A QUARANT’ANNI DAL “PERFECTAE
CARITATIS”
HA AVVIATO IL RINNOVAMENTO
Un decreto conciliare che non ha lasciato le cose come prima. Come è certo
che è normale far coincidere le vicende del rinnovamento della vita religiosa
con le vicende della sua applicazione. Parlare del PC significa dunque parlare
del rinnovamento innescato dalle sue indicazioni.
Se si volessero caricare le tinte,
cedendo al sensazionale, si potrebbe parlare del Perfectae caritatis come di un
documento contestato e contestatore. Contestato durante l’elaborazione e
occasione di contestazioni durante l’applicazione.
Sarebbe certamente una forzatura di
tipo giornalistico, eppure il movimento che è stato messo in via da questo
documento dentro la vita consacrata è stato tanto rilevante, che al sinodo dei
vescovi sulla vita consacrata del 1994, se ne sono fatti due bilanci contrapposti:
rinnovamento o deformazione, grazia o disgrazia, anni da ricordare o anni da
dimenticare?
Un fatto è certo: il decreto conciliare
Perfectae caritatis (PC) non ha lasciato le cose come prima. Come è certo che è
normale far coincidere le vicende del rinnovamento della vita religiosa con le
vicende della applicazione del decreto conciliare. Parlare del PC significa
dunque parlare del rinnovamento innescato dalle sue indicazioni.
Ma procediamo con ordine.
Innanzitutto il 26 e 27 settembre
prossimo in occasione del 40° del decreto conciliare PC viene organizzato a
Roma, dalla Santa Sede, e precisamente dal dicastero per la vita consacrata e
le società di vita apostolica un simposio proprio su questo tema: è la Chiesa
che vuol fare un bilancio su questi quaranta anni. Anzi: un bilancio, in cerca
di prospettive proponibili.
È un “atto dovuto”, nel senso che tutti
i dicasteri stanno facendo la stessa cosa nei confronti dei documenti che li
riguardano. Il simposio è su invito e si terrà nell’aula del sinodo. Parteciperanno
membri dei dicasteri romani, a partire naturalmente da quello per la vita
consacrata, consultori, vari superiori e superiore generali, presidenti delle
conferenze nazionali dei religiosi, vicari episcopali delle conferenze
episcopali. Saranno invitati anche teologi e direttori di riviste
specializzate.
In attesa delle selezionate e dotte
relazioni, che getteranno nuova luce sulla composizione e sull’elaborazione del
documento, sulla storia della ricezione nei vari paesi, sulle questioni aperte,
tentiamo di dare un primo approccio al documento, a partire delle domande a cui
ha voluto rispondere il decreto conciliare De accomodata renovatione vitae
religiosae, tradotto in italiano con “Il rinnovamento adeguato della vita
religiosa”, comunemente citato come il Perfectae caritatis.
RINNOVAMENTO
O RITORNO ALLE ORIGINI?
Al concilio, la vita religiosa era
arrivata in buona salute. Era al culmine di una crescita costante iniziata
dalla fine della rivoluzione francese. Crescita numerica e crescita di prestigio
esterno e interno: opere fiorenti in tutti i campi, dall’educazione alle
missioni, dagli ospedali alla cultura. E, dentro, una formazione ascetica
seria, una fedeltà alla Chiesa a tutta prova, una invidiabile chiarezza di
obiettivi. E molto lavoro, unito al “culto della Regola”.
Una grande risorsa per la Chiesa, tanto
è vero che quando qualcuno voleva dare consistenza e serietà a qualche
iniziativa, si preoccupava di avere una congregazione religiosa che la
gestisse.
Eppure al concilio c’era chi, sensibile
ai mutamenti della società, si preoccupava del futuro: e avvertiva la necessità
di una maggiore qualificazione culturale del personale, specialmente femminile.
Si percepivano pure come antiquate alcune norme, si denunciavano casi di abusi
di autorità. Si domandavano insomma cambiamenti per un mondo in cambiamento,
proprio in nome della missione, per dare nuove risposte alle nuove domande.
E qui si affaccia la fatidica parola
rinnovamento, attorno alla quale si scatena un vivace dibattito.
Alcuni, attenti alla tradizione,
facevano notare come la vita religiosa si sia sempre riformata ritornando alla
purezza delle origini, anzi alla santità delle origini.
Altri temevano che mettere in atto un
processo di cambiamento e adattamento, avrebbe significato correre il rischio
di intaccare anche gli elementi essenziali. La storicizzazione delle norme e
delle tradizioni avrebbe potuto indebolire le realtà intoccabili, specie se il
cambiamento fosse stato affidato ai singoli istituti, con notevole danno alla disciplina
e alla serietà della vita religiosa.
Altri prevedevano il pericolo di una
conflittualità dentro la vita religiosa derivante dalle divergenze di opinione
su quanto si poteva mutare e su quello che doveva restare
Altri infine facevano presenti le perplessità
dell’oriente cristiano, specie del monachesimo, che vedeva in questo
preoccuparsi e affannarsi attorno al rinnovamento il tipico sintomo
dell’attivismo dell’occidente, dove l’uomo vuol essere faber sui, dimentico
dello Spirito Santo, il vero protagonista di ogni passo nella storia della
salvezza.
