GLI ISTITUTI E L’IMPEGNO MISSIONARIO

DIALOGO VIA DELLA MISSIONE

 

Il dialogo nelle attuali circostanze esprime in modo nuovo il vecchio impegno missionario della vita consacrata. In un mondo pluralistico e fatto di più linguaggi, gli istituti religiosi devono essere come dei “laboratori” per la Chiesa, e segno della sua nuova missionarietà, mediante una precisa volontà e capacità di dialogo.

 

Il mese di ottobre ci offre l’opportunità di tornare a riflettere sul tema della missione “ad gentes” e sulle nuove prospettive e modalità che oggi l’esprimono e l’accompagnano, tenuto conto anche delle nuove accentuazioni ecclesiologiche maturate nei tempi recenti. P. Hermann Schalück, direttore della Internationales Katholisches Missionswerk, di Aquisgrana, e autore di queste riflessioni, non è nuovo ad approfondimenti di un tema come questo. Offriamo queste sue recenti riflessioni soprattutto a coloro che operano più direttamente nel campo della missione tra i popoli di diverse culture e religioni.

Da circa due secoli si parla sempre più, almeno in Europa e nel Nord America, di crisi di identità degli istituti religiosi. In effetti, il tentativo di avviare una nuova partenza creativa nel mondo moderno pluralistico e globalizzato è un compito che riguarda tutti. In questo mio contributo vorrei cercare di far vedere come l’esercizio del dialogo culturale e interreligioso rappresenti per le comunità religiose un compito che nelle attuali circostanze esprime in modo nuovo il vecchio impegno missionario della vita consacrata. I cristiani, discepoli di Gesù, cooperano, in obbedienza al Vangelo, al carisma di fondazione e ai segni della realtà presente, a plasmare il mondo e a parlare in maniera nuova di Dio.

Una seconda osservazione: anche il termine e la prassi della missione sono esposti a vari malintesi. Invio (missione), tuttavia, è un termine fondamentale nella Bibbia, nella Chiesa, nella teologia e spiritualità. Non possiamo rinunciare ad esso nonostante tutte le difficoltà storiche che l’hanno accompagnata. Dobbiamo piuttosto riappropriarcene nell’attuale contesto mondiale, caratterizzato da indifferenza, da concezioni religiose pluralistiche e non ultimo da esperienze di una violenza religiosamente motivata. “Messa per lungo tempo in secondo ordine, forse perfino resa sospetta, spesso passata sotto silenzio, la parola missione acquista nuovo significato” (card. K. Lehmann). È chiaro che ciò non deve avvenire in un’affermazione monologica di sé, ma in una rinnovata, sensibile prassi di incontro e di dialogo con le singole persone, con i rappresentanti delle altre religioni e culture. “Il dialogo è il nuovo modo di essere Chiesa”, ebbe a dire Paolo VI. E nel primo incontro di preghiera per la pace ad Assisi (1986), Giovanni Paolo II disse: “Con i credenti delle altre fedi noi siamo fratelli e sorelle di viaggio. Ci troviamo tutti in cammino sulla stessa strada verso la meta che Dio ci prepara”.

 

NUOVE ACCENTUAZIONI

ECCLESIOLOGICHE

 

Il concilio Vaticano II ha posto nuovi accenti sull’unica missione della Chiesa: la missione in quanto invio, trasmissione, il non esistere per se stessi non è un’attività accanto a tante altre, ma appartiene alla natura della Chiesa. Nella seconda metà del secolo scorso nel modo di concepire la missione della Chiesa cattolica è avvenuta una svolta copernicana: da un’autoreferenzialità (ecclesiocentrica) si è passati a un’apertura al mondo. La Chiesa non è fine a se stessa, ma deve essere un segno visibile tra i popoli della edificazione del regno di Dio e della sua giustizia (LG). Una delle affermazioni più importanti del Vaticano II è che l’unica Chiesa di Gesù Cristo, nel suo insieme e per tutti i tempi, è per sua natura missionaria, vale a dire, dinamica, comunicativa, relazionale, dialogica, impegnata a dare la vita al mondo, e coopera a plasmare il futuro del mondo” (GS). In ogni caso ciò significa anche: una Chiesa che crea solidarietà sia con i lontani sia con i vicini.

