AUTORITÀ E SERVIZIO D’AIUTO
La vita, anche
quella di chi si consacra al Signore, è fatta di difficoltà e crisi.
Il termine non ha
necessariamente un significato negativo: può esser grazia o debolezza. Tutto
dipende dall’atteggiamento interiore assunto dinanzi alla propria crisi.
Sta diventando sempre più prioritario, tra gli impegni di
un superiore, quello di aiutare i fratelli in difficoltà o di sostenere la
fedeltà di tutti.1 A volte è possibile (grazie alla disponibilità dall’una e
dall’altra parte), spesso è problematico (magari perché l’aiuto né è chiesto né
è accolto), sempre è complesso (perché non si sa che fare), non sempre sortisce
effetti positivi (poiché c’è di mezzo un problema serio o perché l’aiuto
offerto non va nella direzione giusta), ma in ogni caso è possibile e doveroso
fare qualcosa. Certamente è un ministero cui è necessario dedicare tempo ed
energie per cercare di capire come e quale aiuto dare.
Qui cercheremo di proporre una serie di attenzioni che
vanno in tre direzioni: quella del soggetto che è in crisi, e quella
dell’oggetto della crisi stessa, ovvero del contenuto
oggettivo che determina la crisi e la sua entità. L’aiuto da dare, infine,
dovrà necessariamente tener conto di questi due elementi,
ovviamente senza rigide distinzioni nella pratica.
IL SOGGETTO
IN CRISI
La vita, anche quella di chi si consacra al Signore, è
fatta di crisi e situazioni difficili.
Crisi, da un punto di vista etimologico, significa stato
decisionale, situazione di vita aperta su diverse possibilità. Il termine non
ha dunque un significato necessariamente negativo; rimanda semmai a una
possibilità di crescita del soggetto, ma anche al suo contrario, può esser
grazia o debolezza. Tutto dipende dall’atteggiamento interiore assunto dal
soggetto dinanzi alla sua crisi.
Vediamo allora di capire meglio.
Coscienza della crisi
Crisi in genere significa coscienza d’una non
corrispondenza tra quel che si è e la propria vocazione, e come scarto che
chiede una scelta o una conversione, per un nuovo equilibrio di rapporti tra
l’ideale e la condotta di vita, e una nuova definizione dell’io.
Almeno quattro gli elementi fondamentali dell’idea di
crisi:
– la consapevolezza soggettiva e sofferta d’un
oggettivo contrasto tra io ideale e io attuale, che provoca
– la decisione di cambiare, per una più matura vita
di fede e di sequela.
Così intesa la crisi è componente normale e positiva d’un
processo di formazione permanente (o addirittura dell’idea di identità), come
due elementi strettamente connessi tra loro. Da un lato è proprio la
consapevolezza della differenza tra ideale e realtà che rende la vita cammino
costante formativo; mentre, dall’altro, è solo chi prende sul serio tale
cammino che potrà avvertire lo scarto stesso e fare scelte consequenziali.
Insomma, la crisi non è un fatto automatico e scontato,
legato alla gravità oggettiva della situazione, o subito percepito come
“critico” dal soggetto; è fondamentale la sua consapevolezza e coerenza, e non
con una semplice presa d’atto, ma con un certo coinvolgimento interiore che
provoca dispiacere e apprensione. Anzi, la coscienza, o lo stato e il tipo di
consapevolezza con cui il soggetto vive la sua crisi, rappresenta proprio
l’elemento specifico del concetto di crisi. Questo è importante sottolinearlo,
poiché forse è il primo aiuto da dare: favorire la coscienza della crisi. Si
potrebbe descrivere una tipologia delle persone in crisi in base al modo di
vivere o meno le crisi.
1 - Mai in crisi
Vi sono persone che non vanno mai in crisi, quasi
imperturbabili e sempre soddisfatte di sé; come quei (finti) celibi che vivono
con olimpica tranquillità situazioni personali-relazionali scabrose; o che non
avvertono mai alcun senso di colpa, né si sentono provocati a cambiare alcunché
nel loro vissuto, poiché per loro va sempre tutto bene, sono gli altri che
pensano male.
Costoro farebbero bene a farselo venire qualche senso di
colpa e a lasciarsi andare un po’ in crisi ogni tanto.
E certo non basterebbe una migliore informazione su
tematiche etico-morali; il problema di queste persone è come risvegliare una
sensibilità che si sta atrofizzando, divenendo fredda e apatica. Ovviamente il
problema non è solo di tipo comportamentale; questa gente dovrebbe imparare a
scrutarsi non solo nella sincerità (cioè a livello del semplice “sentire”), ma
a livello della verità profonda dell’essere. Ovvero, in pratica, imparare a
fare l’esame di coscienza (delle motivazioni profonde, dal cosa al come al
perché al per chi), e non solo di coscienza ma della coscienza.
2 - Crisi …congelata
Esiste pure il consacrato/a che non conosce alcuna crisi
affettiva, ad es, perché ha rimosso affettività e sessualità poiché in realtà
teme entrambe o non sa come gestirle; e finisce per vivere una vita piatta e
relazioni senz’alcun coinvolgimento interiore, divenendo freddo e senza cuore.
