A QUARANT’ANNI DAL “PERFECTAE CARITATIS”

HA AVVIATO IL RINNOVAMENTO

 

Un decreto conciliare che non ha lasciato le cose come prima. Come è certo che è normale far coincidere le vicende del rinnovamento della vita religiosa con le vicende della sua applicazione. Parlare del PC significa dunque parlare del rinnovamento innescato dalle sue indicazioni.

 

Se si volessero caricare le tinte, cedendo al sensazionale, si potrebbe parlare del Perfectae caritatis come di un documento contestato e contestatore. Contestato durante l’elaborazione e occasione di contestazioni durante l’applicazione.

Sarebbe certamente una forzatura di tipo giornalistico, eppure il movimento che è stato messo in via da questo documento dentro la vita consacrata è stato tanto rilevante, che al sinodo dei vescovi sulla vita consacrata del 1994, se ne sono fatti due bilanci contrapposti: rinnovamento o deformazione, grazia o disgrazia, anni da ricordare o anni da dimenticare?

Un fatto è certo: il decreto conciliare Perfectae caritatis (PC) non ha lasciato le cose come prima. Come è certo che è normale far coincidere le vicende del rinnovamento della vita religiosa con le vicende della applicazione del decreto conciliare. Parlare del PC significa dunque parlare del rinnovamento innescato dalle sue indicazioni.

Ma procediamo con ordine.

Innanzitutto il 26 e 27 settembre prossimo in occasione del 40° del decreto conciliare PC viene organizzato a Roma, dalla Santa Sede, e precisamente dal dicastero per la vita consacrata e le società di vita apostolica un simposio proprio su questo tema: è la Chiesa che vuol fare un bilancio su questi quaranta anni. Anzi: un bilancio, in cerca di prospettive proponibili.

È un “atto dovuto”, nel senso che tutti i dicasteri stanno facendo la stessa cosa nei confronti dei documenti che li riguardano. Il simposio è su invito e si terrà nell’aula del sinodo. Parteciperanno membri dei dicasteri romani, a partire naturalmente da quello per la vita consacrata, consultori, vari superiori e superiore generali, presidenti delle conferenze nazionali dei religiosi, vicari episcopali delle conferenze episcopali. Saranno invitati anche teologi e direttori di riviste specializzate.

In attesa delle selezionate e dotte relazioni, che getteranno nuova luce sulla composizione e sull’elaborazione del documento, sulla storia della ricezione nei vari paesi, sulle questioni aperte, tentiamo di dare un primo approccio al documento, a partire delle domande a cui ha voluto rispondere il decreto conciliare De accomodata renovatione vitae religiosae, tradotto in italiano con “Il rinnovamento adeguato della vita religiosa”, comunemente citato come il Perfectae caritatis.

 

RINNOVAMENTO

O RITORNO ALLE ORIGINI?

 

Al concilio, la vita religiosa era arrivata in buona salute. Era al culmine di una crescita costante iniziata dalla fine della rivoluzione francese. Crescita numerica e crescita di prestigio esterno e interno: opere fiorenti in tutti i campi, dall’educazione alle missioni, dagli ospedali alla cultura. E, dentro, una formazione ascetica seria, una fedeltà alla Chiesa a tutta prova, una invidiabile chiarezza di obiettivi. E molto lavoro, unito al “culto della Regola”.

Una grande risorsa per la Chiesa, tanto è vero che quando qualcuno voleva dare consistenza e serietà a qualche iniziativa, si preoccupava di avere una congregazione religiosa che la gestisse.

Eppure al concilio c’era chi, sensibile ai mutamenti della società, si preoccupava del futuro: e avvertiva la necessità di una maggiore qualificazione culturale del personale, specialmente femminile. Si percepivano pure come antiquate alcune norme, si denunciavano casi di abusi di autorità. Si domandavano insomma cambiamenti per un mondo in cambiamento, proprio in nome della missione, per dare nuove risposte alle nuove domande.

E qui si affaccia la fatidica parola rinnovamento, attorno alla quale si scatena un vivace dibattito.

Alcuni, attenti alla tradizione, facevano notare come la vita religiosa si sia sempre riformata ritornando alla purezza delle origini, anzi alla santità delle origini.

Altri temevano che mettere in atto un processo di cambiamento e adattamento, avrebbe significato correre il rischio di intaccare anche gli elementi essenziali. La storicizzazione delle norme e delle tradizioni avrebbe potuto indebolire le realtà intoccabili, specie se il cambiamento fosse stato affidato ai singoli istituti, con notevole danno alla disciplina e alla serietà della vita religiosa.

Altri prevedevano il pericolo di una conflittualità dentro la vita religiosa derivante dalle divergenze di opinione su quanto si poteva mutare e su quello che doveva restare

Altri infine facevano presenti le perplessità dell’oriente cristiano, specie del monachesimo, che vedeva in questo preoccuparsi e affannarsi attorno al rinnovamento il tipico sintomo dell’attivismo dell’occidente, dove l’uomo vuol essere faber sui, dimentico dello Spirito Santo, il vero protagonista di ogni passo nella storia della salvezza.

