VITA RELIGIOSA “AD TEMPUS”?

QUANDO IL PRESENTE È GIÀ FUTURO

 

Alcune realizzazioni di futuro, già da qualche anno, fanno capolino nel presente della vita religiosa. Gli elementi caratterizzanti sono riposti nella novità della forma organizzativa, nella diversità del vincolo, nel concepire in modo nuovo la vita comunitaria.

 

Con queste righe cerco di dischiudere un poco le finestre sui tre aspetti affinché quanto intravisto sia buona notizia per tutti coloro i quali, sentendo che una data forma di vita religiosa è ai limiti della sostenibilità, percepiscono che il loro progetto di vita è quasi in fase terminale. Diceva Musil: “Il futuro è coltivare il senso della possibilità”, cioè credere che è possibile cambiare. Se nelle congregazioni sono ancora pochi o improduttivi gli impegni di un nuovo inizio, ciò è dovuto al fatto che per la maggior parte dei religiosi la parola cambiamento è percepita come antitetica a fedeltà: allora il primo passo che il singolo e l’ istituto devono compiere, se vogliono aprirsi a una prospettiva di futuro, è di liberarsi dal senso di paura di fronte alla parola nuovo. In una situazione di crisi “bisogna imparare dalla natura a gettare semi di speranza ad ampie mani: molti si perderanno ma quei pochi che germoglieranno daranno frutto”.

 

NOVITÀ

NELL’ORGANIZZAZIONE

 

L’evoluzione si riscontra già nell’ attuale pluralità di denominazioni di questo stato di vita, un tempo impropriamente detto di vita perfetta acquisita. Fino a qualche anno fa si chiamava vita religiosa, oggi si dice vita consacrata, termine più ampio, atto a inglobare le antiche ma anche le nuove forme (VC 12). Queste ultime, nello stesso testo sinodale (62) vengono anche dette nuove forme di vita evangelica. All’interno di queste ci sono poi le famiglie ecclesiali.1 Con tale nome, ad esempio, è stata riconosciuta dal dicastero pontificio per la vita consacrata l’Opera della Chiesa di Madrid variamente composita. Un altro caso è dato dalla famiglia ecclesiale Missione chiesa-mondo approvata dall’arcivescovo di Catania nel 2001 dietro autorizzazione della S. Sede.2 Dunque ci troviamo di fronte a un pluralismo di definizioni che vanno a codificare sostanziali diversità organizzative atipiche rispetto a quelle canoniche, grazie anche al diverso soggetto approvante.3 La maggior parte delle nuove forme di vita evangelica adotta, in funzione del carisma, la forma dei cerchi concentrici che consiste nel diverso livello di partecipazione e di appartenenza. Al centro c’è un cerchio più piccolo che sceglie a tempo pieno la forma della consacrazione, stabilendo vincoli giuridici stretti con l’istituzione. Radialmente poi ci sono cerchi sempre più ampi, formati da quelli che si riconoscono nell’ispirazione carismatica in forme di impegno diversificato. Nella strategia dei cerchi concentrici dunque sono possibili livelli di maggiore o minore prossimità che integrano l’unico carisma in modo differenziato, dinamico e progressivo.4 Anche gli stati di vita di coloro che vi aderiscono sono diversificati e complementari. In Vita consecrata il papa scrive che l’originalità delle nuove comunità consiste spesso nel fatto che si tratta di gruppi composti da uomini e donne, da chierici e laici, da coniugati e celibi, che seguono un particolare stile di vita (VC 62). Da tale forma organizzativa è derivata anche la fortuna dei movimenti: realtà da vedere con simpatia se Giovanni Paolo II ebbe a dire che “La Chiesa stessa è un movimento”.5 Queste nuove forme di vita evangelica, esprimono una missione forte senza il peso di strutture ingombranti a differenza delle antiche che sono prese dal far “quadrare servizi e risorse e non direttamente dalla qualità della vita consacrata”.6 Hanno alla base un principio orientatore oggi irrinunciabile: la flessibilità. Parola vista con sospetto dalle antiche tradizioni, mentre è a fondamento delle nuove. Flessibilità significa la capacità di cambiare, di modificarsi, di innovare, di sapersi adattare alle variazioni di quantità e qualità della domanda, preferendo investire la vita in “piccole utopie” piuttosto che in grandi progetti globalizzati come invece normalmente ci si propone attraverso i capitoli generali. Flessibilità di impegno, di processi e possibilità di far esperienza dei propri talenti e competenze.

