SE LA PACE È DONNA
Don Dario Vitali, parroco nella diocesi di
Velletri-Segni, nonché docente di ecclesiologia e antropologia, ci aiuta a
ragionare di pace alla luce della fede e sulla spinta di precisi esempi di
donne del medioevo “sante” e “paciere”.
Il punto di partenza del suo ragionamento è l’orrore di
Beslan, il 3 settembre 2004. In una scuola dell’Ossezia del nord un commando di
terroristi uccide centinaia di persone, metà delle quali bambini. Tra i
terroristi c’erano donne. «Più che il numero dei morti e l’atrocità delle
esecuzioni, Beslan impressiona e spaventa per lo sfondamento di quell’argine
invalicabile che è l’amore alla vita da parte di chi la vita la tesse nel
grembo ed è chiamata a custodirla con tutto il suo essere». Cita poi la sposa
bambina di Al Zarkawi, il regista del terrore iracheno: una diciassettenne che
si muove come una spietata pasionaria dell’islam più estremista.
Come uscire da tale baratro? Con la testimonianza vissuta
di una disciplina della pace. La sola via data all’uomo è infatti quella della
ragione, che ritrovi continuamente la radice della pace nel proprio cuore.
L’attenzione si deve spostare dunque sulla circolarità tra pratiche di pace e
trasformazione sociale.
PRATICHE DI PACE
AL FEMMINILE
Etica o teologia della pace rischiano di rimanere lettera
morta se non si intercettano “storie di pace”: scelte e progetti di singoli o
di intere comunità, di ieri e di oggi.
Un caso esemplare è l’Umbria del 1300, una parte
dell’Italia dei comuni teatro dello scontro endemico tra guelfi e ghibellini,
tra i partigiani del papato e quelli dell’impero. Qui salgono alla ribalta
alcune donne che possono ancor oggi suggerire modalità per costruire la pace.
Chiara di Assisi, Margherita da Cortona, Angela da Foligno, Chiara di
Montefalco, Caterina da Siena, Rita da Cascia, Lucia di Valcaldara ecc. La loro
vicenda interessa come icona di risposta libera davanti a una convivenza umana
minacciata dalla violenza. La loro pienezza di vita si capisce riflettendo sul
registro di una umanità che è incarnazione dentro la storia, anche a partire da
una posizione subalterna e defilata, come era la condizione femminile del
tempo.
Il volume prende la forma così di un breve itinerario nel
territorio della pace, attraverso quattro capitoli che corrispondono ad
altrettante tappe. Dalla dimensione radicalmente antropologica della pace si
passa al fondamento di essa come dono di Dio secondo le Scritture, quindi si
illustra il caso della prassi cristiana delle sante “paciere” per arrivare a
chiedersi come la Chiesa può vivere qui e ora il Vangelo della pace.
Il punto di partenza del viaggio è la presa di coscienza
che il carattere drammatico della pace come responsabilità consegnata alle sole
forze dell’uomo va stemperata, per lasciare il posto all’idea tutta biblica
della pace come dono di Dio: solo lui è l’autore della pace, perché instaura un
Regno di giustizia, al quale l’uomo è chiamato a partecipare, a condizione di
vivere in risposta al dono che gli viene offerto (pp. 51 e ss.).
LA PACE
FRUTTO DELLO SPIRITO
La parte centrale dello scritto di Vitali insiste perciò
sulla formula della pace come “frutto dello Spirito”: «Per evitare l’equivoco
di un impegno per la pace isolabile e isolato dal resto della vita cristiana,
quasi un pacifismo cristiano ante litteram che il Nuovo Testamento non conosce…
Come a dire che la vita cristiana nella sua interezza è opera di pace… per
evitare che l’impegno per la pace si riduca ai tempi e alle situazioni in cui
questa è minacciata». Perciò beati sono non tanto i “pacifici” (coloro che
stanno in situazione di pace, rifuggendo le contese e l’aggressività), quanto
gli “operatori di pace”, cioè gli artefici dello shalom.