I timori e le perplessità di questi “contestatori” del rinnovamento non erano tutti campati per aria, perché molti degli effetti temuti, si sono poi puntualmente realizzati.

Ciò nonostante, il concilio, con una buona dose di coraggio, basato sulla fede nell’azione dello Spirito e sulla buona volontà umana, ha optato per il rinnovamento, preoccupandosi di darne il significato: non un salto nel buio, non un adattamento lasciato alla libera creatività, ma un mutamento che attinge al passato fondante, per meglio guardare al futuro.

– Uno sguardo a Cristo, origine delle origini, e uno sguardo all’origine dell’istituto, cioè al fondatore. Le varie tradizioni successive vanno misurate sulla loro utilità per il presente, venendo relativizzate e quindi valorizzate nella misura in cui esprimono lo spirito e le intenzioni del fondatore e sostengono la sequela di Cristo nelle attuali condizioni di vita.

– Uno sguardo al presente, per adattarsi ai tempi mutati «per giovare agli altri più efficacemente». È l’invito a leggere i segni dei tempi. Non un semplice ritorno alle origini, dunque, come si era soliti fare in passato, ma una proiezione verso il futuro.

I Padri conciliari, con queste premesse innovatrici, manifestavano la loro consapevolezza che anche la vita religiosa doveva affrontare le novità in corso di accelerazione, le res novae e quindi doveva preparasi a dare una risposta «all’irruzione della chiesa nei tempi nuovi».

Con il Perfectae caritatis, i Padri conciliari pongono dei grossi principi di cambiamento che provocheranno un vero terremoto dentro la vita religiosa. Se la Lumen gentium, la costituzione dogmatica sulla chiesa, aveva inserito la vita religiosa nel mistero della Chiesa, il nostro decreto ha delle finalità più pratiche. Esso è più attento alla storia, ai problemi concreti, alle necessità della missione.

Mentre il primo sarà più frequentato dai teologi, il secondo sarà utilizzato dagli uomini di azione e dai “riformatori” o dagli “innovatori”, specie degli istituti di vita apostolica.

Il Perfectae caritatis si pone come il punto di partenza del rinnovamento: è stato notato come sia l’unico documento conciliare che richiami esplicitamente nel titolo le finalità additate al concilio da papa Giovanni XXIII.

Ma è anche il documento che favorisce la comprensione dei diversi progetti storici dei singoli istituti, preparando la teologia del carisma e delle varie missioni specifiche.

Se il PC ha dato la possibilità di esprimersi a un grande desiderio di cambiamento, che premeva dentro la vita religiosa, la direzione e i contenuti verranno attinti alle costituzioni sulla parola di Dio, sulla liturgia e alla Gaudium et spes.

Il rinnovamento si alimenta della lettura dei segni dei tempi, espressione dalla folgorante carriera soprattutto per i due successivi decenni.

 

LA PRESENTAZIONE

DEL DOCUMENTO

 

Il Perfectae caritatis raramente fu presentato isolatamente da altri documenti del concilio. E raramente, possiamo dirlo francamente, le presentazioni furono indenni dallo spirito del tempo.

Sintetizzando molto schematicamente e riduttivamente, si possono così riassumere i principali spostamenti di accento introdotti dal nostro decreto, così come buona parte degli interpreti li presentava alle affollate e numerose assemblee di religiosi e religiose del tempo:

– dal primato della Regola al primato del Vangelo: la sequela di Cristo è la realtà fondante la vita religiosa e il suo Vangelo è la “norma normante” di ogni altra regola, che, in quanto specificazione del Vangelo, va considerata come un mezzo atto a seguire Gesù Cristo. Mentre si afferma la validità del diritto, lo si relativizza nei confronti del Vangelo;

– dall’autorità alla fraternità: la fraternità è la realtà centrale della vita religiosa. Prima di essere superiori-sudditi, si è fratelli, convocati dallo stesso amore di Cristo e quindi chiamati alla corresponsabilità e alla sussidiarietà, con la realizzazione di nuove forme di governo più partecipative. Il numero 15 è un elegante compendio della visione evangelica della comunità: un vero gioiello;

– da una normativa che scende dall’alto a una normativa che viene dal basso. L’adattamento delle norme alle necessità della missione, non è opera di vertici, ma opera alla quale anche la base viene chiamata a collaborare. Da una regola da applicare, perché veniva dalle mani dei fondatori, a una regola “opera delle nostre mani”: uno spostamento di prospettiva davvero carico di incognite, ma anche di promesse.

– dalla “fuga mundi” al desiderio di conoscerlo per meglio servirlo. Qui si entra nella tematica della Gaudium et spes, tematica che ha interagito non poco nella interpretazione del nostro documento. “Dall’anatema al dialogo”: lo spostamento non è di poco conto. Naturalmente siamo qui in presenza di una nuova visione del “mondo”, che non è solo visto come il mondo del peccato, il luogo dei pericoli, ma è considerato come il frutto delle fatiche dell’uomo, delle sue conquiste, delle sue speranze e attese, che vanno assunte per orientarle a Cristo;

– da una visione ascetica a una visione messianica. Può essere vista come la conseguenza dello spostamento precedente: se il mondo è il luogo della salvezza, perché fuggirlo? L’importante è lavorare alla costruzione di un mondo nuovo e migliore. È a questo che bisogna badare, più che ai problemi personali. La vera penitenza o ascesi è nel compimento dei propri doveri, specie verso i poveri e la società da rinnovare.