Oppure c’è crisi congelata laddove vi sono abitudini ormai fossilizzate e
divenute normali stili di vita, mai verificate nella loro radice; vedi, ad es,
una certa mediocrità generale, uno stile di vita comoda e piena di comforts,
autogestita e ormai insensibile a qualsiasi provocazione, un atteggiamento
abitualmente ripiegato e concentrato su di sé...
3 - Sempre in crisi
O, al contrario, c’è il tipo in crisi stabile, che non ne
viene mai fuori, o perché se la inventa lui o in qualche modo la subisce (“si
mette” in crisi), o perché ci sta bene dentro (da un lato si sente persona
seria, dall’altro l’esser in crisi diventa come un alibi per non poter fare
grandi decisioni e cambiare).
Nel primo caso avremo il tipo un po’ perfezionista e un
po’ scrupoloso, e comunque troppo ripiegato su di sé e così meticolosamente
attento alle minuzie del suo comportamento da scoprire sempre qualche
imperfezione in quel che fa. È il classico soggetto mai contento di sé,
depresso e spesso anche deprimente.
Nel secondo caso avremo l’individuo che vede sì il
contrasto dentro di sé, ma considera troppo alto il prezzo da pagare per
venirne fuori, o si considera incapace di cambiare e lasciare certe abitudini;
e così, di fatto, non prende mai la decisione di convertirsi, la crisi diventa
cronica, come un comodo compromesso, che alla fine non turba più di tanto la
sua pace.
4 - Crisi “finale”
Ma vi sono anche consacrati poco attenti, come le vergini
stolte, che s’accorgono e ammettono d’esser in crisi solo… alla fine, quando
questa esplode dirompente e loro non hanno più la forza di gestirla.
A costoro si dovrebbe insegnare a prevenire le crisi o a
riconoscerle quando sono allo stadio iniziale, con più sincerità e
chiaroveggenza. Ma andrebbero anche provocate a capire che in ogni caso permane
sempre una possibilità di …fare marcia indietro, di recuperare almeno un po’ di
libertà nei confronti della propria realtà impulsiva. Troppo comodo dire “ormai
non c’è più nulla da fare…”.
Chi si conosce bene, non si permette tutte le libertà di
questo mondo, ma sceglie responsabilmente di rinunciare a ciò che l’allontana
dalla verità di sé.
5 - Crisi fatale
C’è poi il folto gruppo degli “analfabeti”: di chi non sa
leggere la crisi o la legge a senso unico, come dovesse per forza avere un
esito obbligato, quasi “fatale”, come… la donna di cui eventualmente il
consacrato s’innamora, pensando per questo d’aver sbagliato tutto e dover
cambiare tutto. Oppure è così piacevole e inedita l’esperienza che sta vivendo
(“ho scoperto l’amore”, mi disse radioso un giovanissimo e innamoratissimo
prete) che non vuol più saperne di voti e dintorni, né c’è modo di farlo
ragionare.
Forse è la storia di molte crisi precoci di giovani (ex)
consacrati (precoci pure nella “soluzione” della crisi).
Probabilmente in questi casi è venuta a mancare
un’educazione sessuale all’interno del generale cammino formativo, e dunque al
momento giusto. Diventa dunque indispensabile accompagnare queste persone
nell’itinerario lungo e paziente che porta a conoscere la propria sessualità e
le sue leggi oggettive, specie dal punto di vista della relazione
interpersonale, e di far capire, possibilmente, che il fatto d’innamorarsi non
significa necessariamente che la propria strada sia il matrimonio, ma
semplicemente che si è… normali, da un lato, mentre – dall’altro – questa è la
conseguenza inevitabile d’una pressione istintuale lasciata per troppo tempo
in… libera uscita; ma è necessario pure far comprendere che l’idea di rinuncia
e disciplina non è prerogativa (o castigo) del vergine, ma fa parte d’una
corretta e mirata educazione sessuale. Chi nella vita vuole realizzarsi e
vivere in pienezza, deve anche necessariamente mortificarsi.
6 - Crisi inutile
Sempre al gruppo degli analfabeti appartiene chi non
impara mai niente dalle crisi che vive, rendendole inutili. Anzi, decisamente
dannose, poiché sembrano radicare sempre più nella persona un certo conflitto
irrisolto e spesso neppure conosciuto nella sua radice di fondo.
È il caso, ad esempio, di chi passa da una dipendenza
affettiva all’altra, e in ogni posto dove va… lascia il segno (o la vittima),
ovvero s’innamora perdutamente di qualcuna, o vive rapporti ambigui, o pare
sempre alla ricerca d’una relazione privilegiata, che lo faccia sentire meno
solo, e dalla quale finisce per dipendere, con tutto il seguito di ansia, paura
di perder l’oggetto amato, gelosie varie, bisogno crescente d’intimità,
sofferenza vera e propria (dall’una e dall’altra parte), oltre al rituale
contorno di chiacchiere all’ombra del campanile, in questi casi discretamente
affollato, e col contributo di comari specializzate nel raccontare l’ultima sul
“prete innamorato”... A volte, proprio per interrompere la tresca e tagliar
corto, questi soggetti vengono trasferiti, nella speranza che…” lontano dagli
occhi lontano dal cuore”.
Ma che succede allora più di qualche volta? Cessa una
certa relazione, se non altro perché di fatto impossibile, ma ne nasce
un’altra. Ovvero, sono persone che ripetono sempre il medesimo schema: stesse
attese, stesso bisogno, stesse richieste, stesso approccio, stessi discorsi
spirituali (agl’inizi), stesse autogiustificazioni…, stesso soggetto
inconsistente che cade come un automa nel tranello dei suoi bisogni infantili,
con… eroica costanza e beata incoscienza.
