RELIGIOSI EDITORI BINOMIO IMPEGNATIVO

 

La dimensione missionaria della comunicazione. I suoi fondamenti teologici e spirituali. Apporto insostituibile dei laici. Prospettive, non facili, di collaborazione fra i diversi istituti religiosi. Una richiesta di fiducia ai propri superiori.

 

Due mesi dopo il congresso internazionale sulla vita consacrata Passione per Cristo, Passione per l’umanità, una quarantina di religiosi/e impegnati nell’editoria multimediale, dal 27 al 29 gennaio 2005, si sono incontrati per riscoprire anche la “passione per la comunicazione”. Era il terzo convegno di questo tipo, organizzato dall’Unione dei superiori generali (i primi due si erano svolti, rispettivamente, nel gennaio 2002 e 2003). È stato un convegno misto e internazionale, anche se la rappresentanza femminile e dei paesi extra-europei era poco più che simbolica.

Il “sogno nel cassetto” dei partecipanti è quello di arrivare, in maniera progressiva, a una “Dichiarazione di intenti” che possa esprimere le convinzioni e i criteri di azione dei tanti istituti religiosi impegnati nell’editoria. I partecipanti ne hanno trovato in cartella una bozza (Umanizzare per cristianizzare) sulla quale si è riflettuto a lungo e che al termine dei lavori è stata affidata a una piccola commissione con il compito specifico di prepararne una redazione più accurata. Il nuovo testo, provvisorio e sempre suscettibile di ulteriori perfezionamenti, è stato successivamente inviato a tutti i partecipanti all’incontro romano.

 

PASSIONE

PER LA COMUNICAZIONE

 

Con questa “Dichiarazione” si è inteso ribadire la volontà di condividere la “passione per la comunicazione” non solo tra i diversi religiosi/e che, insieme ai laici, operano già in questo ambito della cultura e della pastorale della Chiesa, ma anche con i propri superiori, con tutti i professionisti della comunicazione, con le autorità religiose e politiche, con tutti il popolo cristiano e con tutti gli uomini di buona volontà. Tutto questo sarà però possibile solo dopo un deciso cambio di mentalità, l’individuazione di un nuovo metodo e l’elaborazione di uno specifico progetto operativo.

Prima ancora, tuttavia, si impone l’urgenza di una chiara visione di quelli che sono i fondamenti teologici, ecclesiologici e spirituali della comunicazione. «La storia delle fondazioni dei nostri istituti ci dimostra che un carisma necessita anche di una spiritualità adeguata, come del resto la storia delle varie spiritualità evidenzia che sono possibili sensibilità diverse nel vivere la stessa fede in epoche di­ver­se».

Il motore primo e ultimo della scelta di un impegno apostolico nel campo della comunicazione non può non essere la sua dimensione dichiaratamente missionaria. Ma come intenderla concretamente? Basta guardarsi attorno per rilevare una molteplicità di interpretazioni. Se per alcuni la fede missionaria viene intesa come «apologia per la sopravvivenza di una fede pura», per altri è intesa piuttosto come «strategia di conquista», o come semplice «testimonianza che si offre come proposta possibile». Anche se storicamente questa prospettiva si è concretizzata in diverse e a volte contrapposte tipologie di impegno missionario, è comunque fuor di dubbio che la comunicazione è la condizione indispensabile che assume la Chiesa quando realizza in concreto la missione che le ha affidato Cristo. «Evangelizzare – ha scritto Paolo VI – è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare» (Evangelii nuntiandi, n. 14). La comunicazione, in altre parole, è costitutiva dell’attività della Chiesa: La comunità dei cristiani non è mai “chiusa su se stessa”.

La preghiera, l’ascolto della Parola e dell’insegnamento degli Apostoli, la carità fraterna vissuta e il pane condiviso acquistano tutto il loro significato solo quando si trasformano in testimonianza, provocano l’ammirazione e la conversione, si trasformano in predicazione e annuncio della Buona Novella. «La Chiesa – osserva ancora Paolo VI - si sentirebbe colpevole di fronte al suo Signore se non facesse ricorso a questi potenti mezzi che l’intelligenza umana rende ogni giorno più perfezionati». In questi mezzi è possibile trovare «una versione moderna ed efficace del pulpito. Grazie ad essi, la Chiesa riesce a parlare alle masse» (ivi n. 45).