La continua effusione dello Spirito di Dio su questo mondo implica l’impegno a comprendere il mondo e la creazione come un intreccio di vita derivante dalla mano di Dio. La coscienza della missio Dei in Cristo e nel suo Spirito ci offre uno sguardo solidale sugli “altri”, vicini e lontani. Ci dà la consapevolezza della responsabilità che tutti abbiamo gli uni verso gli altri. Pone la base della solidarietà interpersonale, allaccia e rafforza anche i rapporti sociali e mondiali. In una parola: la fede libera; la fede fonda la solidarietà. La fede nel Dio della vita crea spazi di vita comune e di speranza comune. Per i cristiani, la fonte caratteristica della solidarietà sul piano mondiale sta nella consapevolezza che lo Spirito del Signore crea vita e che la sequela di Cristo apre gli occhi e i cuori alla compassione, al camminare insieme, all’amore e all’aiuto reciproco (cf. Mt 5,3-12).

Giungiamo così direttamente a uno dei problemi centrali riguardanti il futuro degli istituti religiosi oggi. Nel difficile e laborioso processo di rinnovamento e di “rifondazione” della vita religiosa una cosa è chiara: il significato della vita consacrata non sta in quello che essa fa ma in ciò che dovrebbe essere: luogo di esperienza di Dio, “testimonianza di Dio nel mondo d’oggi”, in obbedienza alla missio Dei, anticipazione del regno di Dio, anche se in maniera ancora esitante e a piccoli passi. Questo compito permanente e fondamentale degli ordini e delle congregazioni è inserito in quello basilare della Chiesa, ossia di non porsi come un assoluto, ma essere in tutto strumento e sacramento della salvezza che viene da Cristo. Gli istituti religiosi sono perciò significative rappresentazioni “quasi sacramentali” (W. Kasper) e profetiche di ciò che la Chiesa è, di ciò che è la vita secondo le beatitudini, della vita secondo lo Spirito, di una fede vissuta in maniera radicale che lascia tutto per guadagnare tutto. La Chiesa, e tutto ciò che la costituisce, serve il regno di Dio, la sua giustizia e la sua pace e annuncia con la parola e la testimonianza che Dio è la vita e vuole la vita ( e non la miseria e la morte) per la sua creazione.

Gli ordini e tutti gli istituti di vita consacrata sono perciò segno della trascendenza, vale a dire, segno di ciò e di chi è Dio e del suo disegno sulla storia. Nonostante tutti i condizionamenti storici, essi sono segni escatologici che interpretano il tempo e insieme indicano oltre il tempo e ricordano che la storia dell’umanità e del cosmo è in definitiva una storia di salvezza e di liberazione, che attende il suo compimento, una storia non solo di tragedia e di peccato, ma di dono del perdono, dei nuovi orizzonti, della sempre nuova incarnazione del Vangelo. Chi ricorda ancora all’uomo postmoderno con la sua religiosità a-storica e spesso puramente interiore e in parte esoterica e à la carte (fatta di propria scelta) questa prospettiva? Per tutte le forme di vita religiosa oggi è una sfida fondamentale non solo cooperare in maniera particolare con coloro che sono incaricati della missio ad gentes, ma anche di trovare la loro più profonda identità nella missione: una missione che in prima linea non si comprende a partire da una presunta e sicura posizione in quanto attività di “conversione dell’altro”, ma in primo luogo come incontro di “ascolto attivo” e contemplativo e come incontro dialogico con l’altro in un processo di reciproco arricchimento, di comprensione e di conversione.

 

LA MISSIONE ELEMENTO

FONDAMENTALE DELLA VC

 

Bisogna partire pertanto da un dato fondamentale della vita consacrata tenendo presente ciò che ha scritto Giovanni Paolo II nell’omonimo documento: la vita religiosa continua in modo speciale la missione di Cristo e dello Spirito, la rappresenta, la attualizza, l’incarna e la contestualizza in ogni epoca della storia.