– Dalle devozioni alla parola di Dio e alla liturgia. «Coltivino li spirito di preghiera, attingendo alle fonti genuine della spiritualità cristiana:In primo luogo abbiano quotidianamente fra le mani la Sacra Scrittura, affinché dalla lettura e dalla meditazione delle divine Scritture imparino la “sovreminente scienza di Gesù Cristo”: Celebrino la sacra liturgia…e alimentino la loro vita spirituale a questa fonte inesauribile» (6b).

Dove prima regnavano le devozioni, ecco il ritorno alle “fonti genuine”;

– dalla conversione del singolo alla conversione dell’Istituto. Il concilio chiama a conversione non solo i singoli (è sempre stato fatto), ma anche gli istituti: siamo in presenza di un movimento di ritorno alle fonti pure del Vangelo e delle intenzioni del fondatore e a un gigantesco impegno di adattamento alle odierne condizioni. «Non si tratta quindi di restaurare soltanto alcuni valori antichi né di riformare sole le cose difettose o desuete, ma veramente di fare cose nuove: reincarnare nel contesto dell’attuale cultura una vita religiosa più spirituale e più consona al proprio carisma» (Aubry).

 

IL CONFLITTO

DELLE INTERPRETAZIONI

 

Si è accennato sopra allo “spirito del tempo”, che avrebbe influenzato, in forme naturalmente differenziate, la presentazione e quindi l’interpretazione del documento.

Di fatto il modo sopra esposto di presentare il nostro documento, al di là della sua efficacia didattica, risente di una mentalità fiduciosa nel futuro e nel progresso, è immerso in una cultura evolutiva, da alcuni chiamata “progressista”, secondo la quale il domani sarà migliore dell’oggi, perché progresso significa camminare verso il meglio.

Secondo questa mentalità o modo di percepire le cose, il domani è migliore perché si contrappone allo ieri, perché lo supera nel senso che ritiene obsoleto il passato anche prossimo.

La società occidentale stava uscendo dalla millenaria povertà, conoscendo un vero e proprio miglioramento nelle condizioni di vita, favorita da una costante crescita economica. Di qui l’impressione della inarrestabilità del processo, un’impressione che tendeva a diventare una visione della vita, per cui si pensava in termini di un passato oscuro, quando non oscurantista, e di un futuro luminoso e migliore, in tutti i settori.

Anche la vita religiosa cadeva sotto questo a priori, con diverse sfumature nei confronti del passato, verso il quale per qualcuno si doveva parlare di “rottura”, per altri di “superamento”, per altri di “avanzamento”.

Si partiva sempre comunque da un punto che doveva essere superato per arrivare a un punto di netto miglioramento. Il concilio era visto dunque come un evento provvidenziale, avendo permesso questo “salto di qualità” dal vecchio al nuovo, dalla “terra che deve essere abbandonata” alla nuova terra. Quasi un nuovo Esodo: dal passato al futuro, dall’Egitto alla Terra promessa.

Ma non tutti erano pronti a parlare in questi termini dell’evento conciliare, come “rottura nei confronti del passato”, e conseguentemente di leggere il PC come documento di “rinnovamento integrale” o di mutamento radicale della vita religiosa.

In netta opposizione alla mentalità prevalente, questo secondo gruppo metteva l’accento sulla continuità, sull’importanza di ciò che “da sempre, da tutti, e in ogni luogo è stato tramandato” e, per quanto riguarda la vita consacrata, su quanto di intangibile, di sacro, di irrinunciabile, di perenne c’era in questa venerabile forma di vita, gettando il discredito sul velleitarismo dei “novatores”.

In minoranza agguerrita, i componenti di questa tendenza, hanno alzato i toni del contendere, producendo l’effetto di accrescere la polarizzazione e impedire un dibattito sereno.

Erano tempi in cui si era o pro o contra. O, con termini infelici, ma usati e abusati: o progressisti o tradizionalisti. Una delle tante semplificazioni di quegli anni, che rendeva arduo il discernimento delle verità e dei limiti presenti nelle diverse posizioni.

La controversia acquistava toni drammatici anche perché non verteva semplicemente su dei concetti o sui massimi sistemi, ma investiva la vita pratica, una vita sulla quale le persone avevano giocato tutte se stesse, e quindi sentivano sulla propria pelle le varie oscillazioni teologiche e dottrinali. Anni di slanci e di sofferenze, di generose progettazioni e di amare delusioni.

Tanto più che il grande movimento in corso cominciava a deludere i teorici di “nuovi equilibri più avanzati”, dal momento che i risultati sembravano ben diversi dalla primavera annunciata e sognata. Il panorama offerto, dopo pochi anni, dalla vita religiosa assomigliava piuttosto a un campo intristito da una gelata invernale che ad una ridente primavera di mandorli in fiore.

