UN SACRAMENTO DA DE-PRIVATIZZARE

L’EUCARISTIA OLTRE LA CELEBRAZIONE

 

L’impegno della comunità cristiana è di trarre l’Eucaristia fuori dalle strettoie in cui l’ha pressappoco abbandonata una mentalità non certo fedele ai testi dei libri ispirati e della vera tradizione della Chiesa. Bisogna de-privatizzarla per noi e per gli altri

e aprirla sulla Chiesa e sul mondo.

 

L’anno dedicato all’Eucaristia sta per finire. A concluderlo sarà il sinodo dei vescovi iniziato il 2 ottobre scorso e destinato a chiudersi il 23. È questo il tempo dello “stupore” programmato da Giovanni Paolo II, della scoperta e della meraviglia, della crescita e della novità. Non si può concludere nelle condizioni con cui si è iniziato. Ci possono aiutare in questo cammino le riflessioni che si sono moltiplicate in questo tempo, specialmente quelle che posseggono il piglio della testimonianza e della profezia.

Uno degli aspetti su cui ci pare necessario riflettere è la necessità di de-privatizzare l’Eucaristia. Il termine è brutto, ma il significato dovrebbe essere abbastanza comprensibile. Tutte le realtà della fede cristiana hanno conosciuto un processo di individualizzazione e di privatizzazione, come se si trattasse di questioni riguardanti soltanto la persona, o l’individuo, presa in se stessa, senza rapporto con gli altri, con la comunità cristiana anzitutto e poi con la comunità umana. Fra queste anche l’Eucaristia, se vogliamo con una forzatura ancora maggiore. Un vizio che si siamo portati dietro e che urta profondamente con i testi della rivelazione cristiana, sia del primo che del nuovo Testamento. Il concilio Vaticano II ha lottato a fondo con questa mentalità, con successi però sempre parziali. Anche Giovanni Paolo II ha parlato criticamente dell’individualismo e dello spiritualismo che ancora permangono nella mentalità cristiana. Un vizio da estirpare.

Gli aspetti sociali del dogma è un libro di Henri de Lubac di diversi decenni fa. Oggi si parlerebbe più giustamente degli “aspetti comunitari”. Il dogma cristiano, tutti i dogmi cristiani, affondano le loro radici in un terreno comunitario e sociale che non può essere disatteso. Così anche il dogma eucaristico, come ci insegnano chiaramente anche i segni del sacramento: pane e vino, cena, banchetto, frazione del pane e si vada dicendo. L’impegno della comunità cristiana è dunque quello di trarre l’Eucaristia fuori dalle strettoie in cui l’ha pressappoco abbandonata una mentalità non certo fedele ai testi dei libri ispirati e della vera tradizione della Chiesa. Bisogna de-privatizzare per noi e per gli altri. Un impegno fortemente sottolineato e raccomandato anche dall’atmosfera culturale in cui oggi ci troviamo, chiaramente aperta alla dimensione sociale.

Fermiamo la nostra riflessione prima sulla Chiesa e poi sul mondo.

 

 “ECCLESIA

DE EUCHARISTIA”

 

Il titolo dell’enciclica di Giovanni Paolo II è un titolo programmatico. La teologia, la predicazione, la catechesi trovano in esso il paradigma delle proprie riflessioni e della conseguente evangelizzazione. Abbiamo già fatto riferimento a questo principio. Basterebbe ricordare in proposito le meravigliose espressioni di sant’Agostino.

Continuiamo la nostra riflessione guardando alla situazione in cui oggi ci troviamo. Dire Chiesa significa dire comunione, comunità, fraternità, uguaglianza e corresponsabilità. Ma non sembra affatto che queste caratteristiche emergano nelle nostre file. Il difetto non può stare dalla parte di Dio, sempre fedele alle sue promesse, ma da parte nostra. La grazia è disponibile, occorre raccoglierla e farla propria nella più completa disponibilità. L’Eucaristia fa certamente la sua parte, si potrebbe dire, più di sempre, agisce ex opere operato; la scarsezza dei risultati dipende allora da chi la riceve: il non ponentibus obicem (chi non pone ostacolo) del concilio di Trento. L’ostacolo è semplicemente nelle nostre mani, l’ostacolo è la nostra pigrizia, la nostra paura, la nostra mediocrità.

La Chiesa eucaristica dovrebbe rifulgere per la sua unità, la sua carità, la sua umiltà, la sua concordia, la sua fraternità. Rifacciamoci, per essere più concreti, alla nostra comunità locale, parrocchiale e sub-parrocchiale come un convento, un gruppo di lavoro, un’associazione. È visibile la comunione di chi ha mangiato e mangia continuamente lo stesso pane? Unum sumus, afferma l’apostolo Paolo. Ricordiamo il prologo dell’inno cristologico della lettera ai Filippesi: «Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso, senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù».

