare, dal cambiamento frutto di un vero incontro.
Gli ordini e gli altri istituti religiosi devono essere
come dei laboratori per la Chiesa, che nella presenza creatrice dello Spirito
in un mondo pluralistico e fatto di più linguaggi religiosi conserva la sua
chiara identità, ma nello stesso tempo rimane anche segno della sua nuova
missionarietà, in una volontà e capacità di dialogo.
È sempre più evidente che la missione, che ha la sua
origine in Dio, il quale si comunica trinitariamente e in maniera missionaria
agli uomini, deve essere in linea di principio dialogica.
Ciò indica una dinamica, un movimento di trasformazione
in cui anche coloro che vi partecipano cambiano. Dove ci sono persone che si
pongono in questa esperienza di Dio in cui deve avere la sua origine ogni
partecipazione alla missione, dove ci sono persone che celebrano e testimoniano
nella Parola, nei sacramenti e nella vita la presenza di Dio e creano, mediante
incontri che risanano e liberano, uno spazio in cui poter crescere nella
pienezza di vita, alla quale sono chiamati tutti gli uomini e l’intera
creazione, qui si manifesta la realtà di Dio e del suo Regno.
Una chiesa cattolica che è realmente Chiesa universale e
quindi comunione e laboratorio di dialogo può offrire un programma che
riconcilia e risana e costruisce ponti anziché muri.
Essa sarebbe allora la realizzazione di quell’utopia
della riconciliazione già attuata nell’incarnazione di Cristo, di pace per
tutti e della ricomposizione di realtà diverse in un’unica unità. Questo
programma, dalla cui piena attuazione rimarremo sempre naturalmente molto
lontani, può essere il modello di una globalizzazione umana, allo scopo, come
di continuo ha ripetuto Giovanni Paolo II, di opporre alla globalizzazione del
profitto e della povertà, una globalizzazione della solidarietà.
Una contemplativa del Congo ebbe a dirmi una volta: “Puoi
evangelizzare solo ciò anche ami con il cuore”.
Fr. Hermann Schalück