La vita religiosa, secondo questo documento (72), è sempre in missione. Anzi, è “missione”. Essa rappresenta in maniera esemplare che cosa significa Chiesa missionaria. Senza il rapporto con l’ “invio” di Gesù e con l’obbedienza a lui, senza la coscienza della presenza dinamica del suo Spirito nella Chiesa, nel mondo, nella creazione e anche nelle altre religioni la vita religiosa non avrebbe alcun fondamento. Essa deve parlare in maniera particolare di Dio, deve leggere i segni dei tempi a partire dall’incontro con Dio e dalla contemplazione e vivere in una fedeltà dinamica nuove modalità della trasmissione della fede e dell’evangelizzazione (73). Testualmente: “La storia missionaria testimonia il grande contributo da essi dato all’evangelizzazione dei popoli: dalle antiche famiglie monastiche fino alle più recenti fondazioni impegnate in maniera esclusiva nella missione ad gentes, dagli istituti di vita attiva a quelli dediti alla contemplazione, innumerevoli persone hanno speso le loro energie in questa “attività primaria della Chiesa” (VC 78). E ciò deve avvenire soprattutto in una spiritualità missionaria di dialogo e di incontro con gli “altri”.

 

IN PRINCIPIO

ERA LA RELAZIONE

 

La nostra tradizione e la nostra spiritualità cristiana si ispirano chiaramente all’affermazione che all’inizio era la Parola (Gv 1,1). La filosofia e l’antropologia derivate dalla tradizione giudaico-cristiana della prima metà del secolo XX preferiscono dire invece: “All’inizio era la relazione”. Filosofi come Martin Buber e Franz Rosenzweig descrivono l’esistenza umana non come una monade esistente in se stessa ma come una relazione io-tu. L’uomo può avere autonomia, capacità di articolazione, dignità, capacità di giudizio e creatività solo se si comprende come parte di una rete di relazioni. Può essere uomo in senso pieno, solo quando può amare, ascoltare, rispondere, pregare. In altre parole: quando ha imparato a vivere in relazione con un tu, con l’altro, con l’ambiente, con Dio in una “esistenza dialogica” (Martin Buber). Gli uomini non vengono chiamati all’esistenza per condurre un monologo. “Noi siamo un dialogo” (Hölderlin). Una persona che non ha imparato a entrare in relazione non può sviluppare in senso pieno la sua dignità e la sua somiglianza con Dio. La capacità di dialogo va perciò definita come capacità di relazione. Ciò richiede un processo di apprendimento che non termina mai e dura tutta la vita. L’esercizio del dialogo e della relazione è sempre anche un passo di spoliazione e di trascendenza di sé che può comportare incertezze e provocare sofferenze. È la via dell’obbedienza al Padre, la via dell’obbedienza della Chiesa alla Spirito che la guida.

Non esiste altra via in grado di guidare la propria vita, la propria fede e la propria spiritualità nelle varie tappe verso la maturità e la pienezza di Cristo.

 

DAL MONOLOGO

AL DIALOGO

 

Il monologo, in quando discorso, azione o progetto di vita, è una strada a senso unico. Il dialogo al contrario è un evento che fin dall’inizio prende coscienza dell’altro, percepisce la realtà che ci circonda ed entra in relazione con essa. L’individuo che cerca il dialogo, ed è egli stesso “dialogo”, fin dall’inizio qualifica se stesso e la propria azione in base alla percezione di non essere solo uno che dà, ma anche uno che riceve e “giunge a parlare” in maniera migliore e più durevole quanto più ascolta ed è “obbediente”: “Ogni discorso si basa sul dialogo vicendevole” (Wilhelm von Humbolt). Questo scambio ha bisogno di tempo, fa parte della storia umana e la plasma (la crescita dell’uomo, la sua formazione, la sua vocazione, le sue attività creative, la sua competenza sociale, la sua capacità di amare e di essere solidale). In questo scambio si trova in effetti un nuovo “essere-per-gli altri” (Levinas). Il vero e il bello, come anche tutte le virtù e i valori umani non possono essere raggiunti dalle prestazioni di un singolo soggetto: al contrario sono frutto dello scambio, il punto d’arrivo di un cammino fatto insieme, il punto finale sulla via della comune responsabilità verso la vita e verso la creazione. La struttura dialogica della natura umana acquista la sua massima visibilità nella complementarietà tra uomo e donna. Ambedue gli esseri sono dotati della stessa dignità, vale a dire, sono fondamentalmente uguali sia secondo la tradizione giudaico-cristiana sia secondo la concezione moderna secolare dei diritti umani. L’unico essere umano viene raggiunto e vissuto in senso pieno solo quando l’uomo e la donna percepiscono e vivono le loro differenze come complementari in ordine allo stesso fine. Qualcosa di simile si può dire nei riguardi della pluralità delle razze, culture e religioni: tutte sono molto diverse le une dalle altre. In origine ciò tuttavia non costituisce un assoluto. Soltanto “per le persone e i sistemi totalitari con modelli di pensare e di agire esclusivi queste differenze sono un assoluto”. La pluralità insita nella realtà umana e presente nell’intera realtà è quindi un costante invito alla relazione, ossia al dialogo, all’attuazione di convergenze per costruire insieme il mondo.