 

DIVERSITÀ

DEL “VINCOLO”

 

Dalla forma organizzativa a cerchi concentrici consegue la diversità del vincolo con cui ci si riconosce nell’istituzione. Prima del Vaticano II, l’incorporazione alla forma di vita religiosa avveniva soltanto attraverso i voti pubblici e perpetui, previo un periodo di voti temporanei. Con il concilio, nella Lumen gentium (44) si parla invece di “voti o altri impegni simili” mettendo così in risalto la centralità della sequela Christi piuttosto che la forma. Questa maggiore ampiezza concettuale propugnata dal concilio ha spinto il nuovo codice a includere, all’interno degli istituti di vita consacrata, gli istituti secolari dei quali non pochi hanno soltanto i voti temporanei; e le società di vita apostolica molte delle quali non hanno voti o non professano i consigli evangelici.7 Inoltre ci sono tutte le forme che fanno riferimento al pontificio Consiglio dei laici o dei membri delle associazioni di fedeli (can. 298 §1 e 303) la cui appartenenza è definita dalla pratica dei consigli evangelici attraverso voti pubblici o privati, oppure promesse o altro; proseguendo il loro cammino può arrivare anche il momento in cui i membri decidono di confermare in modo definitivo il loro impegno vocazionale davanti alla comunità.

Ho indugiato su queste riflessioni per dire che già l’ordinamento della Chiesa prevede una molteplicità di vincoli, e che la perpetuità o meno di questi non tocca la sostanza del vincolo stesso.8

Se si accoglie quanto detto ci si può non stupire se sta crescendo l’attenzione sulla consacrazione ad tempus, senza che ciò venga visto come diserzione o abbandono. Mi soffermo per poco su questa prospettiva, cercando di darne ragione, perché ha reso perplesse varie persone. Tale istanza la si trova già nel testo sinodale Vita consecrata (56) e nella Propositio 33 e più recentemente al n. 37 dello strumento di lavoro del Congresso 2004. La riflessione è stata poi ripresa all’interno dello stesso congresso da p. Timothy Racliffe con queste espressioni: “Da secoli gli ordini religiosi hanno sempre offerto altre forme di appartenenza a coloro che non desiderano impegnarsi per sempre. Molte nostre congregazioni stanno esplorando modi nuovi per poter realizzare un progetto del genere. Questo però non dovrebbe mettere in questione la centralità di un impegno usque ad mortem”.

Certamente la maturità è in rapporto con la capacità di scelte e di scelte definitive, e questo è un segno controculturale e perciò stesso oggi molto importante, ma è anche vero che l’impegno temporaneo non significa finché ne ho voglia. Il relatore9 addusse come motivazione il fatto “che alcune persone entrano da noi e fanno la professione, ma poi un giorno ci lasciano; non vogliamo – disse – che restino paralizzate per sempre da un certo senso di fallimento”.

Penso che questo sia sulla linea di quanto espresso da fr. Sean Sammon quando dice che se la fedeltà ha come obiettivo la qualità della sequela, “la perseveranza (intesa come continuità della forma) non è necessariamente una buona misura della fedeltà”.10 Non si può dimenticare che alcuni sono diventati fondatori dopo aver lasciato l’Istituto in cui avevano professato in perpetuo, per una nuova forma ritenuta maggiormente evangelica. È il caso in cui queste persone hanno espresso la fedeltà cambiando la forma di impegno primitivo. Una delle obiezioni che vengono fatte sta nella domanda: “perché l’ad tempus varrebbe per la vita religiosa e non per il matrimonio?” Le due cose sono solo apparentemente simili. L’indissolubilità matrimoniale è stata voluta da Cristo mentre la perennità del voto è di tardiva istituzione ecclesiastica formatasi dopo circa 1200 anni, cui è data, già in origine, la possibilità della dispensa. Il matrimonio, essendo sacramento, non può essere sciolto ma eventualmente, se esistono i presupposti di nullità, può essere dichiarato inesistente. È per altro vero che non pochi formatori di un tempo esortavano alla perseveranza facendo riferimento all’espressione di Cristo “nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volti indietro, è adatto al regno dei cieli” (Lc 9,62). Erroneamente questa espressione veniva riferita alla consacrazione religiosa, essendo allora non ancora inaugurata tale forma; essa riguarda piuttosto la “chiamata” a seguire Gesù; “chiamata” non riservata alla sola vita religiosa, come non sono esclusivi della stessa i consigli evangelici, dei quali sono destinatari tutti i discepoli, e tali si può essere sia nella vita consacrata che al di fuori di essa, in fedeltà alla diversa vocazione di ognuno.