I timori e le perplessità di questi
“contestatori” del rinnovamento non erano tutti campati per aria, perché molti
degli effetti temuti, si sono poi puntualmente realizzati.
Ciò nonostante, il concilio, con una
buona dose di coraggio, basato sulla fede nell’azione dello Spirito e sulla
buona volontà umana, ha optato per il rinnovamento, preoccupandosi di darne il
significato: non un salto nel buio, non un adattamento lasciato alla libera
creatività, ma un mutamento che attinge al passato fondante, per meglio
guardare al futuro.
– Uno sguardo a Cristo, origine delle
origini, e uno sguardo all’origine dell’istituto, cioè al fondatore. Le varie
tradizioni successive vanno misurate sulla loro utilità per il presente,
venendo relativizzate e quindi valorizzate nella misura in cui esprimono lo
spirito e le intenzioni del fondatore e sostengono la sequela di Cristo nelle
attuali condizioni di vita.
– Uno sguardo al presente, per
adattarsi ai tempi mutati «per giovare agli altri più efficacemente». È
l’invito a leggere i segni dei tempi. Non un semplice ritorno alle origini,
dunque, come si era soliti fare in passato, ma una proiezione verso il futuro.
I Padri conciliari, con queste premesse
innovatrici, manifestavano la loro consapevolezza che anche la vita religiosa
doveva affrontare le novità in corso di accelerazione, le res novae e quindi
doveva preparasi a dare una risposta «all’irruzione della chiesa nei tempi
nuovi».
Con il Perfectae caritatis, i Padri
conciliari pongono dei grossi principi di cambiamento che provocheranno un vero
terremoto dentro la vita religiosa. Se la Lumen gentium, la costituzione
dogmatica sulla chiesa, aveva inserito la vita religiosa nel mistero della
Chiesa, il nostro decreto ha delle finalità più pratiche. Esso è più attento
alla storia, ai problemi concreti, alle necessità della missione.
Mentre il primo sarà più frequentato
dai teologi, il secondo sarà utilizzato dagli uomini di azione e dai
“riformatori” o dagli “innovatori”, specie degli istituti di vita apostolica.
Il Perfectae caritatis si pone come il
punto di partenza del rinnovamento: è stato notato come sia l’unico documento
conciliare che richiami esplicitamente nel titolo le finalità additate al
concilio da papa Giovanni XXIII.
Ma è anche il documento che favorisce
la comprensione dei diversi progetti storici dei singoli istituti, preparando
la teologia del carisma e delle varie missioni specifiche.
Se il PC ha dato la possibilità di
esprimersi a un grande desiderio di cambiamento, che premeva dentro la vita
religiosa, la direzione e i contenuti verranno attinti alle costituzioni sulla
parola di Dio, sulla liturgia e alla Gaudium et spes.
Il rinnovamento si alimenta della
lettura dei segni dei tempi, espressione dalla folgorante carriera soprattutto
per i due successivi decenni.
LA PRESENTAZIONE
DEL DOCUMENTO
Il Perfectae caritatis raramente fu
presentato isolatamente da altri documenti del concilio. E raramente, possiamo
dirlo francamente, le presentazioni furono indenni dallo spirito del tempo.
Sintetizzando molto schematicamente e
riduttivamente, si possono così riassumere i principali spostamenti di accento
introdotti dal nostro decreto, così come buona parte degli interpreti li
presentava alle affollate e numerose assemblee di religiosi e religiose del
tempo:
– dal primato della Regola al primato
del Vangelo: la sequela di Cristo è la realtà fondante la vita religiosa e il
suo Vangelo è la “norma normante” di ogni altra regola, che, in quanto
specificazione del Vangelo, va considerata come un mezzo atto a seguire Gesù
Cristo. Mentre si afferma la validità del diritto, lo si relativizza nei
confronti del Vangelo;
– dall’autorità alla fraternità: la
fraternità è la realtà centrale della vita religiosa. Prima di essere superiori-sudditi,
si è fratelli, convocati dallo stesso amore di Cristo e quindi chiamati alla
corresponsabilità e alla sussidiarietà, con la realizzazione di nuove forme di
governo più partecipative. Il numero 15 è un elegante compendio della visione
evangelica della comunità: un vero gioiello;
– da una normativa che scende dall’alto
a una normativa che viene dal basso. L’adattamento delle norme alle necessità
della missione, non è opera di vertici, ma opera alla quale anche la base viene
chiamata a collaborare. Da una regola da applicare, perché veniva dalle mani
dei fondatori, a una regola “opera delle nostre mani”: uno spostamento di
prospettiva davvero carico di incognite, ma anche di promesse.
– dalla “fuga mundi” al desiderio di
conoscerlo per meglio servirlo. Qui si entra nella tematica della Gaudium et
spes, tematica che ha interagito non poco nella interpretazione del nostro
documento. “Dall’anatema al dialogo”: lo spostamento non è di poco conto.
Naturalmente siamo qui in presenza di una nuova visione del “mondo”, che non è
solo visto come il mondo del peccato, il luogo dei pericoli, ma è considerato
come il frutto delle fatiche dell’uomo, delle sue conquiste, delle sue speranze
e attese, che vanno assunte per orientarle a Cristo;
– da una visione ascetica a una visione
messianica. Può essere vista come la conseguenza dello spostamento precedente:
se il mondo è il luogo della salvezza, perché fuggirlo? L’importante è lavorare
alla costruzione di un mondo nuovo e migliore. È a questo che bisogna badare, più
che ai problemi personali. La vera penitenza o ascesi è nel compimento dei
propri doveri, specie verso i poveri e la società da rinnovare.