L’esercizio del dialogo e della capacità di relazione per tutta la vita significa l’esercizio di una spiritualità e di un modo di trasmettere la fede che proprio nel nostro mondo occidentale può avere un futuro.

Incontrare l’altro in forma dialogica vuol dire incontrare l’altra persona all’“altezza dello sguardo”, redimerlo e liberarlo nella sua solitudine e desiderio di un rapporto significativo. Vuol dire ancora riconoscere i propri limiti, lasciarsi arricchire dall’altro, creare insieme significato e valori a vantaggio del bene di tutti e della creazione.

 

PER UNA SPIRITUALITÀ

MISSIONARIA

 

I cristiani riusciranno plasmare la loro vita come comunione della Chiesa di Cristo e come esistenza dialogica solidale se si ispireranno alla relazione che è presente in Dio e nella sua Trinità. Questa “unità nella diversità” non è frutto della speculazione individuale. È un dato della storia della salvezza: Dio stesso entra in relazione con il mondo, con le singole persone, con il popolo d’Israele e col “nuovo” Israele, con la creazione intera. Non con “un dialogo che spaventa” (Mircea Eliade), come in effetti pare avvenga in molti passi dell’AT, ma per mezzo azioni di liberazione, di “costruzione” (Ger 1,10; 31,4) della salvezza. Il Dio cristiano si rivela nella storia come Padre, Figlio e Spirito Santo. Gesù parla di Dio, parlando della sua relazione con il Padre (cf. Gv passim). In particolare l’espressione giovannea “Dio è amore” (1Gv 4,8) può essere interpretata “in Dio è relazione, quindi dialogo”. Qui si trova anche un dato fondamentale della spiritualità cristiana: tutti sono chiamati ad accogliere e a sviluppare la loro identità (dignità, immagine e somiglianza di Dio, libertà, carismi, esistenza in quanto uomo o donna). Ciò tuttavia è possibile solamente stando in relazione e in dialogo con l’altro, nel riconoscimento della sua libertà e nella responsabilità solidale comune, gli uni verso gli altri e verso l’intera creazione. Il punto di convergenza di questo genere di “dialogo di vita, di fede e di responsabilità” è descritto molto bene dall’apostolo Paolo: in Cristo “non c’è più giudeo né greco, né schiavo né libero poiché tutti sono una sola cosa in Cristo Gesù” (Gal 3,28). Un elemento fondamentale della spiritualità del dialogo sta quindi non nel porre se stessi come un assoluto, ma nell’essere servi dell’altro e nel vedere in Cristo sia il punto di partenza sia quello di arrivo di una cammino comune.

Mai questo mi era stato così chiaro e convincente come durante una visita che ho compiuto la domenica delle Palme del 1997, come superiore generale, con alcuni fratelli della famiglia francescana al patriarcato serbo-ortodosso di Belgrado. Fummo invitati a prendere parte alla liturgia divina, presieduta dal patriarca Pavle. Per spiegare ai fedeli della sua Chiesa la nostra presenza e il significato di una tale visita di amicizia, mentre si profilava il pericolo di una nuova guerra balcanica, egli si servì di un’immagine che è comune alla teologia ecumenica: a prescindere dalla Chiesa o confessione a cui apparteniamo, noi tutti siamo in una relazione di obbedienza al Signore, il quale sta al centro. Come parti della “periferia” siamo, in certo modo, molto lontani tra di noi. Nella misura tuttavia in cui dalla periferia ci muoviamo verso il centro, non solo ognuno si avvicina a Cristo, ma ci avviciniamo gli uni gli altri, ai fratelli e alle sorelle di altre chiese e confessioni, di altre culture e religioni.