La preoccupazione della fedeltà del passato era anche dovuta al concetto di vocazione intesa come un qualcosa di deterministico piuttosto che il frutto di un dialogo creatore tra Dio e la creatura, che conduce a un progetto di vita evangelica a partire da quelle doti, capacità, attitudini che esprimono quello che uno è nella verità di sé. Era il tempo in cui l’identità (ciò che siamo nel profondo di noi) si pensava fosse orientabile volontaristicamente. Allora, a un professo perpetuo che successivamente avesse scoperto in sé delle inconsistenze vocazionali, vari formatori rispondevano: vivi come se avessi la vocazione, forse talvolta dimenticando che il voto impossibile non può obbligare.

Dunque nel passato la preoccupazione della fedeltà sembrava prevalere sulla ricerca sincera della verità che è una forma più esigente di fedeltà. Non si può escludere che molte scelte, in buona fede, siano state fatte da una non esatta percezione della propria identità e che come conseguenza alcuni si siano ritrovati in un progetto di vita che non era il loro. L’incontro tra identità e autenticità è l’unica possibilità dataci per realizzare ciò che siamo e quindi di essere felici. C’è anche da dire che in varie persone l’identità si faceva coincidere con la capacità a svolgere un dato ruolo; ora molti di questi ruoli sono venuti meno. Inoltre se da una parte, oggi, c’è la difficoltà a impegnare il sogno per tutta la vita, dall’altra c’è la difficoltà della vita consacrata a dare risposte contemporanee alle esigenze dello stesso sogno. Una religiosa diceva di essersi fatta suora per testimoniare la povertà “e ora – diceva – mi trovo in missione a essere omologata tra i ricchi”.

Quanto detto può indurre a pensare che la formula ad tempus sia un cedimento piuttosto che un’opportunità offerta a molti di poter fare l’esperienza di un valore evangelico in grado di orientare la propria vita. Faccio un esempio: le esperienze di contemplazione, di preghiera, di lavoro, vissute temporaneamente ma ripetutamente in luoghi tipici come Tamiè, Spello, Haut-court, Voiron, (oltre alle tante opportunità offerte da noti monasteri), sono state determinanti nell’orientare moltissimi giovani e adulti a uno stile di vita fatto di preghiera, condivisione, solidarietà, contemplazione. La vita religiosa, offrendo questa possibilità, raggiunge il nucleo profondo della sua essenza e funzione che è quella di essere sale e fermento attraverso i propri carismi.

 

MODO NUOVO

DI ESSERE “COMUNITÀ”

 

Come essere comunità è il nodo maggiormente problematico per la vita consacrata tradizionale, mentre è la cosa che maggiormente attira in molte altre forme di vita evangelica. Non sono pochi a dire che queste ultime sono nate e “si pongono in voluta antitesi nei confronti degli istituti religiosi”11 proprio per il modo di intendere e di vivere la fraternità centrata sulla comunione di vita come annuncio di un nuovo tipo di società egualitaria e fraterna, diversamente dagli istituti religiosi per i quali l’espressione comunione di vita allude, in prima battuta, alla coabitazione, che può essere soddisfatta dalla vita sotto lo stesso tetto.

Per gli uni e per gli altri il riferimento ideale è alla primitiva comunità di Gerusalemme, ma mentre i religiosi, configurandola in una univoca entità giuridica, hanno ricalcato le formule susseguitesi da Basilio in poi, le nuove forme partendo dal fatto che il “valore” è la vita fraterna e il “come” ne è sola la forma, sono andati, senza storicizzazioni, alle origini, vale a dire alla esigenza di koinonia che incuriosiva, capace cioè di esprimere elementi di fascino. Così facendo hanno avuto la possibilità di poter tradurre la comunione in forme plurime e più elastiche che vanno dal coabitare per alcuni al convenire per altri. Nell’una e nell’altra di queste ipotesi vivere in comunità significa riconoscersi in una delle forme di vita evangelica che danno trasparente risposta al bisogno di fraternità. Nel momento presente la vita religiosa si trova a dover rispondere alla domanda: come passare dalla comunitarietà alla fraternità, vale a dire dall’essere struttura all’essere modello di relazioni senza le quali non esiste comunità anche se la convivenza formale è perfetta? La domanda non è posta per evidenziare la difficoltà del passaggio ma per dire che oggi non meno che nel passato, la fraternità è certamente in grado di aggregare ai fini di un progetto di discepolato. La vita religiosa tradizionale ha difficoltà a trovare nuovi modelli di fraternità perché “la concezione della persona umana sottesa alla visione e alla prassi di VC deve essere ripensata alla luce della postmodernità”,12 cosa non facile quando l’età prevalente dei membri non aiuta ad attraversare gli stereotipi o quantomeno le persone manifestano la stanchezza di remare perché il vento è contrario.

