IL RISCHIO DI UN’AFFETTIVITÀ MALATA
LA GELOSIA IN COMUNITÀ
I consacrati sono chiamati a vivere insieme in un amore rispettoso
dell’altro, delle sue realtà, del suo essere dono di Dio. Ma se questo non è
possibile per le situazioni difficili della comunità? Allora diventa importante
saper riconoscere le proprie difficoltà emotive e regolare funzionalmente le
emozioni che emergono.
Quando le persone si vogliono bene,
riescono a integrare i vissuti emotivi nelle loro relazioni. Le emozioni sono
una sorta di forza motrice nei rapporti con gli altri, un modo per procedere
verso degli obiettivi. Esse «si possono considerare motivazioni immediate ad
agire»1 che orientano la persona verso obiettivi di crescita personale e
interpersonale.
Abbiamo già avuto modo di sottolineare
come i comportamenti emotivi sono importanti nella vita consacrata, poiché ogni
consacrato è chiamato per vocazione a saper amare gli altri così come Gesù
insegna. In particolare, il documento La vita fraterna in comunità ricorda come
i religiosi e le religiose siano chiamati ad amare la propria vocazione e ad
amare secondo la propria vocazione. «Amare secondo la propria vocazione è amare
con lo stile di chi in ogni rapporto umano desidera essere segno limpido
dell’amore di Dio, non invade e non possiede, ma vuole bene e vuole il bene
dell’altro con la stessa benevolenza di Dio».2
Ma in cosa consiste questo stile di
amore che i consacrati sono chiamati a vivere insieme? È l’amore rispettoso
dell’altro, delle sue realtà, della sua situazione, del suo essere dono di Dio.
Certo, ma quando tutto questo non è possibile per le situazioni difficili della
comunità? Cosa succede dei propri stati emotivi? Allora diventa veramente
importante saper riconoscere le proprie difficoltà emotive e rapportarvisi in
modo adeguato per regolare funzionalmente le emozioni che emergono.
Diversamente si resta con l’illusione di fare le cose senza però viverle in
profondità, quindi di rapportarsi in comunità senza sentire quello che si vive
a livello emozionale come parte di un cammino di conversione all’altro, al
fratello, a Cristo.
LA GELOSIA CHE INARIDISCE
LE RELAZIONI
Ci sono alcuni stati emotivi che sono
particolarmente coinvolgenti per gli individui che vivono nei contesti di
gruppo, come le comunità religiose. In particolare vogliamo riferirci alla
gelosia, così com’è vissuta nei gruppi primari, dove le persone vivono rapporti
interpersonali significativi così detti “faccia a faccia” perché tendono a
conoscersi a livello cognitivo, ad amarsi a livello affettivo e a orientarsi a
livello motivazionale verso obiettivi comuni a tutto il gruppo.3
Secondo il dizionario di psicologia di
Galimberti, la gelosia può essere definita come uno stato emotivo determinato
dal timore di perdere qualcosa, una persona cara, una condizione, una
privilegio, o comunque qualcosa a cui ci si tiene e che non si vorrebbe lasciar
sfuggire.4 Certo che la gelosia, soprattutto quando si presenta nella sua veste
competitiva, è espressione di relazioni immature, perché le persone gelose
mettono al centro della vita relazionale la realizzazione delle proprie
necessità e dei propri bisogni piuttosto che la relazione con l’altro. In
questo modo la perdita dell’oggetto o di una relazione importante per la propria
esistenza diventa la paura di veder minacciata la propria autostima.