Eppure, sostiene ancora qualche ingenuo, “l’esperienza
insegna”. Nient’affatto; l’esperienza insegna se la persona si lascia
insegnare, così come la vita parla se c’è un cuore che ascolta, e soprattutto
un fratello maggiore che si pone accanto per aiutare a capire, a riconoscere
l’equivoco di fondo e decidere di non esserne più schiavo. Perché la vita non
divenga un séguito di crisi inutili o di sofferenza senza senso.
Ecco il primo aiuto da dare nelle situazioni di
difficoltà è promuovere tipo e livello di coscienza della propria crisi,
– di ciò che la determina (il problema della verità di sé
oltre la sincerità),
– di come uno la legge, fino a che punto la sente e
soffre come qualcosa che non vorrebbe, che disturba la vita e nuoce alla
consacrazione, o non la soffre per niente e… l’accetta allegramente (ego-alienità
o ego-sintonicità?),
– del modo in cui uno la combatte, è un pezzo dell’io che
lotta contro un altro pezzo per raggiungere un’irrealistica perfezione, oppure
è la lotta del credente con Dio e col suo amore (lotta psicologica o
religiosa)?, ammesso che la combatta.2
È interessante pensare dunque che l’attenzione non va
solo a chi vive la crisi plateale e ufficiale, visibile a tutti, ma anche a chi
vive ben adattato nell’istituzione e non è mai in crisi (i famosi
“nidificatori”).
Forse è questo il primo vero problema della vita
consacrata oggi: tutta questa gente che s’è assuefatta alla propria crisi o che
non sa leggerla. E dunque vi rimane dentro invischiata senza poterne venir
fuori. Ma determina anche la crisi della vita consacrata in quanto tale.
NATURA
DELLA CRISI
Vediamo ora lo stesso problema da un altro punto di
vista, quello della crisi in sé, della sua natura da un punto di vista
oggettivo, secondo la varietà delle possibili situazioni critiche nella vicenda
esistenziale del consacrato oggi. Senza con questo voler affrontare il
complesso problema delle cause profonde delle crisi.
Livello problematico
è importante che si sappia anzitutto distinguere e
identificare la natura del problema presentato. Che può esser dovuto a:
a) problemi di psicopatologia (latente o manifesta, più o
meno grave), cioè derivanti da disturbi o sintomi psichici strutturali e di
natura clinica, d’origine remota e con problemi e limitazioni gravi relative
alla libertà e allo stato di consapevolezza del soggetto, come possono esser,
ad es., pedofilia ed efebofilia, o abusi sessuali, o forme ossessive di
dipendenza affettivo-sessuale, o una mancanza pressoché sistematica di
controllo dell’istinto sessuale, in senso etero e omosessuale, o di
aggressività (e distruttività) o di mania nevrotica dell’accumulo;3
b) problemi di sviluppo: sono manifestazioni di fragilità
legate a un ritardo o a un’insufficiente soluzione di problematiche evolutive
(specie nel primo sviluppo), come nel caso d’una infanzia negata, per vari motivi,
o d’una adolescenza persistente (i cosiddetti “adultescenti”, adulti anagrafici
incapaci d’assumersi responsabilità, inaffidabili, incostanti…) o d’una
incertezza nell’area dell’identificazione sessuale con difficoltà relative
(omosessualità strutturale e non strutturale), con possibile presenza di
sintomi a volte simili a quelli psicopatologici, ma isolati e infrequenti, o di
atti legati a un cedimento impulsivo che tuttavia rimane sporadico e comunque
controllabile;
c) problemi di progressivo adattamento alle mutate
situazioni ed età varie della vita: problemi di sviluppo, in senso lato e negli
anni successivi al primo sviluppo, possono esser considerati anche quelli
legati alla fatica del passaggio da una fase esistenziale all’altra, ad es.
dall’età della giovinezza all’età adulta, dalla stagione della piena maturità
psicofisica e della produttività a quella del progressivo ritiro, culminante
nella vecchiaia con tutti i limiti, le sfide, le fatiche che ciò comporta…; o,
ancora, possiamo far rientrare in questa categoria quei problemi che nascono da
situazioni contingenti, più o meno traumatiche (cambiamento d’ufficio,
obbedienze difficili, trasferimenti, incidenti, infermità d’una certa serietà,
perdita di persone care…): sono difficoltà determinate da un evento esterno, ma
che possono risvegliare antiche (e forse sopite fino allora) problematiche
interne alla persona, più o meno gravi, o d’inconsistenza psicologica o
d’immaturità spirituale;
d) problemi di inconsistenza e integrazione vocazionale:
denotano difficoltà molto comuni, per lo più legate alla presenza di bisogni
inconsci, che risultano prevalenti e assorbono le energie della persona, così
da trattenerlo dentro un orizzonte di ricerca di gratificazione di sé,
impedendo di muoversi secondo dinamiche di donazione di sé motivate dalla
carità, come può esser, ad es., una tendenza all’isolamento con conseguente
tendenza masturbatoria, o un certo egocentrismo nelle relazioni, o un bisogno
di successo o di stima dagli altri, o una scarsa capacità di controllo dei
propri impulsi; probabilmente rientrano qui le crisi precoci di fedeltà di
religiosi e sacerdoti giovani, spesso a pochissima distanza dal gesto di
donazione definitiva di sé…;
e) problemi di carattere spirituale, riguardanti l’area
dei valori, la modalità concreta di viverli o addirittura la visione chiara del
cammino vocazionale personale. Tali difficoltà normalmente si pongono a un
livello conscio, ma altrettanto spesso questo tipo di problemi convive con
quello precedente (problema spirituale e pure d’inconsistenza vocazionale).