Una giovane religiosa alla domanda: «Qual è la cosa più bella della tua comunità?», disse: l’essere un insieme di persone innamorate di Dio, anche se per conto proprio; e la meno bella? L’essere affetta, data l’età media, da melanconia collettiva. Le comunità di un tempo erano per alcuni versi agevolate dall’essere spesso costruite a partire da una concezione collettivistica per la quale bastava il sistema di valori a tenere insieme, o dal concepirsi come comunità aziendali al fine di un comune servizio (ospedali, scuole, oratori…). Oggi non c’è più nessun automatismo che ci tenga assieme al di fuori di forme comunitarie che siano nel contempo “sacramento di umanizzazione”13 capaci di rispondere al desiderio di fraternità intesa come palestra di vita evangelica, umanità, libertà, responsabilità, simpatia, relazioni vere.

Un tempo tutto questo era meno sentito quando i canoni di spiritualità erano attenti alla rigida ascesi di tipo monastico più che alla mistica, per cui definire la vita comune mea maxima poenitentia, in qualche modo esprimeva anche una opportuna finalità da perseguire in ordine alla santità. Oggi questo sarebbe un modo di pensare che non corrisponde alle aspettative della persona contemporanea. Lo stesso documento Vita fraterna in comunità afferma che “una fraternità senza gioia è una fraternità che si spegne” (28).

Molti religiosi, forti della tradizione, vedono in quanto è stato qui detto un cedimento, altri invece oltre a scorgervi “una radicale rivitalizzazione in grado di darle una nuova fisionomia”14 vi trovano una progressiva autocomprensione e autoconfiguazione della Chiesa stessa, intesa come comunione di carismi e stati di vita che interagendo visibilizzano il corpo di Cristo di cui parla l’apostolo Paolo.

 

Cozza Rino csj

 

1 P. G. Cabra in Vita Consacrata n. 1, 2005.

2 Ib.

3 Questi possono essere o il pontificio Consiglio per i laici o la Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica.

4 J. B. Libanio.

5 Discorso ai movimenti ecclesiali e le nuove comunità in Osservatore Romano 1-2 1998.

6 Assemblea Nazionale USMI, 2005.

7 Dizionario teologico della VC, Ancora.

8 I voti non sono istituiti prima del 12° sec. (Brundage). In questo periodo si elabora canonicamente la nozione di stato religioso: la triplice promessa appare per la prima volta nella regola dei Trinitari (1198). S.Tommaso d’Aquino adotterà la triade come la formulazione storica per raccogliere i valori della VR (1270). Ma già allora non fu così per tutti: i domenicani emettevano il voto di obbedienza e anche Ignazio di Loiola, nella prima redazione delle costituzioni della Compagnia, non insisterà tanto sulla triade dei voti, quanto sull’entrata sincera nella vita della comunità apostolica. Le diverse forme di appartenenza a una istituzione, dunque, si trovano già fin dall’inizio. Il “decreto di Graziano” verso il 1140 distingueva tra simpliciter voventes e coloro che dopo il voto ricevevano una benedizione.

Secondo Uguccio (1188-1190) la solennità giuridica che rende il voto “pubblico” non appartiene alla sostanza del voto ma solo per comprovare che il voto è stato emesso. Anche se l’opinione prevalente degli studiosi si allineò sulla distinzione tra voto solenne e semplice, probabilmente perché offriva una via operativa più pratica (G. Rocca in Dizionario degli istituti di perfezione.) Per s. Tommaso il voto solenne ha lo scopo di fissare “immutabilmente la nostra volontà nel compiere il bene”. Questa stabilità, sempre per s. Tommaso, è più completa nel voto solenne più che nei voto semplice: “Ora, agire con una volontà stabilizzata nel bene è fare atto di virtù perfetta” (Sum Th II/II, q. 88, art. 6). Suarez (1548-1617) nella sua monumentale opera Opus de religione, diversamente da san Tommaso e di Bonifacio VIII, sosteneva che non era necessaria né la immutabilità né la perpetuità assoluta per costituire nello stato religioso (De religione, t.IV 1.III, c.III, n. 10). Già nel ’600 non pochi istituti avevano la temporaneità dei voti persino con la formula donec in religione permasero. Dopo il 1850 la S. Sede spinse i nuovi istituti sempre più verso la perpetuità e dopo la promulgazione del CIC non volle più riconoscere la condizione di donec in religione permasero, ma chiese un periodo di voti temporanei. Ho espresso tutto questo per dire che l’attuale prassi (temporaneità o perpetuità del voto) non va a definire la sostanza delle forme di vita evangelica.

9 T. Radcliffe op.

10 In Testimoni n. 3, 2005.

11 F. Ciardi, Koinonia, pag. 170.

12 M. Arnaiz sm.

13 Strumento di lavoro del Congresso 2004.

14 Ib.