AMMINISTRAZIONE DEI BENI E VITA CONSACRATA
“I NOSTRI BENISONO DEI POVERI”
Il ruolo poco gratificante degli amministratori. L’insegnamento dei Padri
della Chiesa:
“Non condividere con i poveri i beni, è defraudarli”. Le responsabilità in
campo economico non sono solo degli amministratori, ma anche dei superiori. Uso
profetico ed evangelico dei beni.
Un tema particolarmente delicato, nella
vita delle comunità religiose, è sicuramente anche quello relativo
all’amministrazione dei beni materiali. Secondo una diffusa mentalità
“pauperista” o “angelista”, un religioso o una religiosa impegnati in questo
campo sarebbero “poco spirituali”. La loro attività è vista come avvilente,
poco gratificante, alle volte perfino frustrante per le difficoltà,
l’isolamento e le critiche a cui si viene facilmente esposti.
Allora è forse il caso di dire che la
comunità cristiana, e in particolare le comunità religiose, dovrebbero invece
manifestare una più limpida percezione (insieme a una prassi più illuminata)
della valenza spirituale, di come la fede possa diventare sapienza pratica
anche nell’amministrazione del denaro.
DESTINAZIONE
UNIVERSALE DEI BENI
Il catechismo della Chiesa cattolica
(2402-2404), dopo aver riaffermato il diritto di proprietà sui beni, ribadisce
il principio fondamentale della loro destinazione universale. Non si limita a
una generica affermazione della solidarietà. In modo autorevole e stimolante si
appella, invece, alla coscienza morale, vera e propria, dell’uomo. C’è,
infatti, un piano provvidenziale di Dio per l’uomo, per ogni uomo, che passa
proprio attraverso i beni temporali e che l’uomo è chiamato a riconoscere,
adeguando a quel piano, e non a opzioni socio-politico-economiche, le sue
scelte, i suoi comportamenti. Ogni bene posseduto e non usato dentro una logica
di condivisione, privato della sua funzione di esprimere amore, non usato
secondo la volontà di Dio, è intrinsecamente sottratto a qualcuno, e in tal
senso “rubato”, disonesto.
Anche secondo la Gaudium et spes (63)
la proprietà privata non viene assolutamente negata. Nella sua accezione
cristiana, tutt’altro che “liberista”, essa è, invece, strutturalmente e
costitutivamente una importante occasione per amare. In una comprensione piena
e non riduttiva del settimo comandamento troviamo un implicito invito a poter,
anzi, a dover amare anche con i nostri beni. Se non li sappiamo possedere e
usare serenamente, rischiamo facilmente di tributare loro un culto idolatrico.
Il fatto di possedere un bene,
qualsiasi bene, ci costituisce, per ciò stesso, amministratori della
Provvidenza rispetto a quei beni. Se non lo facciamo, stiamo rubando. San
Giovanni Crisostomo lo ricorda con forza: “Non condividere con i poveri i
propri beni è defraudarli e togliere loro la vita. Non sono nostri i beni che
possediamo: sono dei poveri”. Lo stesso concilio invitando i cristiani ad
adempiere gli obblighi di giustizia, ricorda nello stesso tempo che non si può
offrire come dono di carità “ciò che è già dovuto a titolo di giustizia”
(Apostolicam actuositatem, 8).
Quanto andiamo dicendo potrebbe far
pensare a una specie di “collettivismo marxista”, di comunismo, perlomeno di
una forma di comunismo primordiale. In realtà, non è né comunismo né capitalismo.
È semplicemente la volontà di Dio scritta nella creazione stessa. Forse
dobbiamo seriamente ammettere di non saper sempre usare le nostre reti in modo
cristiano. Non è facile convincerci del fatto di dover finalizzare i nostri
beni in modo diverso.
Anche le scelte amministrative e
finanziarie le possiamo e le dobbiamo certamente giustificare in base agli
interessi della “nostra casa religiosa”, della “nostra congregazione”. Ma se il
centro gravitazionale di queste decisioni non è dettato dalla volontà di Dio,
allora le nostre reti, ossia i nostri beni non servono più a conferire una
pienezza di vita alla nostra consacrazione. Se nell’uso dei nostri beni non
sappiamo entrare in relazione con qualcuno per amarlo, per prenderci cura di
chi è nel bisogno, allora questo vuol dire che quei beni li stiamo rubando. In
questo modo, però, rischiamo di non godere pienamente dei beni di cui
disponiamo, per il semplice fatto che tutto è stato creato per mezzo di Cristo
e in vista di Cristo.