– Dalle devozioni alla parola di Dio e
alla liturgia. «Coltivino li spirito di preghiera, attingendo alle fonti genuine
della spiritualità cristiana:In primo luogo abbiano quotidianamente fra le mani
la Sacra Scrittura, affinché dalla lettura e dalla meditazione delle divine
Scritture imparino la “sovreminente scienza di Gesù Cristo”: Celebrino la sacra
liturgia…e alimentino la loro vita spirituale a questa fonte inesauribile»
(6b).
Dove prima regnavano le devozioni, ecco
il ritorno alle “fonti genuine”;
– dalla conversione del singolo alla
conversione dell’Istituto. Il concilio chiama a conversione non solo i singoli
(è sempre stato fatto), ma anche gli istituti: siamo in presenza di un
movimento di ritorno alle fonti pure del Vangelo e delle intenzioni del
fondatore e a un gigantesco impegno di adattamento alle odierne condizioni.
«Non si tratta quindi di restaurare soltanto alcuni valori antichi né di
riformare sole le cose difettose o desuete, ma veramente di fare cose nuove:
reincarnare nel contesto dell’attuale cultura una vita religiosa più spirituale
e più consona al proprio carisma» (Aubry).
IL CONFLITTO
DELLE INTERPRETAZIONI
Si è accennato sopra allo “spirito del
tempo”, che avrebbe influenzato, in forme naturalmente differenziate, la
presentazione e quindi l’interpretazione del documento.
Di fatto il modo sopra esposto di
presentare il nostro documento, al di là della sua efficacia didattica, risente
di una mentalità fiduciosa nel futuro e nel progresso, è immerso in una cultura
evolutiva, da alcuni chiamata “progressista”, secondo la quale il domani sarà
migliore dell’oggi, perché progresso significa camminare verso il meglio.
Secondo questa mentalità o modo di
percepire le cose, il domani è migliore perché si contrappone allo ieri, perché
lo supera nel senso che ritiene obsoleto il passato anche prossimo.
La società occidentale stava uscendo
dalla millenaria povertà, conoscendo un vero e proprio miglioramento nelle
condizioni di vita, favorita da una costante crescita economica. Di qui
l’impressione della inarrestabilità del processo, un’impressione che tendeva a
diventare una visione della vita, per cui si pensava in termini di un passato
oscuro, quando non oscurantista, e di un futuro luminoso e migliore, in tutti i
settori.
Anche la vita religiosa cadeva sotto
questo a priori, con diverse sfumature nei confronti del passato, verso il
quale per qualcuno si doveva parlare di “rottura”, per altri di “superamento”,
per altri di “avanzamento”.
Si partiva sempre comunque da un punto
che doveva essere superato per arrivare a un punto di netto miglioramento. Il
concilio era visto dunque come un evento provvidenziale, avendo permesso questo
“salto di qualità” dal vecchio al nuovo, dalla “terra che deve essere
abbandonata” alla nuova terra. Quasi un nuovo Esodo: dal passato al futuro,
dall’Egitto alla Terra promessa.
Ma non tutti erano pronti a parlare in
questi termini dell’evento conciliare, come “rottura nei confronti del
passato”, e conseguentemente di leggere il PC come documento di “rinnovamento
integrale” o di mutamento radicale della vita religiosa.
In netta opposizione alla mentalità
prevalente, questo secondo gruppo metteva l’accento sulla continuità,
sull’importanza di ciò che “da sempre, da tutti, e in ogni luogo è stato
tramandato” e, per quanto riguarda la vita consacrata, su quanto di
intangibile, di sacro, di irrinunciabile, di perenne c’era in questa venerabile
forma di vita, gettando il discredito sul velleitarismo dei “novatores”.
In minoranza agguerrita, i componenti
di questa tendenza, hanno alzato i toni del contendere, producendo l’effetto di
accrescere la polarizzazione e impedire un dibattito sereno.
Erano tempi in cui si era o pro o
contra. O, con termini infelici, ma usati e abusati: o progressisti o
tradizionalisti. Una delle tante semplificazioni di quegli anni, che rendeva
arduo il discernimento delle verità e dei limiti presenti nelle diverse
posizioni.
La controversia acquistava toni
drammatici anche perché non verteva semplicemente su dei concetti o sui massimi
sistemi, ma investiva la vita pratica, una vita sulla quale le persone avevano
giocato tutte se stesse, e quindi sentivano sulla propria pelle le varie
oscillazioni teologiche e dottrinali. Anni di slanci e di sofferenze, di
generose progettazioni e di amare delusioni.
Tanto più che il grande movimento in
corso cominciava a deludere i teorici di “nuovi equilibri più avanzati”, dal momento
che i risultati sembravano ben diversi dalla primavera annunciata e sognata. Il
panorama offerto, dopo pochi anni, dalla vita religiosa assomigliava piuttosto
a un campo intristito da una gelata invernale che ad una ridente primavera di
mandorli in fiore.
