PACE IN BURUNDI DOPO 12 ANNI DI GUERRA
ORA È TUTTO DA RICOSTRUIRE
Il neo eletto
presidente Nkurunziza eredita un paese devastato dalla guerra, con le casse
dell’erario vuote, con un debito estero vertiginosamente alto e una quantità di
altri problemi da risolvere, legati alla ricostruzione. Ma almeno ora c’è la
pace
e si può ripartire.
Dopo decenni di attesa, dodici anni di guerra e migliaia
e migliaia di morti, il 19 agosto il Burundi ha eletto il nuovo presidente
della repubblica. Questa è una data nella storia del paese che non è esagerato
chiamare storica. Essa segna una svolta impensabile nella storia di questo
piccolo, tormentato paese dell’Africa centrale che è uno stato indipendente dal
1962, ma che non ha praticamente conosciuto mai pace. Una svolta impensabile,
perché sembrava che ormai questo paese dovesse vivere sempre nel conflitto
razziale, nell’instabilità e nel conseguente sottosviluppo. Il nuovo presidente
della repubblica è Pierre Nkurunziza, 40 anni, docente all’università nazionale
del Burundi, ma dal 1993 nell’opposizione armata che ha combattuto durante
questi ultimi dodici anni contro l’esercito nazionale. Da due anni aveva
lasciato le armi, insieme con il suo gruppo il CNDD-FDD (Comitato nazionale di
difesa della democrazia – Fronte di difesa della democrazia) emanazione del
partito degli Hutu (FRODEBU), ed era entrato nel governo del Presidente
Domitien Ndayizeye (FRODEBU) come ministro de la bonne gouvernance.
La lunga marcia iniziata con gli accordi di Arusha
dell’agosto 2000 ha finalmente raggiunto la meta. L’ha raggiunta con nove mesi
di ritardo, ma è giunta alla fine del percorso. Dopo aver vinto le varie
elezioni che hanno segnato questo percorso finale della transizione, dopo aver
cioè adottato la costituzione, eletti i consiglieri comunali, i deputati e i senatori,
il partito CNDD-FDD si è aggiudicato quest’ultima tornata elettorale. Il
risultato era scontato perché esso detiene ora la maggioranza assoluta nelle
due camere. Il suo leader Pierre Nkurunziza era il candidato unico. L’elezione,
per questa prima volta dopo la cessazione delle ostilità, non è stata a
suffragio universale, come prevedrebbe la costituzione, ma a camere riunite. Il
risultato è stato plebiscitario, ben oltre i due terzi richiesti dalla
costituzione: 151 elettori sui 166 presenti hanno votato per Pierre Nkurunziza
elettori. La vittoria di Pierre Nkurunziza, come per coincidenza dice il suo
nome, che significa “Lieto annunzio”, è stata davvero un lieto annunzio, nel
senso almeno che questa elezione mette fine alla guerra, anche se il PALIPEHUTU-FNL
di Agathon Rwasa non ha ancora deposto le armi. Ma si tratta di un gruppo
abbastanza limitato, la cui azione sembra ormai patetica, visto che non ha
senso combattere un governo che non c’è più, mentre questo è un governo voluto
democraticamente.
MA NON È ANCORA
LA FINE DEI PROBLEMI
Il nuovo presidente è stato solennemente proclamato il 26
agosto u.s. alla presenza di alcuni capi di stato e delle delegazioni di molti
governi europei e africani. Se sono molti a esultare per questa vittoria e se si
può dire che essa arriva ad un momento di relativa tranquillità per il paese,
va anche subito detto che essa non produce automaticamente la risoluzione dei
molti problemi i quali rimangono, purtroppo, ancora sul tavolo e attendono
soluzioni che sono impegnative e cariche di conseguenze per il paese. Ma almeno
ora c’è un potere che è legale, che nessuno può contestare in nome di brogli e
di colpi di forza. Il segretario generale delle Nazioni Unite, felicitandosi
con il neo eletto presidente, gli ha ricordato gli impegni che gli stanno
davanti in poche telegrafiche parole: “Ulteriori riforme, consolidamento della
pace, riconciliazione nazionale, ricostruzione e sviluppo”.