 

IL TRAUMA

LACERANTE DEL ‘68

 

Ma c’è di più: il rinnovamento promosso dal PC, iniziato dentro una cultura ottimistica circa il futuro, si imbatterà presto nella contestazione del famoso ’68, con i suoi slanci e le sue utopie, le sue liberalizzazioni e le sue violenze, le sue contestazioni e i suoi slogan mobilitanti e illusori. Inquinando così la interpretazione del rinnovamento e rendendo estremamente difficoltosa la sua attuazione, essendo usato da alcuni come strumento di “contestazione”.

Basti pensare al clima di assemblearismo in cui si sono svolti i capitoli speciali, auspicati dal nostro decreto per rinnovare le costituzioni. Un clima che, solo per fare un esempio, era visceralmente allergico a ogni regolamentazione giuridica chiara, con la conseguenza di rendere praticamente ingovernabili gli istituti, data la voluta incertezza della normativa delle nuove costituzioni.

Se si aggiunge l’avanzata di una secolarizzazione, sovente “secolaristica”, si comprende come nella convulsa azione riformistica fosse ovvio privilegiare gli aspetti strutturali, sociali e politici, nei confronti della dimensione interiore e degli aspetti più tipicamente spirituali.

Cultura proiettata verso il futuro, clima di contestazione del passato e del presente, eccessiva attenzione alla dimensione sociologica dei problemi: siamo in presenza di una miscela esplosiva che, a dir poco, ha disturbato l’applicazione del nostro decreto.

E ancora: presenza dell’utopia, come strumento di cambio sociale, utopia non assente neppure in alcuni progetti di riforma della vita religiosa.

Paolo VI, alla chiusura del concilio aveva affermato con grande lucidità e preveggenza: «Quando noi uomini spingiamo i nostri desideri verso una concezione ideale della vita, ci troviamo subito o nell’utopia e nella caricatura teorica,o nell’illusione o nella delusione».

 

I RUGGENTI

ANNI ’70

 

Sono gli anni della politicizzazione, della chiesa locale, dei capitoli speciali, della teologia del carisma dei singoli istituti. Ma anche della “chiesa dei poveri” e della “chiesa povera”, della teologia della liberazione in America latina, gli anni dell’ inizio della crescita numerica e culturale della vita religiosa nel Terzo mondo e della diminuzione nell’occidente.

Una cenno alle questioni principali.

Nel clima di ottimismo acquista grande importanza la politica, come mezzo per realizzare un mondo più giusto per tutti. Improvvisamente la politica assume un alone messianico, con slogan seducenti “Tutto è politica “ “La politica è tutto”. Di qui la svalutazione dell’assistenzialismo, dal momento che bisognava andare alla radice dei problemi, affrontare cioè la cause, e non limitarsi a lenire le sofferenze degli effetti perversi degli assetti istituzionali ingiusti. Da queste radici maturano rapidamente alcune convinzioni.

Il vero nemico diventano le “strutture ingiuste”... le opere dei religiosi sono viste come assistenziali e quindi vanno abbandonate… il combattimento principale non è più rivolto a se stessi, ma al “male del mondo”. Ecco il passaggio pratico dall’asse ascetico all’asse messianico.

In America latina questa problematica assume tono drammatici per le ingiustizie disumane di un continente che si dice cristiano. La teologia della liberazione si pone come risposta dei credenti e coinvolge non pochi religiosi e religiose in un lavoro di coscientizzazione che se da una parte dà entusiasmo e nuovo significato alla propria presenza a chi si impegna nella lotta contro l’oppressione e l’ingiustizia, dall’altro suscita perplessità in chi vede il rischio dell’ assorbimento nella lotta sociale e politica della vita consacrata.

La chiesa locale inoltre acquista sulle persone consacrate un fascino speciale, sia per la dignità riconosciutale dal concilio, si per la diminuita stima verso le proprie opere: da qui la tendenza verso un impegno “genericistico” nella vita pastorale, con il pericolo di una parrocchializzazione e di una diocesanizzazione della vita religiosa.

In questa situazione, l’identità non solo della vita consacrata, ma anche dei singoli istituti, ha trovato una risorsa formidabile nella teologia del carisma, che ha le sue premesse nel PC: «Torna a vantaggio della Chiesa stessa che gli istituti abbiano una propria indole e una loro propria funzione. Perciò siano messi in luce e mantenuti fedelmente lo spirito e le intenzioni dei fondatori» (2b).

La teologia del carisma, prontamente recepita dal magistero, ha contribuito a rafforzare l’identità dell’istituto e a servire la chiesa “secondo la propria indole”.

Comincia anche la crescita nel terzo mondo della vita consacrata, crescita che sarà vista presto come provvidenziale, dato il calo, o il crollo, delle vocazioni in occidente. E dati i numerosi abbandoni, talvolta eufemisticamente presentati come “promozione allo stato laicale”.

Il PC, come del resto gli altri documenti del concilio, non aveva prestata la dovuta attenzione alla problematica del Terzo mondo: era ancora un documento europeo, anzi eurocentrico, che rispecchiava cioè la situazione esistente, caratterizzata da una vita religiosa europea numericamente, culturalmente ed economicamente forte, che aveva le sue province in altre parti del mondo, dove tendenzialmente veniva riprodotto, più o meno, quello che si faceva o si pensava in Europa.