Nei rapporti interpersonali la gelosia
è anche espressione di relazioni infantili basate essenzialmente sulla
dipendenza reciproca. Basti pensare ad alcune relazioni in cui le persone
vivono insieme ma allo stesso tempo manifestano atteggiamenti di passività e
sottomissione che appesantiscono i rapporti fino a inaridire il gruppo. «Io
geloso? Non c’è motivo di esserlo», diceva un giovane religioso a proposito del
confratello che si stava specializzando all’università. «Peccato che a studiare
scelgano sempre le stesse persone», concluse con un fare stizzito e un po’
arrogante. Certo, anche arrogante, perché il più delle volte la gelosia si
associa facilmente con uno stile di aggressività passiva, dove nonostante il
vissuto emotivo disfunzionale o nonostante la sofferenza interiore, le persone
cercano di far finta di niente, di sopportare e di sopportarsi a vicenda,
possibilmente con distribuzione di sorrisi e pacche sulle spalle, pur vivendo
un astio di sottofondo sotteso e non manifesto.
Per questo la prima associazione che la
gelosia richiama è, dunque, con il termine legame, perché, appunto, è la paura
di perdere qualche cosa che unisce l’uno all’altro. Se le emozioni sono da
ritenere una forza motivante al rapporto con l’ambiente relazionale esterno,
quindi un tramite motivante il legame con l’esterno e con gli altri,5 la
gelosia concerne questo ambito di relazionalità che però è vissuta dall’individuo
in modo distorto e non equilibrato.
Inoltre si terrà presente che la
gelosia non riguarda soltanto il rapporto con un’altra persona, o il rapporto
di coppia. Essa può riguardare anche il legame e l’affezione che si stabilisce
con un gruppo, con una competenza che l’altro possiede, ma anche con un’idea,
un principio, un progetto di lavoro pastorale, un modo di impostare il carisma
del proprio istituto, con un ruolo: in tutti questi casi si tratta comunque
della paura di perdere un legame forte, importante per la propria esistenza.
I legami con l’altro, i legami di
ruolo, i legami anche con la comunità, l’appartenenza, l’essere parte di un
gruppo sono tutti ambiti relazionali in cui le persone attivano stati emotivi
che, se importanti, possono muovere una gelosia che, in quanto riferita alle
esperienze forti della vita, potremmo definire esistenziale. Come si può
facilmente intuire, tutti questi legami non sono soltanto appannaggio della
psicologia femminile, ma riguardano bene anche il contesto della psicologia
maschile.
La possibilità di perdere questi legami
che possono coinvolgere le persone ma anche le idee, i progetti, le qualità, le
risorse, i riconoscimenti, scatena una paura terribile, perché significherebbe
mutare il senso stesso della propria vita. Di qui l’esigenza di queste persone
di rinserrare dei legami possessivi e forti per proteggersi dal rischio
dell’abbandono. In altre parole, se si percepisce che un legame è importante,
non si può non avere paura di perdere quel legame. E per evitare tutto ciò ecco
che si ritirano nel proprio mondo e limitano le relazioni alla sola
competizione sull’oggetto che è a rischio di perdita.
«La cosa che maggiormente ci stupisce,
raccontava un padre maestro a proposito della gelosia presente tra i suoi
studenti, è che più si manifestano queste emozioni di rivincita e di invidia
reciproca, e più si cercano tra di loro». In particolare raccontava di un caso
di gelosia di dipendenza che aveva caratterizzato il rapporto tra alcuni
giovani professi: la paura di perdere la sicurezza della loro dipendenza
reciproca li portava ad acuire gli episodi di gelosia competitiva, per poi
separarsi e tornare “normali” nelle attività di studio o di pastorale.
La gelosia, in questo caso, funge da
supporto egodisforico per le persone in interazione, nel senso che esse
percepiscono forte il bisogno del legame e dinanzi alla minaccia della perdita,
avvertono la sofferenza emotiva manifestando tale disagio in comportamenti
conflittuali con l’altro.
NON DARE PER SCONTATE
LE RELAZIONI
Se, come si è detto, l’emozione funge
da legame con un’altra persona o con un gruppo e la gelosia è la paura che esso
si perda, non è forse utile al rapporto stesso che chi ne è parte abbia
presente questa consapevolezza, così da non dare mai per scontato niente? Non è
forse anche la paura della perdita a spingerci a una maggiore dedizione verso
l’altro, gli altri? Quante relazioni, quanti sentimenti, in fondo, rischiamo di
buttare via, dandoli per scontati?