In definitiva, quando doniamo ai poveri
le cose indispensabili, non facciamo loro delle elargizioni personali, ma
rendiamo ciò che spetta a loro. Prima di compiere un atto di carità, adempiamo
semplicemente un dovere di giustizia (san Gregorio Magno). Forse è il caso di
precisare che non stiamo parlando di mera giustizia distributiva ma piuttosto
di felicità, di pienezza di vita autentica, della verifica più convincente
della nostra credibilità davanti al mondo.
San Basilio in un’omelia contro le
ricchezze denunzia il fatto che spesso preferiamo godere da soli di tutti i
nostri beni, invece di servircene per soccorrere i nostri fratelli. «Nella
misura in cui tu abbondi di ricchezze, in questa stessa misura tu sei
manchevole di carità. Se davvero amassi il tuo prossimo, da tempo avresti
pensato di disfarti di ciò che possiedi. La verità, tuttavia, è che i ricchi,
nella grande maggioranza dei casi, non si limitano a ricercare il possesso del
denaro semplicemente per l’acquisto di cibo e del vestiario».
NON BASTA
PREGARE
Sono parole del IV secolo, ma che
mantengono tutta la loro attualità allorché smascherano i meccanismi della
nostra economia consumistica. Poco importa se tutto questo è a scapito di
un’equa distribuzione delle risorse. Occorre dunque non solo condividere i
beni, ma cambiare stile di vita perché questo sia possibile. “So di molti, dice
ancora san Basilio, che digiunano, che recitano preghiere, che gemono e
sospirano, che praticano ogni forma di pietà che non supponga spesa, ma che non
sganciano un soldo per i bisognosi. A che servirà poi tutta questa pietà? Non
per questo li si ammetterà nel regno dei cieli… Se diamo il nome di ladro a chi
spoglia dei propri abiti uno che è vestito, daremo forse altro nome a chi non
veste un ignudo, pur potendolo fare? Il pane che tieni per te è quello
dell’affamato; i vestiti che conservi nelle tue casse sono quelli dell’ignudo;
la calzatura che imputridisce nella tua casa è di colui che va in giro scalzo.
In sostanza: tu stai recando offesa a tutti coloro che potresti soccorrere”.
Solo impropriamente si potrebbe parlare
di “comunismo” nei testi dei Padri della Chiesa. Pur non sottraendosi alle
analisi dei meccanismi sociali e delle strutture inique, anche ecclesiali, a
loro interessa soprattutto la dignità della persona. La solidarietà infatti non
chiede solo che si cambino le strutture inique e se ne immettano altre buone,
ma che ci si converta alla giustizia, perché “è dal cuore che esce ciò che
rende impuro l’uomo” (Mc 7,20 ss). Senza un cuore convertito, anche la miglior
struttura diventa facilmente un sistema di oppressione e sfruttamento del
debole.
Nei Padri della Chiesa dei primi
quattro secoli il tema della solidarietà non ha mai una semplice connotazione
sociologica, ma teologica. Il solidale per eccellenza è stato Cristo, che come
ci ricorda san Paolo, pur essendo Dio non tenne conto della sua dignità, della
sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini, cioè solidale in tutto con la nostra condizione
di vita (Fil 2,5 ss). Se non si comprende la logica dell’incarnazione o la si
nega, è facile sentirsi istintivamente refrattari alla carità e alla
solidarietà
I cristiani non possono limitarsi
semplicemente a gestire i propri beni in modo formalmente “corretto”. Non basta
astenersi dallo sfruttare le persone, evitare gli sprechi. Non basta far
fruttare al massimo le risorse, rivolgendosi al miglior offerente sul mercato
(pecunia non olet). Questo è minimalismo morale. Si tratta piuttosto di
elaborare un modello di gestione economica delle risorse non puramente e non
principalmente fondato nell’utile “commerciale”, mettendo i beni temporali e in
particolare il denaro a servizio dell’opera di Dio, a tutto vantaggio della
persona umana. Solo in questo modo anche la gestione delle risorse può
diventare un gesto profetico. Ci si dovrebbe convincere che si può amare anche
attraverso i beni delle nostre congregazioni. Non si tratta semplicemente di un
dovere morale, di un fatto comportamentale, ma piuttosto di profezia evangelica.
Diversamente, più o meno consapevolmente, si rischia un totale “appiattimento”
sulla stessa mentalità del mondo. In altre parole, si rischia il fallimento
vero e proprio come consacrati.