La pluralità di opinioni, una caratteristica che rivendichiamo nella Chiesa di oggi, non deve mai portare alla divisione vera e propria. La divisione di per sé è un ostacolo per la ricezione del sacramento: “Se quando vai all’altare, ti ricordi…” con quel che segue. È il peccato che Paolo rimproverava ai tumultuosi fedeli di Corinto.

Particolare attenzione merita oggi il concetto di uguaglianza: uguaglianza in tutto, sostanzialmente anche economica, come ci ricorda il libro degli Atti degli Apostoli. E uguaglianza anche nella dignità, come vuole il concilio Vaticano II. L’eucaristia fa riferimento anche al ministero di presidenza: l’assemblea liturgica, che esprime in pienezza il mistero della Chiesa, non è anarchia ma comunità organica e strutturata. C’è un consacrato che la presiede in nome di Cristo. Ma c’è sempre da ricordare quanto il Vangelo afferma dell’autorità e quanto i vescovi italiani hanno detto a proposito del ministero ordinato: si tratta, alla base, del ministero della sintesi, dell’armonia, della comunione.

La seconda epiclesi chiede allo Spirito di Gesù il dono dell’unità e della pace. Un dono forse ugualmente grande a quello che invoca la prima epiclesi, cioè il cambiamento del pane e del vino nel corpo, sangue, anima e divinità di nostro Signore Gesù Cristo.

Una rinascita della Chiesa non può attendersi che su queste strade. Nessuno infatti può porre altri fondamenti rispetto a quelli che sono stati già posti dalla sovrana volontà del Padre. Per questo il primo impegno pastorale dev’essere quello relativo all’Eucaristia. Pensare diversamente significa pensare semplicemente l’impossibile. Ma, a queste condizioni, non è forse necessaria una vigorosa e decisa conversione dei singoli e delle comunità? Un’altra decisa conclusione di quest’anno di grazia donatoci dal Signore.

 

IMPLICAZIONI SOCIALI

DELL’EUCARISTIA

 

Si tratta di uno dei grandi insegnamenti di Giovanni Paolo II, su cui è necessaria una profonda riflessione e un’altrettanto profonda conversione da parte della Chiesa. Il Papa del rilancio della dottrina sociale della Chiesa in tutti i suoi scritti ha ribadito la necessità dell’impegno dei cristiani nell’opera di liberazione e di promozione, che particolari contingenze storiche rendono particolarmente urgente. I suoi scritti sull’Eucaristia non fanno eccezione a questo proposito. Giustamente, perché la comunione con il Signore risorto imprime nei fedeli gli stessi sentimenti di amore, di sollecitudine, di misericordia che animarono tutta la sua esistenza.

Rileggiamo quanto egli scrive nella Ecclesia de Eucharistia al n. 20: «Conseguenza significativa della tensione escatologica insita nell’Eucaristia è anche il fatto che essa dà impulso al nostro cammino storico, ponendo un seme di vivace speranza nella quotidiana dedizione di ciascuno ai propri compiti. Se infatti la visione cristiana porta a guardare ai “cieli nuovi” e alla “terra nuova”, ciò non indebolisce, ma piuttosto stimola il nostro senso di responsabilità verso la terra presente. Desidero ribadirlo con forza all’inizio del terzo millennio, perché i cristiani si sentano più che mai impegnati a non trascurare i doveri della loro cittadinanza terrena. È loro compito contribuire con la luce del Vangelo all’edificazione di un mondo a misura d’uomo e pienamente rispondente al disegno di Dio».

Se non andiamo errati, qui occorre un deciso e vigoroso giro di boa nelle nostre riflessioni e nella conseguente azione pastorale. Per rifulgere in questo mondo (cf. EdE 20), la speranza cristiana ha bisogno delle nostre intelligenze e delle nostre braccia. Non soltanto siamo chiamati ad anticipare i beni escatologici di cui siamo in attesa, ma dobbiamo preparare la loro realizzazione, che già comincia a mostrare sulla terra i suoi frutti.

L’Eucaristia si colloca per questo decisamente nelle prospettive del Regno, regno di verità e di vita, di santità e di grazia, di amore, di giustizia e di pace. Quanto è presente questa prospettiva nella educazione del popolo cristiano? Quanto essa arricchisce le nostre preparazioni alla messa di prima comunione? Quanto anima da un capo all’altro le nostre celebrazioni liturgiche specialmente domenicali? Ricordiamo a questo proposito le note e coraggiose parole di san Giovanni Crisostomo, che figurano in più di uno scritto di Giovanni Paolo II (V. nota 34 di EdE). Questa scissione fra Eucaristia e vita, in particolare per quanto concerne l’attenzione al mondo delle povertà, è soprattutto frutto della nostra scarsissima applicazione. È necessario ricorrere presto ai ripari. Ancora una conclusione, tutt’altro che secondaria, dell’anno eucaristico che volge ormai al termine.