 

NUOVA CREAZIONE

E VITA IN PIENEZZA

 

Il più importante punto di partenza per una spiritualità del dialogo e della relazione per i cristiani si trova nel modo di concepire Dio. Il Dio cristiano è in se stesso comunione e relazione al suo interno (Trinità). Anche verso l’esterno (rivelazione) egli, secondo l’insegnamento della Scrittura dell’antico e nuovo Testamento, non è mai statico, ma un Dio sempre dinamico, che crea rapporti e comunione, che si manifesta nell’invio e nel destino di Cristo e nella costante presenza dello Spirito Santo nella Chiesa. Ma il Dio cristiano non crea solo spazi di incontro e di amore. Egli è amore (1Gv 7,16). Per mezzo del dono di sé in Cristo e la promessa della costante presenza dello Spirito, in cui, finché esisterà la storia umana, avranno sempre il loro spazio il ricordo, l’attualizzazione e “l’anticipo delle cose nuove” e quindi “la “profezia”, cresce la “vita in pienezza” (Gv 1 4,8s), diventeranno possibili sempre nuove relazioni tra gli uomini, sul fondamento della pari dignità davanti a Dio (cf. Gal 3,28), e inizia, anche se forse in maniera ancora indecifrabile e non sempre facile da interpretare, una nuova creazione per tutti (cf. Rm 8).

L’autorivelazione di Dio per mezzo del Figlio nello Spirito Santo fonda un “nuovo popolo” (1 Pt 9-10), fonda la Chiesa. La partecipazione al corpo e al sangue di Cristo (1 Cor 10,16s) è l’espressione sacramentale-visibile di questa comunione. Ma essa ha anche un aspetto interpersonale e sociale: la comunità che testimonia il Risorto, che prende parte al corpo e sangue di Cristo ed è unita in questo sacramento è il luogo della condivisione, della solidarietà dell’aiuto reciproco tra i membri che la compongono, ma anche con le comunità sparse nel mondo e le chiese locali tra di loro. Nella comunione universale delle comunità e delle chiese particolari, nella diversità riconciliata tra fratelli e sorelle di diversa razza, origine e nazione sotto l’unico Signore come cristiani vediamo un dono già presente dello Spirito. Ma è anche un compito permanente per tutti i cristiani e le chiese testimoniare meglio la fondamentale unità, e nella solidarietà, amicizia e apertura radicarla più profondamente nella storia, celebrarla in maniera sempre più visibile, nella liturgia come anche nella vita. A causa del Vangelo e nella comune preoccupazione per la vita del mondo e del cosmo, bisogna sottolineare più ciò che unisce di quello che ancora innegabilmente ci divide, e rendere più forti le forze della guarigione di quelle chiare o latenti dell’esclusione.

 

NELLA COM-PASSIONE

PER I POVERI ED EMARGINATI

 

I religiosi dovranno perciò oggi lasciarsi interpellare in maniera più radicale che mai sulla loro ragion d’essere: qual è il senso della tua esistenza in questa epoca della globalizzazione, della violenza, del dominio di coloro che sono economicamente forti sui deboli, delle molteplici forme di “incomunicabilità” tra culture e religioni? Quale immagine di Dio, di Cristo e della sua Chiesa porti in te stesso? Che cosa ascolti?

Penso che la Chiesa nel suo insieme e in essa la vita consacrata debbano assumere in maniera del tutto nuova la spiritualità dell’obbedienza descritta in Fil 2: è la via dell’annientamento, della discesa dall’alto al basso, la via della debolezza, della non violenza, della vicinanza ai poveri e a tutta la creazione che Dio stesso ha scelto nel Cristo. Una siffatta spiritualità di “kenosis”, proprio nel mondo postmoderno è un presupposto indispensabile per poter tessere un rapporto e un dialogo, per farsi prossimi e essere capaci di com-passione con i poveri e gli emarginati. Un atteggiamento del genere non minaccia nessuno, né con l’ideologia, né con la forza, il dominio culturale o la saccenteria. Una spiritualità dialogica del genere non si esprime con discorsi moraleggianti, ma soprattutto con il silenzio e l’ascolto. Essa è aperta alla vita, alla sofferenza e alle esperienze di fede degli altri. È una forma moderna di “mistica della compassione”, una “mistica dagli occhi aperti”. J. B. Metz scrive: “Parlare di Gesù Dio significa inevitabilmente parlare della sofferenza degli altri, deplorare la responsabilità ignorata, la solidarietà rifiutata”.