Già questa semplice suddivisione ci consente d’intuire
una linea di condotta a livello d’aiuto. È dunque fondamentale saper
distinguere tra le diverse forme di disturbo psicologico o difficoltà
spirituale, o per lo meno sapere che esistono queste diverse forme con
corrispondenti sintomatologie e differenti prognosi.
Per poi articolare un intervento che in sostanza percorra
questi passi.
Percepire i segnali
Anzitutto si tratta di percepire i segnali di difficoltà nelle
persone. Ed è già un far del bene all’altro, come l’avvio d’un intervento
d’aiuto. Forse un superiore non è detto che debba sempre intervenire, mentre
dovrà sempre cercare di vedere e capire.
Vi sono segnali espliciti, ovvero ben visibili
dall’esterno, inequivocabili (anche se non necessariamente colti dal soggetto
come segni critici), e vi sono anche segnali impliciti e non così chiari, che
nessuno coglie o che vengono letti in modo assolutamente tranquillo, o senza
comunque percepire la gravità della situazione. Prevenire il più possibile
In molti casi, oggi, purtroppo, il consacrato che si
trova nel pieno d’una solenne crisi, rifiuta molto spesso qualsiasi tipo
d’aiuto, chiudendosi in se stesso e nella sua determinazione di cambiar vita,
senza esser disposto a sentire ragioni contrarie, e facendo sovente scelte
strane.
Ecco perché nelle situazioni di crisi (e sempre) è
fondamentale cercare di prevenire il più possibile, prima che sia troppo tardi,
quando la crisi è ormai divenuta dirompente come un’onda che stravolge il modo
di vedere e ragionare della persona.
Soprattutto si dovrebbe impedire quel circolo vizioso
della crisi che s’articola normalmente in 4 tappe: 1) prime leggere e veniali
gratificazioni, così leggere da passare inosservate (es. cercare una persona o
un contatto in momenti di solitudine), ma creanti in realtà sempre più 2)
un’abitudine, che già rende meno libero l’individuo e meno capace di
controllarsi e controllare una certa ambiguità di comportamento (es. sviluppare
la tendenza a evitare accuratamente ogni momento e situazione di solitudine
affettiva o a riempirla subito di presenze gratificanti); 3) l’abitudine
gratificante e gratificata diventa poco per volta automatismo, sempre più
esigente e prepotente, per cui la gratificazione di ieri non basterà più oggi
(e l’esigenza di contatto con l’altro/a tenderà a divenire sempre più
coinvolgente anche a livello fisico-gestuale), mentre la coscienza si adatterà
sempre più al comportamento, giudicandolo con sempre maggior comprensione, fino
a giustificarlo;4 4) ma soprattutto l’automatismo consente al bisogno
gratificato di piazzarsi al centro della personalità e da lì “comandare” le
operazioni come una motivazione inconscia e costante (non più legata solo ai
momenti di solitudine).
In tali casi un problema apparentemente insignificante
all’inizio può determinare a lungo andare una situazione pesantemente critica.
Per questo diventa assolutamente fondamentale che il problema venga
identificato al più presto e che l’individuo venga aiutato a non entrare in
quel meccanismo nefasto che lo conduce lentamente a smarrire la sua libertà e
se stesso, quasi come una cellula cancerogena che ne contamina altre.
Cultura dell’attenzione e della discrezione fraterna
Ovviamente il “contenuto” dei segnali dipende dal tipo di
difficoltà psicologica, e non possiamo stare qui a tentare di enumerarli tutti.
Ma possiamo cogliere anche a questo riguardo una particolare responsabilità
dell’autorità: quella di creare o favorire in ogni modo una cultura dell’attenzione
e della discrezione fraterna. Il superiore non può arrivare a tutto e vedere e
capire tutto, ma può e deve animare in tale direzione, perché ognuno si senta
responsabile dell’altro e abbia occhi per vedere quel che solo un cuore adulto,
attento e discreto, può rilevare.
Senz’altro anche questo è parte della cultura della
prevenzione: una maggiore attenzione a segni e segnali d’un certo disagio
potrebbe impedirne l’evoluzione in negativo.
è importante ribadire che molte volte vi sono persone
nelle nostre comunità che soffrono, anche con una certa evidenza,
una situazione di disagio e nessuno se ne accorge e
nessuno dice niente, nessuno ricorre a nessun aiuto né provvede a
informare chi di dovere. Soprattutto nessuno, in questi
casi in cui nessuno s’accorge di nulla, cercherà di fare qualche passo verso la
persona stessa che si trova in difficoltà
(l’evangelica correzione fraterna, chi l’ha vista?).