Eppure il PC, anche se non aveva avuto uno sguardo esplicito sul terzo mondo, aveva messo la vita religiosa nella condizioni di “adattarsi” anche nel terzo mondo, proprio per il principio programmatico delle accomodata renovatione della vita religiosa. Bastava applicare alle nuove culture i principi del 2 d: «Gli istituti procurino ai loro membri un’appropriata conoscenza .della sia condizione umana e dell’attualità, sia dei bisogni della Chiesa, in modo che essi, discernendo con saggezza, alla luce delle circostanze del mondo di oggi e ardendo di zelo apostolico, siano in grado di giovare più efficacemente agli uomini”.

Sono anni “ruggenti”, in cui una vita consacrata ancora ricca di giovani in occidente e tutta proiettata verso l’esterno stenta,almeno sembra, a comprendere un’altra indicazione di PC: «gli adattamenti alle esigenze attuali avranno successo solo se saranno animati da un rinnovamento spirituale, al quale si dovrà sempre dare il primo posto, anche nello sviluppo delle opere esterni» (2 e). Rinnovamento spirituale perseguito nei bei documenti usciti dai capitoli speciali, ma difficile da assimilare e da realizzare. E non solo per la difficoltà a passare dalla teoria alla pratica, ma per la diversa comprensione dello “spirituale” in un clima innovativo e pluralistico, quale era quello dei primi decenni del rinnovamento.

 

I “BORGHESI”

ANNI ’80.

 

Dopo alcuni decenni di attenzione al sociale, ecco il ritorno all’individuale. Dopo l’attenzione al “pubblico” ecco il ritorno al privato. Dopo le grandi narrazioni della modernità ecco la scoperta del “piccolo è bello”. Dopo l’attenzione per la giustizia sociale, ecco il ritorno alla felicità personale. Dopo la politica e la sociologia, ecco l’avanzata della psicologia. Dopo la trasformazione della società, ecco il disincanto, con il suo narcisismo placido. Dopo anni di ateismo, sovente ostentato, ecco l’emergere di una “nuova religiosità”. Dopo i temi della missione, ecco il tema dell’essere in pace con se stessi. Dopo l’azione, ecco l’interiorità. Dopo le analisi strutturali, ecco l’analisi del proprio io. E si potrebbe continuare.

Quanto attiene alla vita religiosa, che a partire dal 1983, con la pubblicazione del nuovo Codice di diritto canonico, si chiamerà Vita consacrata, si accentuano alcuni orientamenti, del tutto assenti o quanto meno imprevisti, nel PC: la rapidissima diminuzione dell’attrazione da parte della vita consacrata femminile, le nuove forme di vita consacrata, le nuove forme di collaborazione religiosi – laici…

Il PC aveva trattato indistintamente la vita religiosa maschile e femminile, con un implicito presupposto che la vita religiosa femminile fosse una copia adattata di quella maschile.

Al tempo del decreto sembrava ovvio che le migliori energie spirituali femminili vedessero nella vita religiosa uno sbocco ottimale per il proprio impegno per il regno di Dio.

Ma in questi anni il soggetto “donna” ha subito una vera e propria rivoluzione: l’indipendenza economica, il controllo della propria fecondità, una nuova coscienza della femminilità, ha portato la donna a prendere le distanze non solo dalla vita religiosa, ma sovente anche dalla vita cristiana. E le vocazioni si spengono sul nascere. L’occidente, forse per la prima volta,vede incombere la minaccia di una drastica diminuzione, se non della scomparsa della vita religiosa femminile. Ancora pochi si rendono conto della tragedia che questa prospettiva porta con sé. Si spera sempre in un miracolo, ponendo umanamente le fiducia nell’alta qualità delle piccole gocce che giungono in sostituzione del fiume impetuoso di un tempo. Ma il miracolo è rimandato di anno in anno…

Non sappiamo fino a che punto si conoscesse quanto il nostro documento dice al n. 24 a: «Anche nella predicazione ordinaria si tratti frequentemente dei consigli evangelici e dell’abbracciare lo stato religioso». Sappiamo che il tema stava cadendo in disuso. Purtroppo con incalcolabili conseguenze.

Non tutto è negativo però: nascono nuove forme di vita consacrata, all’insegna dell’accentuazione della parola di Dio, della comunità e della povertà (valori su cui aveva insistito il nostro documento). Come pure si fanno avanti nuove modalità di collaborazione con il laici, quali potenziali portatori dei nostri carismi, oltre che collaboratori nel nostri servizi..

Il ricupero della dimensione religiosa della vita aiuta il ritorno alla spiritualità, meglio accetta se “arricchita” di una buona dose di psicologia.

Alla fine degli anni ’80, crolla, col muro di Berlino, anche il mondo comunista, almeno in occidente.

Se il 1968 aveva segnato l’esplosione del “collettivo”, del sociale, il 1989 segnerà invece l’implosione di questa tendenza e il trionfo del “particolare”, dell’individuo, dei suoi desideri.