Questo frutto dello Spirito è evidente nelle “paciere”,
diventate tali perché hanno vissuto la carità come forma di vita. L’azione di
queste donne si può comprendere ricordando due particolari figure di
riferimento del tempo: il magistrato dei pacieri e i predicatori. Il primo
doveva preservare il bene comune della coesione dentro le mura cittadine.
L’ufficio municipale dei pacieri è stato esercitato, per esempio, dai genitori
di Rita da Cascia, la quale preferirà nascondere gli abiti insanguinati del
marito per custodire i figli dalla spirale della vendetta e della violenza.
Proprio a partire da scelte come questa si alza l’argine in grado di fermare
l’odio! Sulla stessa scia l’esperienza delle “cristiane del sacco” di Norcia,
un gruppo di donne che, guidate dall’intuizione di Lucia di Valcaldara,
andavano in giro a mendicare invocando la pace. Così l’illetterata figlia di
Giacomo Benincasa, Caterina da Siena, avrà la forza di rivolgersi “a coloro che
si reputano saggi e sapienti”per chiedere la pace degli stati cristiani e la pace
dentro la Chiesa divisa.
Si può dunque senz’altro concludere, alla luce di questi
esempi, che la pace è soprattutto donna? Certamente no, ma essi ci aiutano a
comprendere l’importanza di una pace al femminile. «Nella donna la relazione è
accoglienza che si fa difesa dell’amore, esigenza di fedeltà, domanda di verità
e di trasparenza nel rapporto. Ben di più, in lei è misteriosamente inscritto
il codice generativo che rende possibile la trasmissione della vita. Ma quel
grembo segna la sua identità… Come a dire che la donna, in forza della capacità
di generare, è costituita nella conseguente capacità di cura e crescita della
vita… Qui è inscritta e da qui si dispiega la possibilità di una pace al
femminile» (p. 112).
Ovviamente questa pace al femminile non è automatica,
dipende dalle scelte di pace che le donne fanno (cf. una santa paciera del
nostro tempo come Annalena Tonelli, missionaria laica assassinata nel 2003 in
Somalia). Solo a condizione di una effettiva maturità, le enormi potenzialità
di servizio alla pace si sviluppano e portano frutti. Così le “sante paciere”
medievali hanno bucato il mondo degli uomini, giocandosi la vita. Sottratte
alle lenti deformanti di certa agiografia, queste donne appaiono capaci di
accogliere la vita e di promuovere le relazioni. Esempio per il nostro tempo in
cui la scelta della pace è la scelta evangelica per eccellenza, la forma più
radicale e autentica della sequela cristiana, la profezia odierna del
comandamento dell’amore.
Ma la loro testimonianza si comprende nel quadro di
un’appartenenza ecclesiale che le ha segnate: non sono cifra di una libertà
senza vincoli ma espressione di una vera identità di Chiesa. Nella loro vita è
illustrata la santità della Chiesa, nella loro fecondità spirituale si
manifestano la sponsalità e la maternità della Chiesa. Un segno urgente e
inderogabile anche oggi!
Anzi, perché la Chiesa stessa diventi ciò che in fondo è
(“santa paciera”), non bastano una madre Teresa di Calcutta, un padre
Massimiliano Kolbe, un monsignor Romero. La comunità nel suo complesso è
chiamata a prendere posizione, attivando prassi di giustizia e di
riconciliazione, per essere manifestazione credibile del suo essere primizia
del Regno. Per questo scopo occorre purificare continuamente la memoria e
crescere nella cultura della pace, come i papi chiedono ormai da decenni.
Purtroppo la voce della Chiesa è, secondo Vitali, nel complesso ancora debole.
Forse perché timido è il suo mettersi dalla parte dei poveri o degli ultimi.
Forse perché in parte complice delle strutture sociali, fa fatica a rinnovarsi
come società alternativa.
Per essere “santa paciera” la Chiesa ha invece bisogno di
parresia: la libertà e il coraggio, doni dello Spirito, di parlare di fronte a
tutti. La può aiutare la contemplazione della Gerusalemme messianica, fonte di
creatività e di servizio nella costruzione della città dell’uomo.
M .C.
1 VITALI D., Se la pace è donna. Una provocazione a
partire dalle “sante paciere”, EDB, Bologna 2005, pp. 167, € 12,00.