Così come sarà possibile che tutti vedano, odano e
sappiano (e parlino), ma senza che nessuno intervenga o facendosene in qualche
modo carico; anche se la cosa è oggetto di chiacchiere varie di corridoio e
comunicazioni segrete utilizzanti le varie onde e i vari messaggi cifrati, con
particolare tempestività per raccontare l’ultima e quel gusto diabolico d’esser
il primo a dare lo scoop (non importa se poi la cosa viene gonfiata o risulta
non del tutto vera).
Insomma spesso nei nostri ambienti non c’è una cultura
dell’attenzione fraterna in tal senso, intelligente e vigilante, accorta e
prudente, responsabile e non colpevolizzante; che normalmente si sposa con la
cultura della discrezione fraterna.
Tale cultura non può esser solo prerogativa
dell’autorità, ma dev’esser progressivamente una nota caratteristica di chi
vive in comunità nel nome del Signore, con dei fratelli di cui è responsabile e
che gli sono consegnati.
Lo ribadiamo: se vi fosse stata questa cultura
dell’attenzione e della discrezione fraterna tante crisi avrebbero potuto
essere evitate.
Segnali indicatori d’un disturbo relativamente grave
Per quanto riguarda la possibilità di trovarsi dinanzi a
una persona con problemi di natura patologica vi sono alcuni segnali,
apparentemente non gravi, a livello dinamico-fenomenologico, che possono far
pensare a una sottostante situazione patologica o comunque a una situazione che
potrebbe sfociare in quella direzione:
perdurante instabilità e incoerenza della vita: è il caso
di chi non sa accogliere realisticamente e vivere coerentemente le conseguenze
delle scelte fatte, per cui, ad es., è contento della scelta di consacrazione
finché va tutto bene e il vento gli gira a favore, ma non sa accettare da
adulto le inevitabili situazioni di non gratificazione o fallimento, o le
stesse implicanze di rinuncia legate ai voti;
incapacità di intuire e rispettare i sentimenti degli
altri e i loro problemi; mancanza di senso di colpa (e ancor più della
coscienza di peccato) in relazione ad azioni morali oggettivamente gravi e
lesive dell’altro, autogiustificazione e egosintonia su tutto il fronte, senza
alcuna “sofferenza”, né lotta, né motivazione a cambiare (“non le ho mica fatto
niente di male…”, “ma che male c’è?”, “è lei che ha il problema, o che ha certi
sentimenti verso di me…”);
azioni impulsive di carattere trasgressivo, nella
sessualità o nella vita di relazione (con eventuali fenomeni aggressivi), con
scarsa capacità di controllo, come se la persona non potesse prender le
distanze dall’impulso (“è più forte di me”); di solito tali individui hanno
pure molta difficoltà nella concentrazione e riflessione proprio perché
costantemente (ossessivamente) presi dal loro problema;
passaggi repentini di stati d’animo, con ondeggiamenti da
sensazioni di esaltazione irrealistica ad altre di disfatta e critica totale di
situazioni o persone, e incapacità d’integrare gli aspetti positivi e negativi
del reale (relazioni oggettuali parziali);
rigidità estrema nel sostenere la propria posizione, i
propri punti di vista, con assoluta incapacità di entrare nella prospettiva
altrui (assenza di empatia) o di accoglienza dell’alterità.
Segnali indicatori d’un disagio psicologico-spirituale
In genere possiamo far rientrare qui tutti gli altri
casi. Vi sono dunque dei segni a livello fenomenologico che possono far pensare
non a un disordine vero e proprio intrapsichico, ma a qualcosa di meno grave,
che non intacca la personalità a livello strutturale, ma crea problema
soprattutto di gestione di certi comportamenti o di un controllo improprio; che
non cancella nel soggetto la sensibilità e coscienza interiore, per cui tale
soggetto è anzitutto consapevole del suo problema e semmai è limitato nella sua
libertà; né il disturbo è sempre presente al punto di disturbare le sue normali
attività o impedire la possibilità di concentrarsi o dedicarsi a qualcosa con
tutte le sue forze; non implica la perdita della libertà né lo stato inconscio
con distorsione del rapporto con la realtà.
In genere le persone con questo sottostante tipo di
problemi hanno uno stile difensivo, con queste caratteristiche fenomenologiche:
tendenza a evitare le scelte e a non esporsi e
compromettersi con scelte definitive;
fatica a sganciarsi dai vecchi stili personali o
inclinazione a ripetere e ripetersi per rassicurare una vacillante identità e
positività dell’io (ad es tendenza ad appoggiarsi a qualcuno/a;
tentativo di addomesticare la realtà mitigandone le
esigenze più costose (ad es con un’interpretazione allegra dei voti);
percezione soggettiva del reale e paura della diversità
subito conflittualizzata (da cui tendenza a vivere rapporti selettivi e molto
interessati);
poca disponibilità al cammino ascetico lungo e paziente,
e pretesa di risolvere sbrigativamente i problemi;
abilità notevole nel ricorrere a forme varie di
autogiustificazione, fino a nascondere comportamenti trasgressivi anche negando
l’evidenza della realtà: quando si arriva a questo punto (negare l’evidenza di
comportamenti impropri) la situazione comincia a esser preoccupante;
altri generici segnali di disagio psichico e spirituale
potrebbero essere: scadimento del tono generale (malumore o leggera depressione),
perdita d’un certo tipo d’interessi, calo spirituale, nervosismo e facile
irritabilità, assenza fisica o psicologica ai momenti comunitari, trascuratezza
nel proprio stile di vita, fuga da o scarso interesse per la relazione
interpersonale, fenomeni di compensazione (abuso nel cibo, nell’alcool, nel
tempo perso davanti alla TV o al computer…), ecc.5
COME
INTERVENIRE
Tentiamo ora di vedere, per quanto possibile, come un
responsabile di comunità o di provincia o d’istituto può intervenire per dare
un aiuto a fratelli che si trovino in queste difficoltà. Iniziamo col dire che
l’intervento dell’autorità, anche se non necessariamente diretto ed esplicito,
non può mancare, poiché sta a esprimere un’attenzione verso chi è più debole
che fa parte della natura della nostra fede e della nostra consacrazione.