Di fronte all’esaltazione teorica e pratica dell’individualismo, il dicastero per la vita consacrata pubblica nel 1994 un documento sulla Vita fraterna in comunità, documento che si ispira esplicitamente al n. 15 del PC e che viene giudicato come opportuno e pertinente alla situazione di difficoltà della vita comunitaria.

 

AL SINODO DEI VESCOVI

SULLA VITA CONSACRATA

 

Dopo le vicende travagliate della vita consacrata, specie qui in occidente, il nostro documento si trovò indirettamente coinvolto nel conflitto delle interpretazioni anche al sinodo del 1994, quando si affrontò il controverso tema del bilancio del sofferto periodo del rinnovamento.

Che giudizio dare della notevole ma spesso deludente fatica del rinnovamento? In occidente la vita religiosa si era ridotta numericamente e invecchiata non solo anagraficamente. Indubbiamente essa si era arricchita teologicamente, ma impoverita sotto altri punti di vista.

L’enorme lavorio del rinnovamento, fatto di riunioni, conferenze, viaggi, assemblee, dibattiti, preghiere, dolorosi contrasti e inspiegabili abbandoni, di desiderio evangelico di mutare in meglio, e non solo di abito, di illusioni e delusioni, di amore sincero e appassionato per il proprio istituto e per la vita consacrata, tutta questa immane fatica sembrava la classica montagna che aveva partorito il topolino. La vita consacrata ne usciva certamente umiliata, ma anche più umile.

Questi anni avevano fatto fare dei progressi, e non solo personali, «nell’esercizio delle virtù, soprattutto dell’umiltà..con cui i religiosi partecipano all’annientamento di Cristo e allo stesso tempo alla sua vita nello Spirito» (cf. PC 5c).

Nel dibattito delle idee, paradossalmente sia per gli avversari che per i fautori, il rinnovamento aveva fallito, anche se per motivi totalmente diversi.

Per gli oppositori, il rinnovamento aveva operato una deformazione della vita religiosa, perché l’aveva svigorita spiritualmente, mondanizzandola, sottovalutando l’ascetica tradizionale, indebolendo il senso dell’obbedienza e la continuità di una tradizione che l’aveva resa grande nel passato.

Alcuni, e non di poco conto, osavano dire apertamente: «La vita consacrata è debole spiritualmente, poco affidabile dottrinalmente e poco innovativa apostolicamente».

Era praticamente la posizione di coloro che non avevano mai condiviso l’orientamento predominante in questi anni in quasi tutti gli istituti.

Per i sostenitori, il rinnovamento non aveva prodotto i frutti sperati perché non era stato sufficientemente radicale e non aveva tenuto in debito conto la società completamente nuova: «I fenomeni culturali del nostro tempo fanno sì che il modello tradizionale della vita consacrata e la sua spiegazione teologica, risultino oggi culturalmente anacronistici».

Per i primi, gli oppositori, il rinnovamento, promosso dal PC,

era stato disastroso perché aveva rotto con la tradizione; per i secondi, i sostenitori, il rinnovamento non ha rotto a sufficienza col passato e quindi è ormai inadeguato per le mutate condizioni della società, che richiedono di osare di più e di ripensare radicalmente le cose.

Per i primi si tratta di ricuperare l’identità sacrale della vita consacrata; per i secondi il problema è quello della sua significatività o rilevanza in un mondo sentito come completamente nuovo.

Sia per gli uni come per gli altri, il rinnovamento avrebbe esaurito la sua spinta propulsiva e dovrebbe lasciare il posto a un ripensamento più radicale, a una vera e propria rifondazione

Il sinodo, nella grande maggioranza degli interventi ne darà un giudizio più equo: pur riconoscendo che non tutto è andato per il meglio, incoraggia tuttavia a proseguire il cammino di rinnovamento.

L’esortazione, eco fedele degli orientamenti del sinodo, parla del rinnovamento quando tratta della fedeltà creativa. E ne parla in termini che costituiscono un rilancio del rinnovamento “riveduto e corretto”: «Gli istituti sono dunque invitati a riproporre con coraggio l’intraprendenza, l’inventiva e la santità dei fondatori e delle fondatrici, come risposta ai segni dei tempi, emergenti nel mondo di oggi. Questo invito è innanzitutto un appello alla perseveranza nel cammino di santità, attraverso le difficoltà materiali e spirituali che segnano le vicende quotidiane. Ma è anche appello a ricercare la competenza nel proprio lavoro e a coltivare una fedeltà dinamica alla propria missione, adattandone le forme, quando è necessario, alle nove situazioni e ai diversi bisogni, in piena docilità all’ispirazione divina e al discernimento ecclesiale» (VC 37).

Un programma dove le istanze spirituali innervano, e non eludono, i compiti della missione.

 

ALCUNE

OSSERVAZIONI

 

Di fronte ai grandi cambiamenti di questi anni

 

È ovvio che il nostro documento non abbia avuto delle risposte per le domande impreviste e inedite che si sarebbero poste con dirompente novità nei decenni successivi. Sarebbe cadere nella retorica celebrativa, il

volere vedere “prefigurazioni profetiche”, là dove non ci sono.