IL TRAUMA
LACERANTE DEL ‘68
Ma c’è di più: il rinnovamento promosso
dal PC, iniziato dentro una cultura ottimistica circa il futuro, si imbatterà
presto nella contestazione del famoso ’68, con i suoi slanci e le sue utopie,
le sue liberalizzazioni e le sue violenze, le sue contestazioni e i suoi slogan
mobilitanti e illusori. Inquinando così la interpretazione del rinnovamento e
rendendo estremamente difficoltosa la sua attuazione, essendo usato da alcuni
come strumento di “contestazione”.
Basti pensare al clima di
assemblearismo in cui si sono svolti i capitoli speciali, auspicati dal nostro
decreto per rinnovare le costituzioni. Un clima che, solo per fare un esempio,
era visceralmente allergico a ogni regolamentazione giuridica chiara, con la conseguenza
di rendere praticamente ingovernabili gli istituti, data la voluta incertezza
della normativa delle nuove costituzioni.
Se si aggiunge l’avanzata di una
secolarizzazione, sovente “secolaristica”, si comprende come nella convulsa
azione riformistica fosse ovvio privilegiare gli aspetti strutturali, sociali e
politici, nei confronti della dimensione interiore e degli aspetti più
tipicamente spirituali.
Cultura proiettata verso il futuro,
clima di contestazione del passato e del presente, eccessiva attenzione alla
dimensione sociologica dei problemi: siamo in presenza di una miscela esplosiva
che, a dir poco, ha disturbato l’applicazione del nostro decreto.
E ancora: presenza dell’utopia, come
strumento di cambio sociale, utopia non assente neppure in alcuni progetti di
riforma della vita religiosa.
Paolo VI, alla chiusura del concilio
aveva affermato con grande lucidità e preveggenza: «Quando noi uomini spingiamo
i nostri desideri verso una concezione ideale della vita, ci troviamo subito o
nell’utopia e nella caricatura teorica,o nell’illusione o nella delusione».
I RUGGENTI
ANNI ’70
Sono gli anni della politicizzazione,
della chiesa locale, dei capitoli speciali, della teologia del carisma dei
singoli istituti. Ma anche della “chiesa dei poveri” e della “chiesa povera”,
della teologia della liberazione in America latina, gli anni dell’ inizio della
crescita numerica e culturale della vita religiosa nel Terzo mondo e della
diminuzione nell’occidente.
Una cenno alle questioni principali.
Nel clima di ottimismo acquista grande
importanza la politica, come mezzo per realizzare un mondo più giusto per
tutti. Improvvisamente la politica assume un alone messianico, con slogan
seducenti “Tutto è politica “ “La politica è tutto”. Di qui la svalutazione dell’assistenzialismo,
dal momento che bisognava andare alla radice dei problemi, affrontare cioè la
cause, e non limitarsi a lenire le sofferenze degli effetti perversi degli
assetti istituzionali ingiusti. Da queste radici maturano rapidamente alcune
convinzioni.
Il vero nemico diventano le “strutture
ingiuste”... le opere dei religiosi sono viste come assistenziali e quindi
vanno abbandonate… il combattimento principale non è più rivolto a se stessi,
ma al “male del mondo”. Ecco il passaggio pratico dall’asse ascetico all’asse
messianico.
In America latina questa problematica
assume tono drammatici per le ingiustizie disumane di un continente che si dice
cristiano. La teologia della liberazione si pone come risposta dei credenti e
coinvolge non pochi religiosi e religiose in un lavoro di coscientizzazione che
se da una parte dà entusiasmo e nuovo significato alla propria presenza a chi
si impegna nella lotta contro l’oppressione e l’ingiustizia, dall’altro suscita
perplessità in chi vede il rischio dell’ assorbimento nella lotta sociale e
politica della vita consacrata.
La chiesa locale inoltre acquista sulle
persone consacrate un fascino speciale, sia per la dignità riconosciutale dal
concilio, si per la diminuita stima verso le proprie opere: da qui la tendenza
verso un impegno “genericistico” nella vita pastorale, con il pericolo di una
parrocchializzazione e di una diocesanizzazione della vita religiosa.
In questa situazione, l’identità non
solo della vita consacrata, ma anche dei singoli istituti, ha trovato una
risorsa formidabile nella teologia del carisma, che ha le sue premesse nel PC:
«Torna a vantaggio della Chiesa stessa che gli istituti abbiano una propria
indole e una loro propria funzione. Perciò siano messi in luce e mantenuti
fedelmente lo spirito e le intenzioni dei fondatori» (2b).
La teologia del carisma, prontamente
recepita dal magistero, ha contribuito a rafforzare l’identità dell’istituto e
a servire la chiesa “secondo la propria indole”.
Comincia anche la crescita nel terzo
mondo della vita consacrata, crescita che sarà vista presto come
provvidenziale, dato il calo, o il crollo, delle vocazioni in occidente. E dati
i numerosi abbandoni, talvolta eufemisticamente presentati come “promozione
allo stato laicale”.
Il PC, come del resto gli altri
documenti del concilio, non aveva prestata la dovuta attenzione alla
problematica del Terzo mondo: era ancora un documento europeo, anzi
eurocentrico, che rispecchiava cioè la situazione esistente, caratterizzata da
una vita religiosa europea numericamente, culturalmente ed economicamente
forte, che aveva le sue province in altre parti del mondo, dove tendenzialmente
veniva riprodotto, più o meno, quello che si faceva o si pensava in Europa.
