CONVEGNO GIOVANI BENEDETTINI IN FORMAZIONE

DIALOGO IN COMUNITÀ

 

Il dialogo analizzato nella sua prospettiva teologica e antropologica. Condizione perché diventi strumento di comunicazione sono la libertà e la costanza di fronte a eventuali difficoltà e passi attraverso il nodo vitale dell’ascolto. Messe a tema anche le nuove esperienze di vita monastica.

 

Il dialogo e la comunicazione all’interno della vita comunitaria costituiscono due aspetti fondamentali del vivere insieme come persone consacrate. Ma per realizzarsi esigono una matura comprensione della comunicazione, basata sul fondamento della fiducia reciproca e del rispetto dell’altro, la libertà interiore e l’esercizio assiduo dell’ascolto.

A queste conclusioni è giunto il convegno dei giovani benedettini in formazione della congregazione cassinese e della provincia italiana della congregazione sublacense, che si è tenuto dal 18 al 23 luglio nell’abbazia di san Martino delle Scale a Palermo, sul tema il dialogo in comunità. Insieme ai postulanti, novizi e professi temporanei delle due congregazioni benedettine cosiddette sorelle, per la particolare vicinanza che le lega, vi hanno preso parte anche due monache del monastero di Civitella san Paolo. Per l’incontro di quest’anno in qualità di relatori sono stati invitati il p. abate Bruno Marin, abate presidente della congregazione sublacense, p. Calogero Peri o.f.m. cap., docente di antropologia filosofica alla Pontificia facoltà teologica di Sicilia e don Mario Torcivia, docente di teologia spirituale presso lo Studio s. Paolo di Catania. Il convegno, oltre a ribadire il valore e l’importanza del dialogo e della comunicazione all’interno della vita comunitaria, ha sottolineato la necessità di aprirsi verso una matura comprensione e attualizzazione della comunicazione, basata sulla fiducia reciproca e sul rispetto dell’altro.

 

PROSPETTIVA TEOLOGICA

E ANTROPOLOGICA

 

La prima relazione è stata tenuta dal p. Peri e si è incentrata sull’analisi del tema in una duplice prospettiva, antropologica e teologica. La prospettiva teologica, ha affermato il relatore, «è quella che ci porta direttamente al cuore del dialogo e della stessa teologia, al cuore in altri termini del mistero di Dio, che va innanzitutto ascoltato e obbedito». Il problema del dialogo e delle sue forme di attualizzazione non riguarda tanto questioni di esercizio, quanto un atteggiamento di disponibilità e di ascolto del dialogo divino. Il dialogo è infatti l’essere di Dio, e in questo senso vuol dire che tratta di una problematica umana nella misura in cui è una problematica divina. Il vero dialogo in fondo è una rivelazione che Dio Padre ci fa mediante il Figlio nello Spirito Santo. È proprio nel mistero della Trinità che esso affonda le sue radici. Dire che Dio è Trinità significa dire che è comunione, scambio di vita. L’unità in Dio è data perciò dalla relazione. Nel mistero di Dio è presente la natura divina (principio di unità) e le persone (principio di distinzione). Il Padre è la fonte, il Figlio è il mediatore e lo Spirito è il frutto, tutti e tre emblematicamente espressi da tre preposizioni precise: dal – per – nello. Il problema pertanto che si pone alla base del dialogo – ha proseguito Peri – è quello della relazione con gli altri e con noi stessi. Senza relazione non esiste né l’uomo, come Dio lo ha pensato, né tantomeno Dio, come egli si è voluto rivelare. Dio si è rivelato una volta per sempre in Gesù, il quale era sempre orientato verso il Padre e questo ci dice che il nostro essere è un essere direzionale, avente come direzione specifica Dio e gli altri.

Il dialogo è dunque il linguaggio universale di Dio, il quale in Gesù ha voluto costituire un ponte tra cielo e terra. Dimenticare la radice divina del dialogo equivarrebbe a farlo morire. Bisogna poi considerare che, nella fattispecie del contesto di una vita comunitaria, il cammino è sempre più lento rispetto a quello individuale, ma ciò che, per così dire, “interessa” a Dio non è che qualcuno tagli il traguardo, ma che ciascuno si muova, si orienti verso la giusta direzione!

Altro elemento fondamentale affinché si realizzino le condizioni per un vero dialogo è la libertà. Se una persona non è libera da se stessa e anche dagli altri, non può avere un dialogo serio. Ma è altrettanto vero che non bisogna arrendersi di fronte ai problemi, anzi utilizzare questi per capire meglio e di più se stessi. I problemi che viviamo – ha ribadito nuovamente p. Peri – rappresentano una sorta di lente di ingrandimento sulla nostra situazione umana e spirituale. La difficoltà in altri termini non dice soltanto qualcosa sull’altro, ma prima di tutto su noi stessi, e la risoluzione non sta nell’interrompere il rapporto e il dialogo, ma nell’attraversarlo e percorrerlo.