La rivoluzione tecnologica e antropologica delle forme comunicative degli ultimi decenni ha trasformato la comunicazione in un fenomeno complesso, in una cultura nuova che pone problemi inediti alla società e alla Chiesa. Attualmente il magistero universale della Chiesa sulla comunicazione, con la ricchezza dei suoi pronunciamenti, «costituisce un quadro di riferimento indispen­sa­bi­le per la riflessione e l’attività pratica per chi annuncia il Vangelo avvalendosi della multimedialità». Tutte queste indicazioni teoriche del magistero vanno però integrate «con le vicende concrete delle richieste, dei richiami, delle attese, delle interferenze di autorità ecclesiastiche che, sovente, sono in aperta contraddizione. Difficile non vedere il contrasto tra la descrizione di alcuni documenti pontifici della necessità dell’opinione pubblica nella comunità ecclesiale e tentativi, espliciti o indi­ret­ti, per esigere una visione monolitica proprio là dove è prevista la diversità».

 

CRITERI

OPERATIVI

 

Nessuno meglio degli estensori della “Dichiarazione” sa quanto la professionalità nel campo della comunicazione dovrebbe essere considerata parte integrante della missione di evangelizzare. Solo attraverso una adeguata formazione fin dagli anni del seminario e degli studentati religiosi è possibile pervenire alla convinzione che «l’esperienza della fede in Cristo può essere vissuta, espressa e trasmessa nella sua totalità con i diversi linguaggi delle forme di comunicazione attuale». Solo che nessun linguaggio comunicativo «può essere considerato esaustivo ed esclusivo nella vita e nella comunicazione della fede».

Soprattutto dovrebbe essere sempre più acquisito il fatto che l’impegno di evangelizzazione non si identifica sempre e solo con la presentazione esplicita di argomenti religiosi. «Non è necessario parlare solo di religione, diceva don Giacomo Alberione, ma occorre parlare sempre di tutto cristianamente». Quando tutta l’esperienza umana viene interpretata alla luce del Vangelo e dei valori cristiani, diventa allora più facile l’annuncio esplicito della fede e, insieme, il dialogo nella vita sociale, culturale e religiosa.

La parte forse più concreta e operativa della “Dichiarazione” è quella relativa ai criteri in base ai quali si vorrebbe consolidare una più effettiva collaborazione dei tanti religiosi impegnati nel campo dell’editoria. Il primo di questi riguarda la formazione dell’opinione pubblica, da una parte, e la collocazione dei destinatari al centro di ogni scelta comunicativa, dall’altra. «La consapevolezza di vivere in un contesto sociale e culturale di libertà di idee, ci permetterà di evitare la superficialità, l’apologetica sorda, l’intolleranza, la rimozione degli argomenti da trattare e ci rende immuni dall’esigere privilegi». Senza una conoscenza adeguata, anche da un punto di vista professionale e scientifico, del complesso fenomeno della comunicazione «è un vero atto di presunzione la pretesa di evangelizzare». In ogni processo comunicativo, inoltre, al centro va sempre attentamente collocato il pubblico degli utenti. Sarebbe oggi anacronistico continuare a vedere il pubblico nel semplice ruolo di recettore.

Questa sensibilità potrebbe essere favorita da una sempre maggior presenza dei laici insieme ai religiosi nel campo della comunicazione. I religiosi che si impegnano nell’uso “missionario” della comunicazione sociale, è detto nella “Dichiarazione” «non si preoccupano di integrare i laici solo come “forza lavoro necessaria”, bensì sforzandosi di riconoscere e sviluppare le ragioni “teologiche” ed “ecclesiali” che permettano una collaborazione professionale, che si realizza nel rispetto delle norme legislative e sindacali, come pure una condivisione dei valori della missione apostolica anche ai livelli di maggiore responsabilità».

È facile immaginarsi quanto sia ampia la gamma delle forme di collaborazione tra laici e religiosi nell’editoria multimediale. Si estende tra i due estremi del semplice rapporto di lavoro regolato dalle leggi sindacali «fino al coinvolgimento pieno nella missione apostolica con inca­ri­chi di grande responsabilità».

Sarebbe sbagliato vedere l’integrazione dei laici solo come una soluzione imposta dalla progressiva e inarrestabile diminuzione dei religiosi. Anche nel campo della comunicazione l’apertura al laicato dev’essere «motivata da ra­gio­ni teologiche e spirituali». Potrebbe anche facilmente capitare che «proprio lo stile di lavoro dei laici, legato al rispetto di norme e di metodologie professionalmente verificate e stabilite, possa costituire una stimolante lezione per i religiosi che operano al loro fianco». D’altra parte, però, «il passaggio da condizioni di autarchia assoluta alla delega altrettanto totale al laicato pone seri interrogativi sul ruolo che l’istituto deve avere in opere che restano comunque col­legate al carisma e alla storia».