Eppure il PC, anche se non aveva avuto
uno sguardo esplicito sul terzo mondo, aveva messo la vita religiosa nella
condizioni di “adattarsi” anche nel terzo mondo, proprio per il principio
programmatico delle accomodata renovatione della vita religiosa. Bastava
applicare alle nuove culture i principi del 2 d: «Gli istituti procurino ai
loro membri un’appropriata conoscenza .della sia condizione umana e
dell’attualità, sia dei bisogni della Chiesa, in modo che essi, discernendo con
saggezza, alla luce delle circostanze del mondo di oggi e ardendo di zelo
apostolico, siano in grado di giovare più efficacemente agli uomini”.
Sono anni “ruggenti”, in cui una vita
consacrata ancora ricca di giovani in occidente e tutta proiettata verso
l’esterno stenta,almeno sembra, a comprendere un’altra indicazione di PC: «gli
adattamenti alle esigenze attuali avranno successo solo se saranno animati da
un rinnovamento spirituale, al quale si dovrà sempre dare il primo posto, anche
nello sviluppo delle opere esterni» (2 e). Rinnovamento spirituale perseguito
nei bei documenti usciti dai capitoli speciali, ma difficile da assimilare e da
realizzare. E non solo per la difficoltà a passare dalla teoria alla pratica,
ma per la diversa comprensione dello “spirituale” in un clima innovativo e
pluralistico, quale era quello dei primi decenni del rinnovamento.
I “BORGHESI”
ANNI ’80.
Dopo alcuni decenni di attenzione al
sociale, ecco il ritorno all’individuale. Dopo l’attenzione al “pubblico” ecco
il ritorno al privato. Dopo le grandi narrazioni della modernità ecco la
scoperta del “piccolo è bello”. Dopo l’attenzione per la giustizia sociale,
ecco il ritorno alla felicità personale. Dopo la politica e la sociologia, ecco
l’avanzata della psicologia. Dopo la trasformazione della società, ecco il
disincanto, con il suo narcisismo placido. Dopo anni di ateismo, sovente
ostentato, ecco l’emergere di una “nuova religiosità”. Dopo i temi della
missione, ecco il tema dell’essere in pace con se stessi. Dopo l’azione, ecco
l’interiorità. Dopo le analisi strutturali, ecco l’analisi del proprio io. E si
potrebbe continuare.
Quanto attiene alla vita religiosa, che
a partire dal 1983, con la pubblicazione del nuovo Codice di diritto canonico,
si chiamerà Vita consacrata, si accentuano alcuni orientamenti, del tutto
assenti o quanto meno imprevisti, nel PC: la rapidissima diminuzione
dell’attrazione da parte della vita consacrata femminile, le nuove forme di
vita consacrata, le nuove forme di collaborazione religiosi – laici…
Il PC aveva trattato indistintamente la
vita religiosa maschile e femminile, con un implicito presupposto che la vita
religiosa femminile fosse una copia adattata di quella maschile.
Al tempo del decreto sembrava ovvio che
le migliori energie spirituali femminili vedessero nella vita religiosa uno
sbocco ottimale per il proprio impegno per il regno di Dio.
Ma in questi anni il soggetto “donna”
ha subito una vera e propria rivoluzione: l’indipendenza economica, il
controllo della propria fecondità, una nuova coscienza della femminilità, ha
portato la donna a prendere le distanze non solo dalla vita religiosa, ma
sovente anche dalla vita cristiana. E le vocazioni si spengono sul nascere.
L’occidente, forse per la prima volta,vede incombere la minaccia di una
drastica diminuzione, se non della scomparsa della vita religiosa femminile.
Ancora pochi si rendono conto della tragedia che questa prospettiva porta con
sé. Si spera sempre in un miracolo, ponendo umanamente le fiducia nell’alta
qualità delle piccole gocce che giungono in sostituzione del fiume impetuoso di
un tempo. Ma il miracolo è rimandato di anno in anno…
Non sappiamo fino a che punto si
conoscesse quanto il nostro documento dice al n. 24 a: «Anche nella
predicazione ordinaria si tratti frequentemente dei consigli evangelici e
dell’abbracciare lo stato religioso». Sappiamo che il tema stava cadendo in
disuso. Purtroppo con incalcolabili conseguenze.
Non tutto è negativo però: nascono
nuove forme di vita consacrata, all’insegna dell’accentuazione della parola di
Dio, della comunità e della povertà (valori su cui aveva insistito il nostro documento).
Come pure si fanno avanti nuove modalità di collaborazione con il laici, quali
potenziali portatori dei nostri carismi, oltre che collaboratori nel nostri
servizi..
Il ricupero della dimensione religiosa
della vita aiuta il ritorno alla spiritualità, meglio accetta se “arricchita”
di una buona dose di psicologia.
Alla fine degli anni ’80, crolla, col
muro di Berlino, anche il mondo comunista, almeno in occidente.
Se il 1968 aveva segnato l’esplosione
del “collettivo”, del sociale, il 1989 segnerà invece l’implosione di questa
tendenza e il trionfo del “particolare”, dell’individuo, dei suoi desideri.