La vita consacrata ha dovuto affrontare problemi non previsti dal PC, quali il peso crescente dello spostamento nel sud del pianeta, la riduzione e il ridimensionamento in occidente, l’esigenza di una vera inculturazione , il confronto con le nuove tendenze culturali e e con le nuove teologie, le difficoltà specifiche della vita religiosa femminile. E sono solo alcune delle novità emerse in questi anni, che non vengono neppure immaginate e quindi neppure sfiorate dal PC.

Se queste aree non erano previste dal nostro documento, tuttavia i principi dinamici che offriva, sono stati di incalcolabile utilità anche per queste aree: si pensi solo a come una vita consacrata senza le linee ispiratrici del PC avrebbe affrontato proprio queste nuove situazioni, che esigono strategie elastiche, capaci di rispondere a sfide nuove.

La fecondità di una strategia si misura sui tempi lunghi. Orbene, il PC ha influenzato e influenza positivamente anche non poche situazioni non previste, proprio per la chiarezza e concretezza delle linee guide offerte, specie là dove è necessario ed è importante attuare inediti adattamenti. Anche se non parla di inculturazione, i principi dati per il rinnovamento sono di indubbia utilità anche per questa nuova stagione della vita consacrata, specie nel Terzo mondo.

La “carità perfetta”

È il titolo del documento, che viene ben esplicitato al numero 6: «Coloro che fanno professione dei consigli evangelici, prima di tutto cerchino Dio e amino Dio che per primo ci ha amati, e in tutte le circostanze si sforzino di alimentare la loro vita nascosta con Cristo in Dio, donde scaturisce e diventa urgente l’amore del prossimo per la salvezza del mondo e l’edificazione della Chiesa. La stessa pratica dei consigli evangelici viene animata e guidata da questa carità» (6 a).

È il primato della vita spirituale, che è ricerca di Dio, un Dio amato «con tutto se stesso», come fonte dell’amore del prossimo.

Testo limpido, ma sul quale si è sorvolato troppo spesso, come si sorvola sulle cose ovvie, che già si sanno, che si dicono perché bisogna dirle. E così, nei momenti indaffaratissimi delle cose da rinnovare, è stato praticamente dimenticato, obbligando Paolo VI a un affettuoso e preoccupato richiamo, con la sua Evangelica testificatio, a non perdere di vista il Vangelo, a passare dall’adattamento esteriore al rinnovamento interiore.

Paolo VI aveva fiducia nella vita religiosa e nel suo rinnovamento: «Senza di voi l’intera Chiesa rischierebbe di raffreddarsi, il paradosso salvifico del Vangelo smussarsi, il sale della fede diluirsi, in un mondo in fase di secolarizzazione” (n 3)

E ancora: “L’autentico rinnovamento della vita religiosa è di capitale importanza per il rinnovamento stesso della chiesa e del mondo» (52).

Sono espressioni che sarebbe difficile sentire oggi, per diversi motivi.

Ma c’è da chiedersi: il motore del rinnovamento, o ancor più concretamente, il motore della vita consacrata oggi, è posto in una vita spirituale dove l’amore di Dio è centrale, dove la vita nascosta con Cristo in Dio è ricercata, dove i consigli evangelici sono frutti belli e profumati di questo amore?

Parlare dell’amore di Dio è un passeggiare tra le nuvole o esprimere una esperienza personale, dire l’energia segreta che muove i nostri piedi e le nostre mani, oltre che il nostro cuore? L’aver sottovalutato talvolta questa dimensione, in un periodo di spinte centrifughe, ha tolto un centro unificante e propulsivo alla persona consacrata, lasciandola in balia di obiettivi sempre più mutevoli e sempre meno gratificanti. Non c’è da meravigliarsi se poi sono sorte altre aggregazioni nella Chiesa che hanno preso sul serio il primato di Dio e si sono imposte sia numericamente sia apostolicamente.

In un momento in cui questo principio fondamentale è stato considerato “devozionistico” o “spiritualistico”, la vita consacrata ha perso molto della sua forza trainante, perché la sorgente di tutto, anche dell’amore del prossimo, e quindi dell’azione apostolica, viene dalla risposta d’amore a Dio che ci ha amato per primo, risposta che scaturisce dalla “vita nascosta con Cristo in Dio”.

Nelle scarse gratificazioni che la missione può dare, specie nel deserto del mondo secolaristico, la frequentazione della “vita nascosta con Cristo in Dio” è robusto sostegno e sicuro aiuto ad incamminarsi sulle vie che portano all’esperienza del Dio vivo e vero.

Testo dunque non solo limpido, ma di grande attualità.

La povertà

La trattazione della povertà ha attirato l’attenzione, per alcuni accenti veramente nuovi, non solo per le affermazioni che ha fatto, ma anche per le vivaci e interminabili discussioni a cui ha dato la stura. Scegliamo solo due affermazioni del n 13:

La prima: «La povertà volontariamente scelta per seguire Cristo, di cui oggi specialmente è un segno tenuto in gran conto, sia coltivata con predilezione dai religiosi e, se sarà necessario, venga espressa sotto nuove forme».