Una considerazione che si colloca al centro di quel “progetto di vita” che sta alla base di una autentica spiritualità eucaristica. «L’anno dell’Eucaristia è tempo propizio per dilatare lo sguardo oltre gli aspetti tipicamente celebrativi», a cui normalmente si limitano le nostre preoccupazioni, scrive il documento della Congregazione per il Culto divino (n. 20). La celebrazione si vive e si esperimenta nella vita. L’Eucaristia «non si conclude tra le pareti della chiesa, ma esige di trasformarsi nel vissuto di chi vi partecipa» (ivi). Una normale attenzione che corrisponde in pieno alla odierna sensibilità della Chiesa.

Anche l’Instrumentum laboris del Sinodo dei vescovi insiste su queste implicazioni sociali dell’Eucaristia, sulla «connessione tra Cristo nell’Eucaristia e Cristo presente nei loro fratelli e sorelle, specialmente nei poveri e negli emarginati della società» (n. 79). Abbiamo certamente molto da imparare in questo senso dalle comunità cristiane del sud America.

Lo sguardo è aperto sul mondo, perché ogni Messa è una Messe sur le monde, vicino e lontano. Ci sono le povertà vecchie e nuove che convivono con noi, ci sono le povertà scandalose del terzo e del quarto mondo, che dovrebbero essere al vertice dei pensieri della comunità cristiana, oltre che di tutti gli uomini di buona volontà. C’è il problema della pace, che può essere soltanto costruita sulla giustizia e sul perdono. La responsabilità si fa più grave se pensiamo che il primo mondo, quello dell’opulenza e del sopruso, coincide sostanzialmente con i paesi di tradizione cristiana. Uno scandalo che si riversa pesantemente sulla nostra credibilità.

Dossetti ha scritto a questo proposito considerazioni degne di attenzione. Egli dice: «La missione della Chiesa e del cristiano verso gli uomini ed elettivamente i più piccoli, i più bisognosi e i più peccatori non è un fatto organizzativo: deve scaturire dal pasto sacramentale e sacrificale con il Crocifisso-Risorto». La missione è invio di Cristo, prosecuzione della sua opera di salvezza e di misericordia in favore dell’umanità.

E ancora: «Come la Chiesa riunita nell’assemblea eucaristica è l’epifania anticipata del Regno, così la Chiesa inviata dall’Eucaristia è un’epifania se volete della polis salvata: “politicità” tutta sui generis, che non governa e non ha potere, che non muove verso gli altri per quello che hanno di appetibile, ma unicamente per quello che sono in mysterio (anche se poveri, deformi, incoscienti, in tutto inappetibili): cioè non incontra l’uomo dall’esterno e in superficie, ma lo incontra nel suo “sé” più intimo, più invisibile, più pneumatico, creando e divulgando ovunque -nel seno di ogni società grande o piccola, soprattutto nei micromodelli di comunità nuove che alcuni sociologi laici ora raccomandano- un’atmosfera di rispetto, di comprensione, di fiducia, di valorizzazione degli esclusi, di amore-oblativo indipendente da ogni condizione esterna mutevole che non “avrà mai fine”» (1Cor 13, 8).

 

IL PANE

DELLA MISSIONE

 

Importante la celebrazione in se stessa (la preparazione, l’omelia, il canto, il contegno dei partecipanti, i silenzi necessari per il respiro dell’anima), ma, fatto questo (e non siamo certamente ancora in pari), bisogna aprire le porte della Chiesa. Una comunità che esce dalla celebrazione liturgica, che ha fatto tesoro di tutte le ricchezze in essa contenute, è una comunità missionaria, inviata nel mondo a proseguire, in nome e con la forza dello Spirito, la missione iniziata dal Signore.

Per questo bisogna dare forza maggiore alle parole del congedo. Scrive il documento della Congregazione del Culto divino: «Il congedo con cui si conclude la celebrazione eucaristica non è semplicemente la comunicazione del termine dell’azione liturgica: la benedizione, specialmente con le formule solenni, che precede la dimissione, ci ricorda che usciamo di chiesa con il mandato di testimoniare al mondo che siamo “cristiani”. Lo ricorda Giovanni Paolo II: “Il congedo alla fine di ogni messa costituisce una consegna che spinge il cristiano all’impegno all’impegno per la propagazione del Vangelo e la animazione cristiana della società” (Mane nobiscum Domine, 24». Si usi per questo sempre l’imperativo alla seconda persona plurale. Giusto il richiamo al profeta Elia, cui fu donato il cibo «perché continuasse a svolgere la sua missione, senza cedere di fronte alle difficoltà del cammino».

L’uscita dalla chiesa ricorda da vicino l’inizio del cammino dei cristiani dopo aver ricevuto lo Spirito Santo. Una comunità rinnovata, sospinta da un vento irresistibile, lieta nella speranza, che cammina verso gli estremi confini della terra a recare a tutti il dono che le è stato donato.

 

Giordano Frosini