Cultura e mentalità
Anzitutto l’intervento non può esser pensato come un atto
isolato ed eccezionale, ma deve rientrare in quel tipo di attenzione e di
servizio che ogni istituzione mette a disposizione dei suoi membri e che, a sua
volta, fa parte d’una cultura precisa, quella della formazione permanente (FP).
Entro questa cultura la vita è un cammino di formazione costante, e ruolo
primario dei superiori è esattamente quello di garantire una tensione
altrettanto costante verso la crescita dei singoli e del gruppo. La
preoccupazione per tener alta la tensione implica anche l’attenzione, di
conseguenza, a tutto ciò che in qualche modo va nella direzione opposta, o a
tutti quei fenomeni di mediocrità, crisi, assuefazione, apatia, immaturità di
cui abbiamo detto e altre ancora.
La cultura della FP rappresenta il contesto naturale
dell’intervento dell’autorità nei casi di difficoltà; autorità che interverrà
non solo quando la crisi sta esplodendo, non solo nei casi negativi, non solo
per richiamare e rimproverare, non solo nei casi eccezionali, non solo come
ultima spiaggia. Il concetto di formazione permanente sta cambiando il concetto
di autorità, concentrando il suo servizio in ciò che è veramente essenziale: il
bene spirituale dei singoli.
Se in un istituto o diocesi non sta ancora funzionando,
come mentalità e come prassi, la logica della FP, diverrà sempre più difficile,
se non impossibile, un intervento dell’autorità per aiutare chi si trovi in
difficoltà.
Mediazione istituzionale
Certamente non è detto che l’intervento debba esser fatto
dall’autorità in persona. Sempre in una logica di FP un’istituzione potrebbe e
forse dovrebbe premunirsi d’una struttura stabile, quale segno dell’importanza
della cosa e strumento operativo d’essa; una struttura fatta soprattutto di
persone che possano dedicare tempo ed energie per l’organizzazione della FP
nella diocesi o congregazione, ma anche “fratelli maggiori” nella fede e nel
discepolato, uomini spirituali credibili, cui si possa fare riferimento nel
momento della fatica o del dubbio, per chiedere luce e consiglio, o che a loro
volta possano indirizzare verso altre persone e mediazioni necessarie, a
seconda delle necessità.
Insomma, è fondamentale che in una realtà istituzionale,
diocesana o religiosa, vi siano queste strutture, con una finalità precisa, che
è proprio quella di accompagnare il cammino spesso faticoso dei membri di
quell’istituzione. Più queste strutture saranno di fatto funzionanti, più verrà
naturale cercare un certo tipo di aiuto o lasciarsi aiutare in determinate
circostanze. Evitando, ancora una volta, di lasciare l’ingrato compito
d’intervenire in esclusiva all’autorità in generale. Ma soprattutto evitando
che un consacrato o sacerdote in difficoltà non sappia concretamente a chi
rivolgersi.
Mediazione fraterna
Non esiste solo la mediazione istituzionale, quale quella
che abbiamo or ora descritto, ma anche quella più quotidiana e semplice,
rappresentata dal fratello di comunità. Anche questa rigorosamente prevista in
una prassi di FP. Anzi, noi sappiamo che la formazione è permanente solo quando
è quotidiana e portata avanti con gli strumenti e gli utensili della vita
d’ogni giorno, a cominciare dalle mediazioni normali di quei fratelli con cui
si convive, pur non avendoli scelti né essendo stati da loro scelti. La
disponibilità a lasciarsi educare-formare (e pure condizionare) da questi
fratelli è indice di libertà formativa (docibilitas), e dovrebbe essa stessa
esser oggetto di formazione progressiva.
Ebbene, molte volte è altamente desiderabile che
l’intervento d’aiuto, specie in una fase di presa di coscienza, venga fatto da
uno di questi fratelli, anzi, diventa più efficace, perché probabilmente crea
meno difese e resistenze in colui che ne è destinatario, è percepito con minore
ansietà e maggiore spontaneità; e alla fine ha più probabilità d’essere
accettato dell’intervento fatto dall’autorità costituita.
Un superiore naturalmente “partecipa” dietro le quinte a
tutto questo, lo incoraggia e provvede perché di fatto sia reso possibile, ma
non deve preoccuparsi assolutamente se non è lui a fare l’intervento
risolutore. L’importante è che venga fatto.
Il punto di riferimento
Intendiamo con questa espressione quella persona o
comunità cui la persona in difficoltà viene inviata non solo per una iniziale
ammissione del problema, ma per portare avanti concretamente e progressivamente
un cammino di verifica e possibilmente di liberazione.
Qui occorre distinguere in base alla gravità del
problema.