Di fronte all’esaltazione teorica e
pratica dell’individualismo, il dicastero per la vita consacrata pubblica nel
1994 un documento sulla Vita fraterna in comunità, documento che si ispira
esplicitamente al n. 15 del PC e che viene giudicato come opportuno e
pertinente alla situazione di difficoltà della vita comunitaria.
AL SINODO DEI VESCOVI
SULLA VITA CONSACRATA
Dopo le vicende travagliate della vita
consacrata, specie qui in occidente, il nostro documento si trovò
indirettamente coinvolto nel conflitto delle interpretazioni anche al sinodo
del 1994, quando si affrontò il controverso tema del bilancio del sofferto
periodo del rinnovamento.
Che giudizio dare della notevole ma
spesso deludente fatica del rinnovamento? In occidente la vita religiosa si era
ridotta numericamente e invecchiata non solo anagraficamente. Indubbiamente
essa si era arricchita teologicamente, ma impoverita sotto altri punti di
vista.
L’enorme lavorio del rinnovamento,
fatto di riunioni, conferenze, viaggi, assemblee, dibattiti, preghiere,
dolorosi contrasti e inspiegabili abbandoni, di desiderio evangelico di mutare
in meglio, e non solo di abito, di illusioni e delusioni, di amore sincero e
appassionato per il proprio istituto e per la vita consacrata, tutta questa
immane fatica sembrava la classica montagna che aveva partorito il topolino. La
vita consacrata ne usciva certamente umiliata, ma anche più umile.
Questi anni avevano fatto fare dei
progressi, e non solo personali, «nell’esercizio delle virtù, soprattutto
dell’umiltà..con cui i religiosi partecipano all’annientamento di Cristo e allo
stesso tempo alla sua vita nello Spirito» (cf. PC 5c).
Nel dibattito delle idee, paradossalmente
sia per gli avversari che per i fautori, il rinnovamento aveva fallito, anche
se per motivi totalmente diversi.
Per gli oppositori, il rinnovamento
aveva operato una deformazione della vita religiosa, perché l’aveva svigorita
spiritualmente, mondanizzandola, sottovalutando l’ascetica tradizionale,
indebolendo il senso dell’obbedienza e la continuità di una tradizione che
l’aveva resa grande nel passato.
Alcuni, e non di poco conto, osavano
dire apertamente: «La vita consacrata è debole spiritualmente, poco affidabile
dottrinalmente e poco innovativa apostolicamente».
Era praticamente la posizione di coloro
che non avevano mai condiviso l’orientamento predominante in questi anni in
quasi tutti gli istituti.
Per i sostenitori, il rinnovamento non
aveva prodotto i frutti sperati perché non era stato sufficientemente radicale
e non aveva tenuto in debito conto la società completamente nuova: «I fenomeni
culturali del nostro tempo fanno sì che il modello tradizionale della vita
consacrata e la sua spiegazione teologica, risultino oggi culturalmente
anacronistici».
Per i primi, gli oppositori, il
rinnovamento, promosso dal PC,
era stato disastroso perché aveva rotto
con la tradizione; per i secondi, i sostenitori, il rinnovamento non ha rotto a
sufficienza col passato e quindi è ormai inadeguato per le mutate condizioni
della società, che richiedono di osare di più e di ripensare radicalmente le
cose.
Per i primi si tratta di ricuperare
l’identità sacrale della vita consacrata; per i secondi il problema è quello
della sua significatività o rilevanza in un mondo sentito come completamente
nuovo.
Sia per gli uni come per gli altri, il
rinnovamento avrebbe esaurito la sua spinta propulsiva e dovrebbe lasciare il
posto a un ripensamento più radicale, a una vera e propria rifondazione
Il sinodo, nella grande maggioranza
degli interventi ne darà un giudizio più equo: pur riconoscendo che non tutto è
andato per il meglio, incoraggia tuttavia a proseguire il cammino di
rinnovamento.
L’esortazione, eco fedele degli
orientamenti del sinodo, parla del rinnovamento quando tratta della fedeltà
creativa. E ne parla in termini che costituiscono un rilancio del rinnovamento
“riveduto e corretto”: «Gli istituti sono dunque invitati a riproporre con
coraggio l’intraprendenza, l’inventiva e la santità dei fondatori e delle
fondatrici, come risposta ai segni dei tempi, emergenti nel mondo di oggi.
Questo invito è innanzitutto un appello alla perseveranza nel cammino di
santità, attraverso le difficoltà materiali e spirituali che segnano le vicende
quotidiane. Ma è anche appello a ricercare la competenza nel proprio lavoro e a
coltivare una fedeltà dinamica alla propria missione, adattandone le forme,
quando è necessario, alle nove situazioni e ai diversi bisogni, in piena docilità
all’ispirazione divina e al discernimento ecclesiale» (VC 37).
Un programma dove le istanze spirituali
innervano, e non eludono, i compiti della missione.
ALCUNE
OSSERVAZIONI
Di fronte ai grandi cambiamenti di
questi anni
È ovvio che il nostro documento non
abbia avuto delle risposte per le domande impreviste e inedite che si sarebbero
poste con dirompente novità nei decenni successivi. Sarebbe cadere nella
retorica celebrativa, il
volere vedere “prefigurazioni
profetiche”, là dove non ci sono.