Esplicitazione: «non basta essere soggetti ai superiori nell’uso dei beni, ma bisogna anche che i religiosi siano poveri in realtà e in spirito». E soprattutto: «Le congregazioni religiose possono permettere che i loro membri rinuncino ai beni patrimoniali acquistati e da acquistare».

L’insieme è un forte richiamo alla povertà reale personale.

La seconda: «Gli istituti stessi, tenendo conto delle condizioni dei singoli luoghi, cerchino di dare una certa testimonianza collettiva di povertà».

Qui si parla della povertà collettiva , una delle prove che il documento avrebbe voluto “convertire” non solo i singoli religiosi ma anche gli istituti.

Molti istituti hanno preso sul serio questo invito, anche perché erano tempi quelli in cui la povertà era «un segno tenuto in gran conto».

La “testimonianza collettiva” ha fatto discutere molto e molti: gli “idealisti” spingevano a che l’istituto si spogliasse dei suoi beni per essere davvero povero. I “realisti”opponevano l’argomento della necessità di avere dei mezzi per poter servire i poveri.

Alcuni istituti, quasi per distinguersi da opere prestigiose, che davano l’apparenza di notevole potenza, hanno distinto la residenza dei religiosi dall’opera dove prestavano il lavoro: la scuola o l’ospedale dovevano essere i più efficienti possibile, mentre le abitazioni non potevano che essere modeste.

In America latina, poi, non pochi abbandonarono opere prestigiose per exire de saeculo, per andare alla periferia, per vivere poveramente con i poveri, in comunità di “inserimento”.

Anni di grandi dibattiti e di grandi passioni per la povertà.

Poi altri problemi hanno fatto sperimentare inattese forme di povertà, quali la povertà di personale, la povertà di prospettive, povertà talvolta anche di mezzi, mettendo in secondo piano questa autentica, anche se spesso litigiosa, passione.

Il nostro documento ha avuto il merito di focalizzare punti ben precisi della pratica della povertà.

La vita ha spostato i termini della questione.

E in queste “nuove forme di povertà” dentro la vita consacrata è emerso qualche cosa del sommerso: la ricchezza della povertà in spirito di tante persone consacrate che accettano serenamente la nuova situazione di povertà di futuro, di prestigio, di incidenza apostolica.

La vita consacrata non cessa di sorprendere per le sue risorse spirituali.

Le federazioni di monasteri

Viene incoraggiata al n 22 la federazioni fra monasteri sui iuris. E di fatto si sono moltiplicate le associazioni e le federazioni, con esiti positivi là dove le persone credono alla fraternità e pensano in termini di spiritualità di comunione e di servizio fraterno.

È uno dei punti dove la legislazione piuttosto fluida, lascia agli interessati la soluzione, o la non soluzione, dei propri problemi.

Di fronte a situazioni davvero delicate ci si chiede se non sarebbe meglio potenziare anche giuridicamente tali federazioni. Le conferenze dei superiori maggiori

Hanno svolto un ruolo importante di animazione, di formazione, di aggiornamento, di comunione tra i vari istituti. E ciò soprattutto nei paesi dove la dispersione rischia l’isolamento.

È questa senza dubbio una delle eredità istituzionali più apprezzate del nostro documento.

L’esortazione apostolica Vita consecrata farà alcune chiose significative: le conferenze sono particolarmente utili specie là ove «per particolari difficoltà, può essere forte la tentazione di ripiegarsi su di sé, a danno della stessa vita consacrata e della Chiesa. Occorre invece che si aiutino a vicenda nel cercare di capire il disegno di Dio nell’attuale travaglio della storia, per meglio rispondervi con iniziative apostoliche adeguate» (VC 53)

Come a dire: sono sempre valide, soprattutto nei momenti in cui si presentano problematiche inedite.

 

Per concludere: la vita consacrata che si delinea all’inizio del terzo millennio è ben diversa da quella dei tempi del PC, anche se ne è stata segnata, in modalità e in misure diverse, dai suoi impulsi innovatori. Se il rinnovamento messo in atto dal PC è stato influenzato o disturbato, e non poteva essere altrimenti, dallo “spirito del tempo”, ciononostante ha messo in grado la vita consacrata di affrontare i “nuovi tempi”, proprio perché basato su principi che, alla prova del tempo, si sono dimostratati fecondi, oltre che essere teologicamente fondati.

In definitiva c’è stata fiducia nello Spirito, che soffia dove vuole, uno Spirito sul quale si sono sintonizzate le migliori energie della vita consacrata. Spirito che guida la sua Chiesa, nonostante tutte le nostre resistenze. Quello Spirito che non passa mai invano.

La flessibilità che la vita consacrata manifesta nelle varie parti del mondo sarebbe impensabile senza il dinamismo di adattamento e di rinnovamento espresso dal nostro documento

Riprendendo l’immagine iniziale, un giornalista potrebbe così concludere: siamo in presenza di «un documento contestato e contestatore, motore di un discusso ma necessario rinnovamento, tuttora influente persino in alcune situazioni impreviste».

P. Pier Giordano Cabra