Nei casi di patologia occorre un professionista, una
persona che possa intervenire con strumenti adeguati, cioè professionali, di
solito psichiatrici, e che possono comportare anche un tempo di
ospedalizzazione.
nei problemi di sviluppo (d’identità sessuale o
personalità infantile…) occorre ancora uno specialista, almeno normalmente,
come uno psicologo o psicoterapeuta, ma sarà necessario che sia persona che
condivide la visione antropologica cristiana e conosce da vicino la vocazione
sacerdotale e religiosa, tanto meglio se egli stesso consacrato.
Nei problemi determinati da difficile adattamento alle
mutate condizioni di vita, così come nei casi di inconsistenza vocazionale o di
normale conflitto nella vita spirituale è ancora necessaria una presenza qualificata,
un fratello abilitato per questo servizio, che non sia né solo tecnico della
psiche né solo padre spirituale, ma persona che in qualche modo riunisce in sé
le due competenze, ovvero la sapienza spirituale e la sapienza umana, o la
conoscenza delle leggi della vita spirituale (assieme all’esperienza personale
del cammino spirituale), e pure delle leggi della maturazione a livello umano,
affettivo, decisionale, morale, relazionale ecc.; o, ancora, la capacità di
muoversi nell’ambito conscio, ma pure in quello inconscio, ove spesso è
radicato il problema di questi fratelli.
Ma è importante, in ogni caso, seguire una linea precisa
nel tentativo di risolvere il problema, o avere e dare un unico punto di
riferimento, evitando dispersione d’energie e confusione d’interventi, o
mettendo il soggetto in condizione di dover andare da un sacco di persone con
cui sempre di nuovo aprirsi e confidarsi.
Lo strumento
Lo strumento per eccellenza è il rapporto interpersonale,
con l’empatia e l’attenzione che esprime per il singolo, attraverso soprattutto
il dialogo. Rapporto interpersonale vuol dire dedizione di tempo e di energie,
riservatezza, attenzione totalmente concentrata sull’altro, possibilità per
l’altro di aprirsi, di raccontarsi, di esprimere tutto di sé, anche ciò che è
rimasto sempre sepolto nel proprio mondo interiore, i propri dubbi, vergogne,
debolezze, rabbie, ferite, risentimenti, sogni… Senz’alcuna fretta. Questi
“colloqui di cura di sé e di crescita”, condotti con regolarità e abbastanza
ravvicinati tra loro, possono occupare un certo spazio di tempo. Ne vale la
pena.
Scopo di questi colloqui dovrebbero essere, almeno come
tensione:
la conoscenza di sé e della radice del proprio problema;
la considerazione realista delle conseguenze d’esso sulla
propria identità, sul rapporto con Dio, con gli altri e con la propria
vocazione;
il recupero d’una certa sensibilità morale e psicologica;
l’esperienza della debolezza personale vissuta dinanzi a
Dio, fino a integrarla attorno al mistero pasquale (“quando sono debole…”);
l’aumento della capacità di controllo della stessa
debolezza (o di libertà interiore);
un’interpretazione alla fine costruttiva della propria
crisi, vissuta come momento di crescita.6
A volte può esser indicata la terapia di gruppo, specie quando
il problema è di tipo comportamentale e può esser d’aiuto la condivisione, la
provocazione ad aprirsi, la confessione e l’ascolto di esperienze simili e
positive (ad es nelle dipendenze dall’alcol o dal cibo). Spesso si rivela molto
opportuna la combinazione di terapia individuale e di gruppo.
Il luogo
Non è che il luogo sia automaticamente terapeutico, ma in
certi casi si rende necessario l’allontanamento della persona dal suo ambiente
normale di vita (dalla sua comunità e anche momentaneamente dal suo istituto) e
la permanenza in determinate “comunità terapeutiche”, in possesso di certe
caratteristiche.
Penso a certe condotte inappropriate anche con
trasgressioni gravi (in ambito sessuale); insomma a quei casi in cui la
condotta inappropriata è come innescata anche da un certo condizionamento
ambientale e personale; o a quei casi in cui la gravità del problema rende
problematica e ad alto rischio la permanenza del soggetto nel luogo abituale di
vita, mentre si rende necessaria un’attenzione totale al problema stesso e alla
persona, quale non sarebbe possibile in una comunità apostolica.
Va però anche detto che in alcuni casi meno gravi e con
disturbi di tipo comportamentale e non strutturale (ad es l’alcolismo) la
stessa comunità di appartenenza s’è rivelata come il miglior contesto
terapeutico, nell’aiutare il fratello a tener sotto controllo la dipendenza,
con tutta una serie di attenzioni comportamentali, che andiamo a vedere.
I comportamenti
è importantissimo esser chiari con questi fratelli che
stanno soffrendo particolari dipendenze o debolezze: da un lato comunicare
affetto e solidarietà, dall’altro esser fermi e precisi nell’indicare una serie
di comportamenti vincolanti.
A partire da quello che potremmo considerare il principio
fondamentale: l’inconsistenza o debolezza non va mai gratificata. Sarebbe falsa
quella comprensione che di fatto indebolisce la volontà di recupero e rinforza
la vecchia abitudine, rischiando di farla degenerare in automatismo. Se si è
stabilito assieme un certo piano “terapeutico” è importante che nella comunità
tutti si adoperino a farlo rispettare al fratello in difficoltà. Pensiamo, ad
es, all’alcolismo: sono fondamentali coerenza, costanza, una certa radicalità.