Considerando poi la prospettiva antropologica, il relatore ha sottolineato il contenuto del dialogo che viene rappresentato dal Lógos. Cristo è sia lógos che diálogos ossia è parola, ma anche parola tra persone. La struttura dialogica ha l’essere e l’immagine della Trinità: questa è stata offuscata dal peccato che ha operato una sorta di frattura, uno scisma tra l’uomo e Dio, ma anche tra l’uomo e l’uomo. Dio allora si è messo alla ricerca dell’uomo per ripristinare e creare nuovi orizzonti e prospettive.

 

ASCOLTO

BASE DELLA COMUNICAZIONE

 

Nella seconda relazione, l’abate Bruno Marin si è soffermato in modo particolare sulla comunicazione e il dialogo in comunità. Questa dovrebbe essere il luogo privilegiato della comunicazione e del dialogo. Il relatore ha messo in evidenza come una delle difficoltà più forti per vivere il dialogo è rappresentata dalla mancanza di fiducia, sia a livello personale che istituzionale, per cui la persona risulta essere confinata in se stessa. Ed è questo “confine” a costituire il problema, perché ogni comunicazione-dialogo per essere veramente tale deve avere un doppio movimento di andata e ritorno: spesso invece siamo come molteplici emissioni parallele che non si incrociano mai e se dovessimo farlo ci scontreremmo, perché viaggiamo su direzioni diverse.

Un richiamo importante da parte dell’abate Marin è stato poi rivolto ai possibili equivoci e fraintendimenti: comunicare non vuol dire informare; dialogare non significa semplicemente parlare insieme; fare silenzio non significa essere muti. Comunicare, dialogare e fare silenzio toccano l’essere umano in profondità e non si limitano alla superficie. Nel mondo dell’informatica, il “diluvio”di informazioni a cui siamo soggetti purtroppo neutralizza la vera comunicazione e anche l’informazione stessa. Ogni incontro autentico invece, non solo mi porta a conoscere l’altro, ma sviluppa anche una parte di me che rischierebbe di rimanere atrofizzata e nascosta, e quindi aiuta a conoscermi.

L’abate Marin ha richiamato inoltre l’importante tema dell’ascolto, affermando che «la comunicazione passa attraverso il nodo vitale di questo fondamentale atteggiamento». Pensiamo a un genitore: il suo compito non è solo quello di donare la vita e non si esaurisce in questo, ma deve anche educare alla vita e insegnare a vivere e per adempiere a questa missione è necessario che ci sia l’ascolto da parte dei figli. L’ascolto dunque è un processo vitale profondo, che sfocia nell’invocazione: il bambino nei primi mesi di vita sente, ride, reagisce alle parole della mamma, finché un giorno giungerà a pronunciare il nome “mamma”. Comunicare e dialogare pertanto hanno il loro punto nevralgico nell’ascolto. Anche la stessa Regola di san Benedetto inizia proprio con il verbo: Obsculta, o fili, ascolta, o figlio. Queste parole costituiscono potremmo dire una specie di portale di ingresso per tutta la Regola. Il verbo all’imperativo traduce l’impatto con la realtà quando questa si impone. È qualcosa che tocca e promuove, rende capace di rispondere. È anche una formula tipica dei Libri sapienziali: tutta la Scrittura in fondo può essere vista come una continua rilettura, per cui si parte da “Ascolta, Israele” della Torah e si arriva ad “Ascolta o figlio” dei Libri sapienziali. Lo stesso Gesù si presenta come colui che ascolta il Padre. Con un gioco di parole si potrebbe dire che ascoltando diveniamo figli e in quanto figli possiamo ascoltare. Il vero ascolto è pertanto sempre qualcosa di filiale. In questa prospettiva, la Regola di san Benedetto prima di essere una norma da mettere in pratica, è una sapienza che educa, che deve essere ascoltata appunto. Attualizzando il discorso per i nostri giorni – ha proseguito l’abate Marin – è necessario lo sforzo di mettersi in ascolto della comunità: siamo persone che si ritrovano insieme non per propria volontà, ma per volontà di Dio; persone si potrebbe pensare che hanno “sbagliato”, ma che nello “sbaglio” hanno realizzato la propria vita. Persone che vivono insieme per grazia e non per emozioni. Il vivere in comunità non è quindi un semplice stare insieme. È uno stare insieme che è fatto di vicinanza e “distanza” allo stesso tempo: si prega, si lavora, si mangia insieme, ma si vivono anche momenti di solitudine con Dio e momenti in cui bisogna rispettare la soglia del confratello. La stabilità nel luogo e nel tempo implica poi e comprende la fedeltà e la perseveranza. Stabilità che non è sinonimo di staticità, ma il rimanere nello stesso luogo per tutto il tempo della propria vita deve esigere un continuo dinamismo sia interiore che esteriore e richiede la grande capacità, da parte del monaco, di re-inventarsi giorno dopo giorno. Il fatto poi di diventare fratelli non vuol dire che dobbiamo avere tutti le stesse idee, andare sempre d’accordo: siamo diversi e la diversità talvolta crea scontri, ma non divisioni e fratture.