 

SERVIZIO

CHE LIBERA

 

Tutte le forme di sequela – come tutta la Chiesa – hanno il compito di trasformare il mondo in vista del compimento definitivo in Cristo, che è l’opera stessa dello Spirito Santo. I consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza devono essere intesi come un servizio alla vita del mondo, come sorgenti di energia spirituale, a partire dai quali la Chiesa e il mondo possono essere positivamente trasformati. Essi consentono di partecipare al suo pellegrinaggio terreno, e anche alla sua sofferenza e morte. Essi tuttavia sono qualcosa di più. Permettono di partecipare anche alla risurrezione di Cristo, alla sua glorificazione e all’invio dello Spirito, alla trasformazione del mondo in vista della sua forma definitiva. Sono a servizio del compimento della creazione, a servizio della vita. Sono, a modo loro, ricordo di Gesù e profezia in quello Spirito che è effuso sul mondo dal Padre e dal Figlio.

I consigli evangelici possiedono un loro atteggiamento di fondo: la libertà di mettersi a servizio del regno di Dio e della sua giustizia. Il loro intento è quello dell’amore e del servizio alla vita ed esso non è dettato da una legge, ma è molto creativo, ricco di intuizione e liberante. La povertà, la castità celibe e l’obbedienza costituiscono una forma di legame con il Dio della vita e dell’amore. Sono allo stesso tempo un’espressione dell’invio, che porta al mondo l’amore affinché tutti abbiano la vita e riconoscano l’amore di Dio. Una forma di vita siffatta è significativa se è intesa profeticamente, se volge lo sguardo ai propri contemporanei al di là dell’esistente, se rende sensibili alla liberazione degli uomini, di tutti coloro che sono oggetto di abuso, sono maltrattati e non amati. Ci insegna a vivere in modo tale da donare vita a tutti e alla creazione. La logica della rinuncia per il regno dei cieli non è una logica di rinnegamento della vita o una fuga dal mondo, ma è un sì alla vita e un volgersi amoroso al mondo. È un’opzione per la vita e un impegno soprattutto là dove essa è minacciata. È un sì deciso all’inculturazione del Vangelo nel mondo d’oggi così come è.

 

SPIRITUALITÀ

DI PRESENZA

 

Nella teologia contemporanea della missione e dell’inculturazione, ma anche della vita religiosa, viene attribuito un significato tutto particolare alla testimonianza di vita. Infatti in una società secolare come quella dell’occidente, ma anche di fronte alla molteplicità di religioni e ideologie in un contesto globale la testimonianza dialogica cristiana di vita – che non esclude altre forme di testimonianza, ma le accoglie come una ricchezza – forse è la via più importante del Vangelo e della sua inculturazione. Nell’atteggiamento di obbedienza di Gesù (Fil 2) essa crea spazi per il superamento della violenza e di ogni forma di esclusione, per l’incontro, il dialogo, la comunione, la stima, la fiducia e la pace.

In che modo Gesù ha incontrato gli uomini? In che modo era presente ad essi? “Tutti” volevano toccarlo di persona o almeno toccargli l’orlo del mantello (cf. Mt 5,27-28 e passi paralleli) per la forza che usciva da lui (cf. Lc 16,19) e agiva in maniera così liberatoria. Anche lui in diverse circostanze ha toccato le persone per guarirle. Ma un abbraccio esplicito lo dona solo a un fanciullo (Mc 9,36).

Un caratteristico abbraccio liberatore e la restituzione a un contesto di vita pieno di significato si trovano tuttavia soprattutto nel racconto del ritorno del figlio prodigo (Lc 15,11-32), che il padre accoglie tra le sue braccia. Esso è rappresentativo dell’azione risanatrice di Dio nei riguardi della singola persona, ma anche in tutta e per tutta la creazione: il buio e l’assurdo devono diventare luminosi, ciò che è malato essere risanato, e gli individui essere “riportati a casa” dall’isolamento e dalla solitudine. Nella “presenza che risana”, negli incontri che guariscono nei contatti e abbracci sono da scorgere dei segni della tutela e del compimento della creazione. E anche un ricordo che “Dio ha fatto bene tutte le cose” (Mc 7,37). Sono un atto di fede in Dio che si schiera dalla parte dei poveri (Lc 4,18) e crea anche oggi cose nuove – spazi di vita, di speranza, di rapporti che risanano e non distruggono tra gli uomini e nella creazione. Sono espressione di quell’amore liberante che Dio ha verso la canna incrinata e il lucignolo fumigante.