In realtà Nkurunziza eredita un paese devastato dalla
guerra, con le casse dell’erario vuote, con un debito estero vertiginosamente
alto e che nessuna nazione ha mai proposto di cancellare, con un bisogno
estremo di aiuti e finanziamenti che nessuno è interessato a fornire perché non
ci sono esportazioni che li garantiscano. Il paese è povero e non offre che
pochi prodotti esportabili: solo caffè, tè, cotone e zucchero. Il Burundi
inoltre presenta oggi una fisionomia non troppo incoraggiante e attraente
perché il tessuto sociale è tutto da ricostruire se si vuole che la gente
lavori e produca e dia quindi garanzia ai paesi finanziatori. Infatti il
tessuto sociale del Burundi è stato non solo sfilacciato, ma stracciato da
dodici anni di guerra. Se le tensioni etniche forse si possono comporre, non
così la convivenza e la collaborazione tra i cittadini. Situazioni di
ingiustizia consolidatesi attraverso anni di impunità e di privilegi, di
malversazioni e di corruzione, di cattiva amministrazione e truffe organizzate,
lasciano il paese saturo di rabbia, odio e di voglia di vendetta. Questa è probabilmente
la partita più difficile che Nkurunziza si troverà davanti.
Una partenza difficile aggravata da un altro fatto: in
questi ultimi mesi molti rifugiati burundesi rientrano dalla Tanzania, dalla
Repubblica Democratica del Congo (RDC) e dal Rwanda. Rientrano dopo un lungo
periodo di assenza e sognano di ritrovare il loro itongo, la loro terra, quella
che hanno lasciata ma che essi considerano ancora loro. La terra è per un
burundese il bene più prezioso, fonte di vita e di sicurezza. Essi rientrano,
ma trovano questo loro terreno occupato da altri che difficilmente lo
abbandoneranno. È facile immaginare che questa sarà causa di ulteriori problemi
in un paese piccolo e sovraffollato come è il Burundi (7.094.000 abitanti –
stima 2003 – su 27.834 km2) le cui terre sono già quasi completamente occupate.
Un altro problema è, come già accennato sopra, quello
dell’esubero di militari e gendarmi (poliziotti). Ce ne sono ancora 30.000 da
smobilitare, da pagare e da reinserire nella società. In questi ultimi tempi
nel paese è cresciuta quella che si chiama la criminalità comune, che certi
chiamano “minore”, si fa per dire, quei banditi cioè che di notte assaltano a
mano armata la gente per farsi dare denaro e cose di valore, e che nessun
politico o militare si preoccupa di frenare. Non è per nessuno un mistero che
molti di questi ladri e banditi sono degli ex-militari, smobilitati o da
smobilitare. Far restituire le armi, sarà un’impresa ardua che, comunque,
richiederà un tempo lungo nel quale la credibilità del nuovo governo potrebbe
essere finire erosa se non addirittura perduta.
Bisogna poi ricostruire il paese. Le infrastrutture
sanitarie periferiche sono quasi ovunque messe in scacco dai danni prodotti
dalla guerra, dalla mancanza di medicine e, quando queste ci sono, dagli stessi
infermieri che, non essendo pagati, si rifanno alle spalle della gente. La
stessa cosa vale per le scuole, dove ormai da anni il corpo insegnante, mal
pagato o per nulla pagato, scende ripetutamente in sciopero, senza tuttavia ottenere
nulla, perché le casse dello stato sono irrimediabilmente vuote. Ora questa
situazione non potrà essere sostenuta più a lungo.
La speranza è che rivengano le ONG che hanno lasciato il
Burundi in questi anni di guerra, ma anche in questo caso il possibile ritorno
è compromesso dalla regressione economica che affligge l’Europa e che riduce di
molto e spesso spegne completamente il flusso dei capitali per la cooperazione
che fino all’inizio della guerra del 1993 erano la forza dei volontari e la
speranza del paese.
Infine il governo del Burundi dovrebbe rilanciare
l’industria, il commercio e il turismo che erano, prima della recente guerra,
la principale fonte d’entrata. Ma per questo devono finire le ostilità e il
paese deve anche affrancarsi dalla tutela che in questi anni hanno esercitato
su di lui gli stati limitrofi, una tutela che, se ha riportato la calma, non è
stata tuttavia del tutto disinteressata. C’è già un primo accordo firmato dal
Burundi con il Rwanda per la soluzione del problemi dei rifugiati. C’è da
sperare che questo faciliti la soluzione dei contenziosi e non ne crei di
nuovi.