Non è forse esagerato affermare, pensiamo noi, che oggi, per certi versi, è più facile collaborare con i laici che non tra i diversi istituti impegnati nel campo dell’editoria. Può accadere, infatti, come scrivono gli estensori della “Dichiarazione” «che l’abbondanza di istituti religiosi che si dedicano alla comunicazione faccia nascere la concorrenza tra editoria dei religiosi e altre espressioni della comunità eccle­sia­le o tra istituti diversi o persino all’interno di una stessa famiglia religiosa». Non sono casi puramente ipotetici, ad esempio, «il sorgere di librerie che in uno stesso luogo rischiano di nuocersi, il contendersi gli stessi autori, il realizzare prodotti editoriali quasi identici, il copiare iniziative di altri, il boicottaggio di prodotti di altri».

 

MAGGIOR

COLLABORAZIONE

 

Proprio per questo dovrebbe essere più convintamente perseguita ogni possibilità di collaborazione nei diversi aspetti dell’editoria gestita dai religiosi. Se talvolta questa collaborazione è solo desiderabile, in altre situazioni potrebbe essere anche necessaria, come nel caso delle ristrutturazioni, delle fusioni e riduzioni delle diverse unità in corso in tanti istituti religiosi. Quale occasione migliore per mettere a profitto «la complementarità tra le nostre istituzioni»? Certo, un vero partenariato e ogni prospettiva di collaborazione, anche nel campo editoriale, non potranno mai prescindere dal pieno rispetto sia del carisma che dei rispettivi livelli decisionali propri di ciascuna congregazione.

L’ultimo criterio a cui si accenna nella “Dichiarazone” è quello della multimedialità e della interattività. Nel susseguirsi delle invenzioni dei vari mezzi di comunicazione, è facile constatare come nelle produzioni editoriali dei religiosi sia di fatto privilegiata la comunicazione scritta, vale a dire una prevalente editoria di libri e riviste. Ma l’inculturazione del Vangelo, in un mondo in continuo cambiamento come il nostro, sarà tanto più efficace quanto più si rispetterà «l’autonomia espressiva delle varie forme di comunicazione, studiandone con metodicità e strumenti adeguati la natura, le leggi e il funzionamento. La professionalità nell’esercitare il “mestiere” della comunicazione è la prima testimonianza del cristiano».

Questo porta facilmente a comprendere anche il fatto che «oggi al centro della comunicazione digitale sta sempre più l’utente con la sua possibilità di scegliere quando comunicare, dove iniziare, come proseguire, quando terminare». Non basta pensare ai contenuti da comunicare. Anche il recettore ormai avrà un peso sempre più determinante nella comunicazione. «Se non ci rendiamo comprensibili al nostro destinatario, la nostra opera di evangelizzazione è chiusa in se stessa. Siamo invitati a partire dal destinatario e dalle sue esigenze».

 

UN APPELLO

AI SUPERIORI

 

I religiosi che operano nell’editoria sanno per esperienza quanto il modello di gestione della loro attività non coincida con lo stile abituale della vita comune. Se nella comunità valgono le leggi del diritto canonico e del diritto proprio, nella vita di apostolato con la comunicazione si adottano le leggi del codice civile del lavoro e il modello imprenditoriale che prevede un organigramma e un mansionario. Da qui l’appello degli estensori della “Dichiarazione” ai propri superiori e ai propri confratelli ad avere maggior fiducia in loro. Si tratta «di comprendere che noi siamo chiamati a esercitare un apostolato difficile che esige non di rado condizioni di vita e di lavoro che mettono a dura prova il nostro desiderio di vivere la consacrazione e una vera vita comunitaria e di garantire un dialogo intelligente e libero con ogni autorità (religiosa e politica) nella ricerca e nella proclamazione della verità. Talvolta avremo bisogno di essere “corretti”, ma molto più spesso avremo bisogno di essere compresi e sostenuti».

La “Dichiarazione” termina riportando la conclusione del quinto gruppo di studio sui mezzi di comunicazione di massa e la trasmissione dei valori nel convegno internazionale sulla vita consacrata del novembre scorso: «Abbiamo bisogno di cambiare la nostra mentalità nei confronti della comunicazione, e saper rischiare, sia all’interno della Chiesa, dove spesso siamo divisi o censurati o troppo clericali, sia all’esterno, nei confronti del mondo dei media. Dobbiamo formare religiosi e religiose specialisti in questo campo, incoraggiare chi vi opera, collaborare tra noi per provvedere risorse e lavorare a stretto contatto con laici competenti. Occorre interagire con i mass media in modo creativo, pronti a rispondere e non a fuggire. Dobbiamo avere il coraggio di mostrarci come siamo realmente, con i nostri valori e le nostre debolezze, e parlare una lingua che la gente di oggi può comprendere».

 

Angelo Arrighini