La vita consacrata ha dovuto affrontare
problemi non previsti dal PC, quali il peso crescente dello spostamento nel sud
del pianeta, la riduzione e il ridimensionamento in occidente, l’esigenza di
una vera inculturazione , il confronto con le nuove tendenze culturali e e con
le nuove teologie, le difficoltà specifiche della vita religiosa femminile. E
sono solo alcune delle novità emerse in questi anni, che non vengono neppure
immaginate e quindi neppure sfiorate dal PC.
Se queste aree non erano previste dal
nostro documento, tuttavia i principi dinamici che offriva, sono stati di
incalcolabile utilità anche per queste aree: si pensi solo a come una vita
consacrata senza le linee ispiratrici del PC avrebbe affrontato proprio queste
nuove situazioni, che esigono strategie elastiche, capaci di rispondere a sfide
nuove.
La fecondità di una strategia si misura
sui tempi lunghi. Orbene, il PC ha influenzato e influenza positivamente anche
non poche situazioni non previste, proprio per la chiarezza e concretezza delle
linee guide offerte, specie là dove è necessario ed è importante attuare
inediti adattamenti. Anche se non parla di inculturazione, i principi dati per
il rinnovamento sono di indubbia utilità anche per questa nuova stagione della
vita consacrata, specie nel Terzo mondo.
La “carità perfetta”
È il titolo del documento, che viene
ben esplicitato al numero 6: «Coloro che fanno professione dei consigli
evangelici, prima di tutto cerchino Dio e amino Dio che per primo ci ha amati,
e in tutte le circostanze si sforzino di alimentare la loro vita nascosta con
Cristo in Dio, donde scaturisce e diventa urgente l’amore del prossimo per la
salvezza del mondo e l’edificazione della Chiesa. La stessa pratica dei
consigli evangelici viene animata e guidata da questa carità» (6 a).
È il primato della vita spirituale, che
è ricerca di Dio, un Dio amato «con tutto se stesso», come fonte dell’amore del
prossimo.
Testo limpido, ma sul quale si è
sorvolato troppo spesso, come si sorvola sulle cose ovvie, che già si sanno,
che si dicono perché bisogna dirle. E così, nei momenti indaffaratissimi delle
cose da rinnovare, è stato praticamente dimenticato, obbligando Paolo VI a un
affettuoso e preoccupato richiamo, con la sua Evangelica testificatio, a non
perdere di vista il Vangelo, a passare dall’adattamento esteriore al
rinnovamento interiore.
Paolo VI aveva fiducia nella vita
religiosa e nel suo rinnovamento: «Senza di voi l’intera Chiesa rischierebbe di
raffreddarsi, il paradosso salvifico del Vangelo smussarsi, il sale della fede
diluirsi, in un mondo in fase di secolarizzazione” (n 3)
E ancora: “L’autentico rinnovamento
della vita religiosa è di capitale importanza per il rinnovamento stesso della
chiesa e del mondo» (52).
Sono espressioni che sarebbe difficile
sentire oggi, per diversi motivi.
Ma c’è da chiedersi: il motore del
rinnovamento, o ancor più concretamente, il motore della vita consacrata oggi,
è posto in una vita spirituale dove l’amore di Dio è centrale, dove la vita
nascosta con Cristo in Dio è ricercata, dove i consigli evangelici sono frutti
belli e profumati di questo amore?
Parlare dell’amore di Dio è un
passeggiare tra le nuvole o esprimere una esperienza personale, dire l’energia
segreta che muove i nostri piedi e le nostre mani, oltre che il nostro cuore?
L’aver sottovalutato talvolta questa dimensione, in un periodo di spinte
centrifughe, ha tolto un centro unificante e propulsivo alla persona
consacrata, lasciandola in balia di obiettivi sempre più mutevoli e sempre meno
gratificanti. Non c’è da meravigliarsi se poi sono sorte altre aggregazioni
nella Chiesa che hanno preso sul serio il primato di Dio e si sono imposte sia
numericamente sia apostolicamente.
In un momento in cui questo principio
fondamentale è stato considerato “devozionistico” o “spiritualistico”, la vita
consacrata ha perso molto della sua forza trainante, perché la sorgente di
tutto, anche dell’amore del prossimo, e quindi dell’azione apostolica, viene
dalla risposta d’amore a Dio che ci ha amato per primo, risposta che scaturisce
dalla “vita nascosta con Cristo in Dio”.
Nelle scarse gratificazioni che la
missione può dare, specie nel deserto del mondo secolaristico, la
frequentazione della “vita nascosta con Cristo in Dio” è robusto sostegno e
sicuro aiuto ad incamminarsi sulle vie che portano all’esperienza del Dio vivo
e vero.
Testo dunque non solo limpido, ma di
grande attualità.
La povertà
La trattazione della povertà ha
attirato l’attenzione, per alcuni accenti veramente nuovi, non solo per le
affermazioni che ha fatto, ma anche per le vivaci e interminabili discussioni a
cui ha dato la stura. Scegliamo solo due affermazioni del n 13:
La prima: «La povertà volontariamente
scelta per seguire Cristo, di cui oggi specialmente è un segno tenuto in gran
conto, sia coltivata con predilezione dai religiosi e, se sarà necessario,
venga espressa sotto nuove forme».