LA SCONFITTA
DEI PARTITI STORICI
La vittoria del CNDD-FDD ha fatto crollare il FRODEBU che
si attendeva di vincere queste elezioni per il solo fatto di essere il partito
dell’etnia maggioritaria hutu e dell’attuale presidente Ndayizeye che, malgrado
incertezze e ritardi, aveva preparato questo giorno. Così non è stato.
Dilaniato da lotte interne per la leadership, impegolato nella corruzione e nel
malgoverno, il FRODEBU che pure ha giocato un ruolo nella pacificazione del
paese, esce dalle elezioni sonoramente sconfitto come del resto anche l’altro
partito storico, l’UPRONA, di ispirazione tutsi che si rifà al padre
dell’indipendenza, il principe Louis Rwagasore. Quest’ultimo partito, che ha
dominato il paese per quarant’anni, è quasi scomparso. Certamente questi due
partiti dovrebbero domandarsi come mai hanno perduto la fiducia del popolo.
Sicuramente la gente ha visto che essi erano più preoccupati di spartirsi il
potere che di chiudere le ostilità e di preoccuparsi del bene comune. Ora molti
tutsi sono confluiti nel CNDD-FDD, che geneticamente sarebbe un partito Hutu,
creando così una situazione che potrebbe essere favorevole al superamento della
dialettica etnica, ma che potrebbe essere anche il seme di una futura paralisi
del partito. Dipenderà molto da come Nkurunziza saprà gestire il potere e saprà
comporre il governo del paese con la gestione del partito senza cadere in
pericolosi cortocircuiti, di cui s’avvantaggerebbero solo coloro che vogliono
che continui il caos per poter perseguire i propri interessi privati.
Perché, e questo è il grande rischio, la guerra è
arrivata solo a un armistizio, non a un autentico trattato di pace. In realtà
tutti sanno che la guerra non può dirsi conclusa finché non si concluderà anche
quella che si combatte in Congo. Finché anche al di là del lago Tanganika non
ci sarà la pace, la guerra sarà sempre come un fuoco che cova sotto la cenere,
sempre pronto a ravvivarsi o a essere ravvivato da chi ha l’interesse a farlo.
IL RUOLO
DELLA RELIGIONE
Un ultimo dettaglio che non lascia molto tranquilli è la
persona di Pierre Nkurunziza e la sua dichiarata fede cristiana. Egli è un
protestante metodista, che afferma con convinzione che le promesse che egli non
riuscirà a mantenere, ci penserà Dio a realizzarle per lui. Per questo ha
invitato i suoi concittadini a “lavorare pregando e a pregare lavorando”.
Questa affermazione che potrebbe essere quella di un padre spirituale, lascia
perplessi molti burundesi. Non che non apprezzino che una persona sia credente.
In Burundi anche prima dell’evangelizzazione si credeva in Dio, Imana, e tutta
la vita personale e sociale ne era marcata, fin anche sacralizzata. Ma i
burundesi citano anche un altro proverbio “Imana irafashwa” (Imana viene
aiutato) e il suo corrispondente “Imana ifasha uwifashije” (Imana aiuta chi si
aiuta) che, pur affermando la loro fede in Dio, sottolinea anche la
responsabilità umana.
La costituzione che il popolo ha plebiscitariamente
approvato il 28 febbraio scorso afferma che il Burundi è uno stato laico, di
quella giusta laicità che rispetta tutte le religioni e collabora con esse
nell’autononia delle due sfere, religiosa e civile. Per questo qualcuno ha
ricordato che la Bibbia non deve in nessun modo prendere il posto della
costituzione. Potremo vedere alla svelta se la fede cristiana del presidente
riesce a collocarsi dentro il quadro del paese senza escludere nessuno, ma
facilitando a tutti l’esercizio delle giuste libertà. Di tutto c’è bisogno meno
che di una deriva fondamentalistica!
La presenza della Chiesa e delle chiese in Burundi è
sempre stata visibile e percepibile. Qualche volta essa si è sostituita alla
latitanza dello stato. In occasione della lotta di resistenza dei cosiddetti
ribelli invece essa è diventata quasi impercettibile. Forse ora il CNDD-FDD
potrebbe sentire il bisogno di togliersi qualche sassolino dalla scarpa nei
confronti della chiesa cattolica. La figura del nuovo presidente della
Repubblica che non è cattolico ce lo farà vedere alla svelta. Ma forse questa
sarà una grazia che porterà la Chiesa a trovare quella giusta libertà nei
confronti dello stato che finora non è stata sempre chiara e visibile.
Gabriele Ferrari
s.x.