Pensiamo per un momento a un
confratello anziano che rimane a casa tutta la giornata attendendo il ritorno
degli altri, la sera, per scambiare due chiacchiere o per raccontare qualcosa
dei tempi che furono. Immaginiamo, però, che quando gli altri arrivano stanchi
della giornata di lavoro, si ritirano davanti alla televisione o si rinchiudono
nel loro ufficio per preparare il lavoro del giorno dopo. Magari lui aveva
dedicato l’intera mattinata a cucinare qualcosa di particolare o a ordinare le
cose in cappella, ma avverte il rifiuto come un doppio messaggio: che lui non è
importante abbastanza, e che il legame tra lui e gli altri è dato per scontato.
Nelle comunità religiose spesso succede
proprio questo, che si ritiene che i rapporti autentici possano essere
rimandati a un altro giorno, che però somiglia sempre a quello precedente,
tanto da innescare una serie di rinvii che finiscono nel silenzio e
nell’apatia. E questo, nella storia relazionale delle comunità, si riscontra
spessissimo. Perché, tra confratelli e consorelle impegnati in attività diverse
o con ruoli e formazioni differenziati, il legame non è affatto scontato: ci
sono comunità che hanno un gruppo di fatto, ma non un gruppo vissuto e
avvertono il peso di relazioni che sembrano fatte “di gomma”, dove tutto
rimbalza senza lasciare traccia dei vissuti emotivi che ciascuno vive comunque.
LA GELOSIA
PATOLOGICA
Tali stati emotivi possono diventare
occasione di ricostruzione relazionale nella misura in cui le persone non danno
per scontato il rapporto, e si rendono conto di come contribuiscono al
malessere e/o al benessere emotivo nel gruppo. Paradossalmente, la gelosia in
questo caso può diventare un’occasione per una diversa consapevolezza di ciò
che ognuno vuole ottenere nella relazione, per imparare a esplorare eventuali
alternative per un modo di stare insieme che non sia distruttivo ma che
rispetti le reciproche competenze emozionali.
Naturalmente la distinzione tra gelosia
esistenziale e patologica è una questione di misura: se la gelosia diventa
ossessivo controllo dell’altro, e si attacca alle ombre, può divenire persino
delirante.
Il delirio è, infatti, il tentativo di
ridurre a un’unica idea tutto l’ambiente relazionale:6 nel caso della gelosia
patologica, l’idea fissa è che ciascuno voglia sottrarre il proprio oggetto
d’amore fino a convincersi che “gli altri del gruppo si sono organizzati per
farmi del male”.
Molte volte questa gelosia è di tipo
retroattiva e proiettiva,7 in quanto investe la vita passata della persona ed è
riproposta nelle relazioni attuali. In realtà, quando si attiva questa gelosia,
significa che il passato ha un’importanza per il presente: come a dire: «scopro
adesso o ho il sospetto di essere stato tradito dal confratello e quindi ho
anche in qualche modo il risentimento per essermi comportato in maniera fedele
essendo stato imbrogliato da lui».
In altre parole, la preoccupazione
attuale per il passato c’è in quanto si tratta di un passato che diventa
presente nel contesto della relazione con l’altro, ed è un sistema abbastanza
diffuso soprattutto nella gelosia che si traduce in comportamenti distruttivi
per il soggetto. Il confratello geloso o la consorella gelosa hanno, infatti,
una grande capacità autodistruttiva, anche se sovente manifestano tale ostilità
nei confronti della persona che ammirano e di cui sono gelosi/e.
Ciò può sembrare persino paradossale
perché è chiaro che chi soffre è in fondo la persona che subisce il fatto,
però, la distruttività della gelosia patologica è una distruttività del tutto
particolare perché colpisce l’oggetto della propria attenzione affettiva per ferire
chi colpisce, cioè se stessi.