Quanto il concilio raccomanda a tutti i
cristiani, non è meno importante anche per i consacrati. È importante che una
volta «acquisite la competenza e l’esperienza assolutamente indispensabili,
mentre svolgono le attività terrestri, conservino una giusta gerarchia di
valori, rimanendo fedeli a Cristo e al suo Vangelo, cosicché tutta la loro
vita, individuale e sociale, sia compenetrata dello spirito delle beatitudini,
specialmente dello spirito di povertà. Chi segue fedelmente Cristo cerca
anzitutto il regno di Dio e vi trova un più valido e puro amore per aiutare i suoi
fratelli e per realizzare, con l’ispirazione della carità, le opere della
giustizia» (Gaudium et spes, 72).
LA RESPONSABILITÀ
DEI SUPERIORI
Cercando di scendere più al concreto, è
forse il caso di precisare, anzitutto, che i beni comportano una duplice
responsabilità, una in capo al superiore/a, l’altra all’economo/a. Il codice di
diritto canonico dice espressamente che ogni proprietario è amministratore
della provvidenza di Dio. Ne consegue che il deperimento di un bene, ad
esempio, di un immobile, dovuto a incuria negligente è sicuramente un atto
colpevole. Questa cura di solito rientra nelle competenze immediate
dell’economo, ma il superiore ha un dovere di sorvegliarne e di controllarne
l’operato.
È il superiore, infatti, che si deve
assumere la responsabilità della finalizzazione dei beni, un compito che non
può essere mai lasciato all’arbitrio altrui. Quindi, anche la semplice
omissione da parte sua della sorveglianza sull’economo, per superficialità,
incompetenza passiva, del tipo: “non ho gli strumenti per controllarlo e non
faccio in modo di procurarmeli”, e simili, è sicuramente colpevole. Se poi un
immobile non rende per quanto deve, per trascuratezza, per mancanza di
programmazione seria o, peggio ancora, per favoritismi personali (es. è locato
all’amico abbiente a un prezzo irrisorio rispetto al valore di mercato), allora
l’atto amministrativo diventa immorale.
Più in generale, la vigile attenzione
di chi governa sull’esercizio ordinato delle specifiche competenze in materia
economica è un atto doveroso. Bisogna star attenti a non cedere alla tentazione
di disinteressarsi a quello che succede “al piano di sotto”, sperando che sia
qualcun altro a “scottarsi le dita”, o peggio, a sfruttare in modo malsano
conflitti latenti o rischiose competizioni.
Anche nell’amministrazione dei beni è
indispensabile un clima di stima e fiducia reciproca e un uso intelligente
degli incentivi, a volte anche soltanto psicologici. Nessuno lavora soltanto
“per la santissima gloria di Dio”! Certi angelismi, come si dice, “puzzano di
bruciato” lontano un miglio. Quante volte, purtroppo, negli istituti religiosi,
non si trova nessuno disposto ad assumersi questi oneri poco gratificanti e
molto spesso esposti a invidie, critiche e gelosie.
Certi principi fondamentali di teologia
morale valgono anche e soprattutto nell’amministrazione dei beni. Un fine in sé
buono (es. disporre di più denaro per opere di bene) non giustifica il ricorso
a un mezzo immorale (investire con maggior redditività nelle azioni di una
società che, guarda caso, va a gonfie vele, perché produce armamenti bellici).
Anche tra i consacrati sono ancora troppo poco conosciuti alcuni strumenti come
il commercio equo e solidale e la banca etica che più di altre strutture
economiche e finanziare garantiscono una più effettiva solidarietà.
Gli istituti religiosi dovrebbero non
solo dare un esempio di come si gestisce il patrimonio, i beni, ma anche
arrivare a elaborare una solida professionalità, tale da poter servire da
modello per le istituzioni a-confessionali, e addirittura – nel medio periodo –
fare da credenziale per promuovere presso lo stato adeguate iniziative
legislative. A questo scopo è sempre più indispensabile avvalersi della
collaborazione professionale dei laici, non in uno spirito di servile e interessata
dipendenza, ma di vera e propria collaborazione al piano di Dio.
Ma più ancora è giunto il tempo ormai
di una maggiore interazione fra i diversi istituti religiosi. È troppo
importante scambiarsi le proprie esperienze non solo a livello pastorale, ma
anche economico-amministrativo: informazioni fiscali, tecniche, giuridiche,
banca etica, commercio equo e solidale, investimenti alternativi, elenchi di
titoli che sostengono imprese civilmente e socialmente utili, o, viceversa, che
si riferiscono ad attività moralmente dubbie e antisociali.
Sarebbe un peccato se anche in questo
campo non ci si muovesse guidati unicamente dalla ricerca di una sempre più
attuale e credibile libertà e radicalità evangelica.
Paolo Bencetti