 

LE NUOVE ESPERIENZE

DI VITA MONASTICA

 

La terza e ultima relazione è stata tenuta da d. Mario Torcivia, e si è concentrata sulle nuove esperienze di vita monastica. Il principale motivo del rinnovamento anche in ambito monastico a cui si assiste da alcuni decenni è da attribuire soprattutto alla riflessione conciliare circa la centralità della chiesa locale e delle mutate esigenze sociali del nostro tempo. A partire dagli anni ’30 fino agli anni ’60 c’è stato uno sviluppo intenso di studi e riflessioni sulla vita monastica (nascita di numerose riviste, pubblicazione di libri e anche la stessa fondazione nel 1953 dell’Istituto monastico presso l’ateneo s. Anselmo di Roma) che si sono riversati in parte anche nel concilio Vaticano II. Il caso più emblematico è sicuramente quello del monastero di Camaldoli e tra le nuove e tante esperienze, inserite in questo contesto, c’è poi da ricordare la nascita del monastero di Bose che ha saputo sviluppare insieme al carisma della vita monastica una particolare sensibilità verso l’ecumenismo.

Il relatore ha poi parlato di una sorta di impermeabilità da parte del monachesimo tradizionale nei confronti della nascita di nuove comunità o del rinnovamento di comunità più antiche. Ciò che caratterizza le nuove comunità – ha sostenuto don Torcivia – è il recupero di una vita vissuta più semplicemente, senza il “peso” della tradizione, e il vivere il proprio carisma all’interno della chiesa locale. Le altre caratteristiche sottolineate sono: la scelta di vivere in edifici piccoli, più facilmente gestibili e vivibili; l’attenzione alla lectio divina e a tutta la tradizione dei padri; la dipendenza dal vescovo; una fraternità più marcata; il rifiuto del presbiterato; il recupero del lavoro manuale.

L’intervento ha suscitato molteplici domande e questioni tra i partecipanti, ma ciò che sembra importante sottolineare è che la via da percorrere non è certo quella di una nuova forma di querelle entre les anciens et les modernes, bensì un maturo atteggiamento di dialogo tra realtà che, pur distinguendosi, attingono alla medesima fonte. È per questa ragione che è assolutamente biasimevole qualsiasi forma di “prerogativa di vita monastica autentica” da qualunque parte essa possa provenire ed è per questo motivo che il monachesimo cosiddetto tradizionale non è da reputare ammuffito o ormai sorpassato, solo perché porta il “peso” della tradizione: come, infatti, nelle nuove forme di vita monastica è presente un richiamo fondamentale al monachesimo antico, così anche nella vita monastica tradizionale è presente la linfa vitale del nuovo, che si manifesta con la presenza dei giovani e che rappresentano una bella testimonianza.

Il convegno si segnala anche per essere stato il primo organizzato soltanto per la congregazione cassinese sublacense (provincia italiana) e si inscrive nel più ampio progetto di riunificazione da parte delle due congregazioni, di cui si avvertiva il sentore già da anni e che ora sembra procedere avanti con maggiore convinzione. A tal proposito è stata istituita una commissione che è composta per parte cassinese dall’abate e vescovo dom Bernardo D’Onorio, dell’abbazia di Montecassino, e da dom Fabrizio Messina Cicchetti, dell’abbazia di san Martino delle Scale, e per parte sublacense dall’abate Mauro Meacci, dell’abbazia santa Scolastica di Subiaco e da p. Donato Ogliari, priore dell’abbazia Madonna della Scala di Noci. Si spera pertanto che il dialogo ormai esistente da diversi anni e a più livelli possa trovare concrete vie di realizzazione ed espressione nelle comunità e tra le comunità.

 

Luigi Maria Di Bussolo

Abbazia di Montecassino