Questo accade perché, nelle relazioni
interpersonali non differenziate, si determina una dinamica relazionale per cui
l’altro non è più distinguibile da sé e ferire l’altro è un modo per
prendersela con se stessi.
Quando tali dinamiche sono altamente
patologizzate da una psiche “fragile e malata”, chi è geloso è talmente succube
dell’idea di essere abbandonato che si identifica con colui che ritiene il suo
avversario. Si tratta, quindi, di una personalità che manca della propria
identità e finisce per credere che sia l’altro la persona importante, potente,
capace, di cui egli è geloso proprio perché incapace di riconoscere tutto ciò
in se stesso.
Allora, il dramma della gelosia
patologica è appunto di non riconoscersi e di credere di potersi riconoscere
nell’identità dell’altro. Si tratta quindi di una mancanza di identità e, se
non c’è identità, non si ha nemmeno la possibilità di legarsi con gli altri,
se non in maniera disfunzionale e attraverso comportamenti conflittuali che
logorano la relazione.
GELOSIA
E BENESSERE COMUNITARIO
A questo punto rimane una domanda cui
rispondere, e cioè: che cosa si deve fare dinanzi alla gelosia?
Nel caso della gelosia egodisforica, lì
dove le persone si accorgono di star male con tale stato emotivo, che se lo
dicano riconoscendo che si tratta di una emozione importante, da non temere ma
da elaborare, perché se integrata nel rapporto può arricchire, in qualche modo,
il legame grazie al reciproco apprezzamento, senza dover necessariamente temere
la perdita dell’altro.
Se, invece, si manifesta una gelosia
eccessiva, che sfocia in un comportamento patologico, è necessario che il
livello di paura venga in qualche modo affrontato e corretto. Però, qualsiasi
cura potrà funzionare solo se si tiene conto delle componenti sottese, quali la
grande insicurezza che la persona si porta dentro, soprattutto se la gelosia
patologica è l’unica modalità che conosce per affrontare il suo bisogno di
sicurezza: prendersela con l’altro per non prendersela con se stessi.
Ciò serve a chiarire ulteriormente che
la gelosia patologica non va certo curata convincendo chi la vive che si tratta
di un sentimento fatuo e di una paura irreale. Ciò che si deve curare è proprio
la sua insicurezza, in una piattaforma relazionale – com’è appunto la comunità
religiosa – che funga da base sufficientemente sicura per aiutare l’individuo a
consolidare un margine di fiducia in se stesso (quindi di autostima) attraverso
rapporti interpersonali autentici e rispettosi. In questo modo, l’accoglienza e
l’integrazione delle diverse situazioni comunitarie, occasione di crescita e
maturazione interpersonale, diventerà un modo reale per vivere l’evangelicità
delle comunità, “lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella
preghiera” (Rm 12,12).
Crea Giuseppe
1 Scilligo P. (1989), Alleanza con
le emozioni nei processi di cambiamento, in «Polarità», 3(3), p. 255.
2 La vita fraterna in comunità, n.
37.
3 Brown R. (1989), Psicologia
sociale dei gruppi, Il Mulino, Bologna; Crea G. - Mastrofini F. (2004), Animare
i gruppi e costruire la comunità, Dehoniane, Bologna.
4 Galimberti U. (1992), Gelosia,
in: Idem, Dizionario di psicologia, UTET, Torino, p. 426.
5 Nàbràddy
M. (2005), Emotion theories and Transactional Analysis emotion theory: a
comparison, in «Transactional Analysis Journal», 35, pp. 74-75.
6 American Psychiatric Association
(1996), Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, DSM-IV, Masson,
Milano.
7 Galimberti U. (1992), Gelosia,
in: Idem, Dizionario di psicologia, UTET, Torino, p. 426.