I gesti, gli atteggiamenti e i rapporti di dialogo che liberano, tutelano e proteggono non sono mai possessivi e umilianti. Sono piuttosto invitanti, rispettosi, pacifici, gesti che custodiscono, proteggono, consolano e riconciliano. Ricordano in maniera concreta come effettivamente la salvezza che viene da Dio percorre le vie umane. Vie della relazione, dell’incontro, del camminare insieme, del dialogo fiducioso come nel racconto di Emmaus (Lc 24).

 

DUE ESEMPI

DI PRESENZA

 

Ancora due esempi dalla storia. Anzitutto l’intuizione missionaria di fondo di Francesco d’Assisi: noi vediamo in lui soprattutto un atteggiamento di incontro con l’“altro” che fa parte della prassi di vita della sequela. Egli abbracciò fuori della mura della città un lebbroso. La città medioevale era disposta in genere in maniera concentrica. Al centro vivevano i ricchi e i potenti, i “maiores”. Più ci si allontanava dal centro, più ci si mischiava con la gente comune, i minores. Ai margini vivevano i mendicanti. E completamente fuori, senza alcun rapporto con l’ambiente sociale della “città” di allora, vivevano i lebbrosi. Abbracciare uno di essi voleva dire liberarlo dall’isolamento e riportarlo nella casa comune di vita.

Di lui come è noto viene riferito anche un altro straordinario incontro: quello con il “feroce lupo di Gubbio”. La leggenda vuole anche che in un’altra città dell’Umbria venisse data la caccia a un’altra pericolosa belva. Francesco le andò incontro, l’abbracciò e addomesticò rendendola un abitante ben visto del comune.

L’espressione più importante della sua spiritualità missionaria si trova nella cosiddetta Regola non bollata: “I frati che escono, possono muoversi spiritualmente tra di essi (i musulmani) in due modi. Il primo consiste nel non suscitare discussioni o contese, ma nell’essere sottomessi per amore di Dio ad ogni creatura (1Pt 2,13) e confessare di essere cristiani. L’altro, nell’annunciare la parola di Dio quando vedono che ciò piace al Signore”.

In un tempo di lotte violente tra il cristianesimo e l’islam egli, indifeso, si affida alla forza trasformante dell’incontro personale col sultano, al dialogo di vita e così conquistò, in mezzo alla battaglia, l’amicizia del capo musulmano. Era convinto che il Vangelo può “giungere” solo quando i suoi ambasciatori e ambasciatrici lasciano trasparire nella propria debolezza la forza del Signore e del suo vangelo e portano nel proprio corpo la povertà del Gesù terreno.

“Nel mondo devono andare senza contese o discussioni”, essere presenti, non mettersi sopra gli altri, essere capaci di ascolto, non vantarsi e non appropriarsi di cose superflue, e predicare più attraverso la credibilità che non con le parole – queste erano e sono le forme elementari della missione e della promozione della pace allora come oggi. L’annuncio esplicito e il battesimo vengono dopo questa concezione della testimonianza di vita e l’“essere sottomessi”.

I cristiani sono chiamati a trattare con gli altri e con l’intera creazione in maniera nuova: per essi ciò che conta non sono le strutture gerarchiche, basate sull’autorità o la sfruttamento. Essi scelgono l’attenzione reciproca e la fraternità. La decisione di essere-sottomessi caratterizza in maniera decisiva questa concezione della missione. Anziché voler sottomettere gli altri alla propria esclusiva verità o al potere politico del proprio campo, i frati sono esortati a essere sottomessi agli altri, ossia ai musulmani. Del resto Dio stesso si manifesta in una condizione di umiltà, come si constata nella persona di Gesù. L’umiltà di Dio consente di aprirsi alla presenza dello Spirito anche tra gli aderenti di un’altra religione. Questa apertura e tolleranza verso gli altri non portano a rinunciare alla propria identità cristiana. Questo atteggiamento poggia sulla convinzione che l’unico e vero Dio supera tutti i confini della teologia, della spiritualità e del culto e che la ricerca di lui e del suo regno induce tutti gli uomini a una ricerca comune della verità e a una comune responsabilità verso la creazione.