Esplicitazione: «non basta essere
soggetti ai superiori nell’uso dei beni, ma bisogna anche che i religiosi siano
poveri in realtà e in spirito». E soprattutto: «Le congregazioni religiose
possono permettere che i loro membri rinuncino ai beni patrimoniali acquistati
e da acquistare».
L’insieme è un forte richiamo alla
povertà reale personale.
La seconda: «Gli istituti stessi,
tenendo conto delle condizioni dei singoli luoghi, cerchino di dare una certa
testimonianza collettiva di povertà».
Qui si parla della povertà collettiva ,
una delle prove che il documento avrebbe voluto “convertire” non solo i singoli
religiosi ma anche gli istituti.
Molti istituti hanno preso sul serio
questo invito, anche perché erano tempi quelli in cui la povertà era «un segno
tenuto in gran conto».
La “testimonianza collettiva” ha fatto
discutere molto e molti: gli “idealisti” spingevano a che l’istituto si
spogliasse dei suoi beni per essere davvero povero. I “realisti”opponevano
l’argomento della necessità di avere dei mezzi per poter servire i poveri.
Alcuni istituti, quasi per distinguersi
da opere prestigiose, che davano l’apparenza di notevole potenza, hanno
distinto la residenza dei religiosi dall’opera dove prestavano il lavoro: la
scuola o l’ospedale dovevano essere i più efficienti possibile, mentre le
abitazioni non potevano che essere modeste.
In America latina, poi, non pochi
abbandonarono opere prestigiose per exire de saeculo, per andare alla
periferia, per vivere poveramente con i poveri, in comunità di “inserimento”.
Anni di grandi dibattiti e di grandi
passioni per la povertà.
Poi altri problemi hanno fatto
sperimentare inattese forme di povertà, quali la povertà di personale, la
povertà di prospettive, povertà talvolta anche di mezzi, mettendo in secondo
piano questa autentica, anche se spesso litigiosa, passione.
Il nostro documento ha avuto il merito
di focalizzare punti ben precisi della pratica della povertà.
La vita ha spostato i termini della
questione.
E in queste “nuove forme di povertà”
dentro la vita consacrata è emerso qualche cosa del sommerso: la ricchezza
della povertà in spirito di tante persone consacrate che accettano serenamente
la nuova situazione di povertà di futuro, di prestigio, di incidenza
apostolica.
La vita consacrata non cessa di
sorprendere per le sue risorse spirituali.
Le federazioni di monasteri
Viene incoraggiata al n 22 la
federazioni fra monasteri sui iuris. E di fatto si sono moltiplicate le
associazioni e le federazioni, con esiti positivi là dove le persone credono
alla fraternità e pensano in termini di spiritualità di comunione e di servizio
fraterno.
È uno dei punti dove la legislazione
piuttosto fluida, lascia agli interessati la soluzione, o la non soluzione, dei
propri problemi.
Di fronte a situazioni davvero delicate
ci si chiede se non sarebbe meglio potenziare anche giuridicamente tali
federazioni. Le conferenze dei superiori maggiori
Hanno svolto un ruolo importante di
animazione, di formazione, di aggiornamento, di comunione tra i vari istituti.
E ciò soprattutto nei paesi dove la dispersione rischia l’isolamento.
È questa senza dubbio una delle eredità
istituzionali più apprezzate del nostro documento.
L’esortazione apostolica Vita
consecrata farà alcune chiose significative: le conferenze sono particolarmente
utili specie là ove «per particolari difficoltà, può essere forte la tentazione
di ripiegarsi su di sé, a danno della stessa vita consacrata e della Chiesa.
Occorre invece che si aiutino a vicenda nel cercare di capire il disegno di Dio
nell’attuale travaglio della storia, per meglio rispondervi con iniziative
apostoliche adeguate» (VC 53)
Come a dire: sono sempre valide,
soprattutto nei momenti in cui si presentano problematiche inedite.
Per concludere: la vita consacrata che
si delinea all’inizio del terzo millennio è ben diversa da quella dei tempi del
PC, anche se ne è stata segnata, in modalità e in misure diverse, dai suoi
impulsi innovatori. Se il rinnovamento messo in atto dal PC è stato influenzato
o disturbato, e non poteva essere altrimenti, dallo “spirito del tempo”,
ciononostante ha messo in grado la vita consacrata di affrontare i “nuovi
tempi”, proprio perché basato su principi che, alla prova del tempo, si sono
dimostratati fecondi, oltre che essere teologicamente fondati.
In definitiva c’è stata fiducia nello
Spirito, che soffia dove vuole, uno Spirito sul quale si sono sintonizzate le
migliori energie della vita consacrata. Spirito che guida la sua Chiesa,
nonostante tutte le nostre resistenze. Quello Spirito che non passa mai invano.
La flessibilità che la vita consacrata
manifesta nelle varie parti del mondo sarebbe impensabile senza il dinamismo di
adattamento e di rinnovamento espresso dal nostro documento
Riprendendo l’immagine iniziale, un
giornalista potrebbe così concludere: siamo in presenza di «un documento
contestato e contestatore, motore di un discusso ma necessario rinnovamento,
tuttora influente persino in alcune situazioni impreviste».
P. Pier Giordano Cabra