È importante, altresì, non lasciare solo il fratello
nella sua difficoltà, ma occorre esprimere in una qualche maniera
partecipazione e solidarietà effettiva al suo dramma. Come quella fraternità,
ad es, che ha avuto il coraggio di prender la decisione di eliminare
radicalmente ogni traccia d’alcol dalla casa e persino di togliere il vino dai
pasti quotidiani. Il significato emotivo e il messaggio affettivo che arrivano
da questi gesti al diretto interessato hanno inevitabilmente conseguenze
psicologiche di enorme portata.
Non solo, ma in frequenti casi, proprio la debolezza d’un
fratello ha fatto riscoprire il valore della responsabilità reciproca e
innescato uno stile nuovo di comunità, facendo crescere la fraternità stessa e
la sua qualità di vita.
Il “ritorno”
Quando il caso si risolve positivamente è da gestire con
attenzione e tatto anche la fase del rientro nei ranghi. E non solo nei
confronti del rientrante, ma anche e forse soprattutto di coloro che… non se ne
sono mai andati.
C’è stato chi ha detto, tra i “reduci”, che la maggiore
difficoltà e resistenza al rientro l’ha sperimentata nei propri fratelli. Può
essere in effetti una mentalità ancora presente, magari sottilmente, quella di
chi non vuol capire che quando uno ritorna è festa per tutti.
Il non capirlo opponendo al ritorno un certo tipo di
resistenza psicologica (opposizione velata, freddezza relazionale, aggressività
passiva, maldicenza con altri…) è atteggiamento grave, poiché indica la povertà
e in certo senso la falsità del proprio cammino spirituale, se non è arrivato
all’esperienza della misericordia su di sé. Ma è anche una forma di violenza
psicologica, perché significa “imporre” all’altro un’idea ormai negativa di sé,
che non gli lascia alcuna possibilità di cambiamento positivo, quasi una sorta
di omicidio psicologico…
Diciamo che indicherebbe la conclusione d’una crisi e
l’inizio della crisi di un’altra persona, che però ancora non sa d’esser in
crisi.
Amedeo Cencini
1 C’è chi dice che i superiori maggiori oggi sono
impegnati essenzialmente su due fronti: il ridimensionamento di opere e
presenze, e il sostegno e la conferma della fede dei loro fratelli.
2 Circa tutte queste tematiche cf. Cencini A., Quando la
carne è debole…. Il discernimento vocazionale di fronte alla immaturità e
patologie dello sviluppo affettivo-sessuale, Milano 2004.
3 Va ricordato, però, che la valutazione complessiva in
questi casi non è mai automatica; deve tener conto dei molti elementi che
entrano in gioco, secondo un certo ordine d’attenzione. Non si potrà certo
ignorare, vogliamo dire, che siamo di fronte a un problema anzitutto psichico
(a volte addirittura psichiatrico), e solo successivamente con un problema
d’identità e vocazione, con riflessi poi inevitabilmente anche morali, resi
ancor più gravi dal coinvolgimento d’altri (specie minori e adolescenti).
L’attenzione globale alla complessità della situazione, in questi casi, è
rispetto del mistero dell’essere umano; anche se ferito, o forse soprattutto
quand’è ferito, l’essere umano rimanda a un mistero, o a una dimensione
misteriosa che non può esser ridotta semplicemente ai suoi comportamenti, né è
da questi smentita.
4 Come quei due religiosi che vivevano da tempo una
relazione che piano piano era divenuta sempre più coniugale, e la
giustificavano dicendo che li aiutava a viver meglio la loro consacrazione.
5 Secondo alcuni superiori religiosi questi potrebbero
essere in concreto i disordini di personalità più frequenti oggi: alcolismo;
obesità patologica; assunzione di droghe; appropriazione e gestione indebita di
denaro; abusi sessuali; difficoltà affettive o incapacità di controllo del
bisogno affettivo; non chiara identità sessuale; uso incontrollato di
mass-media (di solito a sfondo sessuale); disobbedienza sistematica;
atteggiamento distruttivo (nei confronti della fraternità); stile relazionale
menzognero; inerzia e pigrizia; strane forme di spiritualità (ad es, forme
singolari di comunicazione col divino, con discreta presunzione e anteponendo
la visione o locuzione a qualsiasi autorità umana); depressione, ripetute
situazioni caratteriali, d’isolamento, di rottura con la gente, creanti disagio
profondo e insoddisfazione a livello pastorale e personale.
Secondo un vicario generale queste le più frequenti
manifestazioni di crisi: situazioni di disimpegno pastorale, stanchezza e
demotivazione in preti che non lasciano, ma vivono un disagio profondo. Ricerca
di sicurezza, consenso facile e gratificazione affettiva in esperienze
spirituali e gruppi con forte connotazione emotiva. Fuga dalla pastorale
diretta parrocchiale e ricerca di modalità pastorali alternative più
remunerative sul piano psicologico. Esperienze devianti di dipendenza (alcool,
droga). Distacco e disistima nei confronti dell’autorità nella Chiesa, a
livello generale e locale (mancanza di dialogo effettivo col vescovo).
6 Cf. Cencini A., Verginità e celibato oggi. Per una
sessualità pasquale, Bologna 2005, cap. 9.