Una spiritualità del genere del resto si trova anche nei sette monaci trappisti di Tibhirine, rapiti e uccisi in Algeria nel 1996 dai fondamentalisti, e nell’arcivescovo domenicano di Orano, Pierre de Claverie, il quale il 1° agosto 1996 fu ucciso da un gruppo di terroristi, assieme al suo autista musulmano. Claverie era convinto che il posto della Chiesa e dei religiosi si trovasse sul luogo di rottura tra i blocchi umani, soprattutto dove gli uomini sono feriti, isolati ed emarginati. Si sentiva in Algeria come religioso, sacerdote e vescovo nel posto giusto. L’esistenza dialogica nei luoghi di rottura per lui costituiva l’essenza della sequela e la migliore risposta cristiana al reale o presunto confronto provocato dai fondamentalisti tra religiosi e culture. Claverie e i trappisti di Tibhirine ci ricordano che la presenza dialogica oggi forse è la più importante testimonianza del Vangelo, ma che la speranza della riconciliazione nei numerosi luoghi di rottura della società contemporanea e nell’intimo stesso, dell’uomo può diventare anche una via della croce e del martirio.

 

CONSEGUENZE

CONCLUSIVE

 

Da una rinnovata spiritualità dell’incontro e della relazione con Dio, degli uni con gli altri e con l’“altro”, e con la creazione, può derivare per i cristiani una durevole solidarietà, in base alla quale insieme ci impegniamo per un cielo nuovo e una nuova terra. La liberazione dei poveri e la solidarietà non sono mai una “prestazione”. La vera solidarietà è piuttosto frutto di una nuova modalità di incontro, di percezione della realtà, di una nuova cultura dell’ascolto, di obbedienza allo Spirito del Signore. La vera solidarietà nasce dal contatto con una nuova realtà, che lo Spirito di Dio può donare, dal cambiamento frutto di un vero incontro.

Gli ordini e gli altri istituti religiosi devono essere come dei laboratori per la Chiesa, che nella presenza creatrice dello Spirito in un mondo pluralistico e fatto di più linguaggi religiosi conserva la sua chiara identità, ma nello stesso tempo rimane anche segno della sua nuova missionarietà, in una volontà e capacità di dialogo.

È sempre più evidente che la missione, che ha la sua origine in Dio, il quale si comunica trinitariamente e in maniera missionaria agli uomini, deve essere in linea di principio dialogica.

Ciò indica una dinamica, un movimento di trasformazione in cui anche coloro che vi partecipano cambiano. Dove ci sono persone che si pongono in questa esperienza di Dio in cui deve avere la sua origine ogni partecipazione alla missione, dove ci sono persone che celebrano e testimoniano nella Parola, nei sacramenti e nella vita la presenza di Dio e creano, mediante incontri che risanano e liberano, uno spazio in cui poter crescere nella pienezza di vita, alla quale sono chiamati tutti gli uomini e l’intera creazione, qui si manifesta la realtà di Dio e del suo Regno.

Una chiesa cattolica che è realmente Chiesa universale e quindi comunione e laboratorio di dialogo può offrire un programma che riconcilia e risana e costruisce ponti anziché muri.

Essa sarebbe allora la realizzazione di quell’utopia della riconciliazione già attuata nell’incarnazione di Cristo, di pace per tutti e della ricomposizione di realtà diverse in un’unica unità. Questo programma, dalla cui piena attuazione rimarremo sempre naturalmente molto lontani, può essere il modello di una globalizzazione umana, allo scopo, come di continuo ha ripetuto Giovanni Paolo II, di opporre alla globalizzazione del profitto e della povertà, una globalizzazione della solidarietà.

Una contemplativa del Congo ebbe a dirmi una volta: “Puoi evangelizzare solo ciò anche ami con il cuore”.

 

Fr. Hermann Schalück