LA NOSTRA TESTIMONIANZA AL MONDO
MOSTRARE CRISTO CROCIFISSO
La croce è uno
spettacolo da guardare insieme, dentro una comunità, dentro la Chiesa. È uno spettacolo
da vivere, perché la croce va “riproposta” dentro la mia vita. Ma non basta
mostrare al mondo la mia esperienza o quella della comunità: la croce deve
farsi vita e parola, testimonianza e annuncio.
Forse mai come ai nostri giorni, in una società così
secolarizzata e laicizzata, futile e superficiale, è necessario che i
cristiani, e in particolare i consacrati, abbiano a mostrare al mondo il Cristo
crocifisso e a renderlo visibile anche a coloro che vorrebbero fosse cancellato
dal loro sguardo.
Ad attirare l’attenzione su questa esigenza è stato
Giorgio Zevini, sdb, biblista, parlando all’incontro mensile, dello scorso mese
di marzo, ai membri delle curie generali, nel contesto di una lectio divina,
sul brano di Giovanni 12.20-33.
Nel testo giovanneo, ha sottolineato Zevini, il lettore è
condotto a contemplare il vertice della sezione finale della vita pubblica di
Gesù: l’inaugurazione della sua ora e della glorificazione del Figlio
dell’Uomo. Il tema fondamentale, è cristologico ed è incentrato sulla necessità
della morte in croce per portare frutto; sull’esaltazione e la glorificazione
di Gesù-Messia e l’attrazione di tutti i figli di Dio; sul camminare con fede
nella luce di Cristo.
“VOGLIAMO
VEDERE GESÙ!”
Il brano si apre con la richiesta da parte dei greci,
saliti a Gerusalemme in occasione della festa, rivolta a Filippo, i quali lo
pregarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù!». Per rispondere alla loro domanda,
Gesù presenta l’evento della croce, che sottolinea ben quattro volte nel brano:
con la parabola del chicco di grano (12,24) che deve morire per diventare
sorgente di vita per molti; con il detto di sequela e di servizio rivolto ai
discepoli (12,25-26): «Chi ama la propria vita la perde e chi invece odia la
propri persona in questo mondo la custodisce per la vita eterna»; e «Se
qualcuno mi vuol servire, mi segua, e dove sono io là sarà il mio servitore. Se
qualcuno mi serve, il Padre mio lo onorerà» (v. 26); in terzo luogo, con la
descrizione del dibattito che avviene nel suo animo: «Adesso la mia anima è
turbata. Che posso dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma io sono venuto proprio
per questa ora!» (v. 27), parole ci introducono al Getsemani; infine, con la
solenne proclamazione conclusiva riguardante l’innalzamento del Figlio
dell’Uomo a cui segue la promessa: «Io, invece, quando sarò innalzato da terra,
attirerò tutti a me».
Zevini cita a questo proposito il commento di Bruno
Maggioni: «Al movimento di salita, vittorioso, di Gesù, corrisponde un
movimento di discesa, di sconfitta del principe di questo mondo (v. 31). Cristo
è innalzato e Satana precipitato. Sulla croce si attua il giudizio, che è
insieme condanna e salvezza. Condanna: la croce è il rifiuto definitivo che gli
uomini oppongono alla manifestazione di Dio. Salvezza: la croce è la
manifestazione dell’amore di Dio e della sua forza vittoriosa, della sua
capacità di attrazione (v. 32): in questo senso la croce diviene la
dimostrazione che la logica del mondo è sconfitta, decaduta e smentita. La
croce è costruttrice di comunità».
INNALZARE IL CROCIFISSO
DAVANTI AL MONDO
«Solo i veri discepoli di Gesù – osserva Zevini –
comprendono il profondo significato di questa morte perché sanno che il Figlio
vive sempre in unità obbediente al Padre e la stessa crocifissione è per Gesù
l’inizio del suo esodo glorioso verso il Padre e per loro stessi un evento di
redenzione. Le ultime parole del discorso rivelativo di Gesù spiegano il modo
concreto di questo innalzamento-esaltazione. Se la croce sarà il luogo di
salvezza universale e la fonte della vera vita degli uomini, tutto questo
produrrà come effetto l’attrazione di tutti a sé. Il Cristo-crocifisso cioè non
solo attirerà verso di sé i credenti in lui, giudei e pagani, ma farà in modo
che questi trovino la sua gloria ripercorrendo lo stesso cammino di kenosis e
di glorificazione. Gesù li attira non solo alla gloria, ma anche all’odio e
alla persecuzione del mondo, a causa della loro fede. Allora costituiranno la
comunità messianico-universale dei figli di Dio sotto la sovranità di Gesù, re
e Messia, che, rivelando il mistero della sua Persona e l’amore del Padre,
susciterà l’adesione di fede verso colui che hanno trafitto (19,37; cf. Zac
12,10)».
«Basta questo sguardo al testo per assicurarsi che la
croce – nel suo aspetto di morte e vita, fallimento e vittoria – è ciò che
importa capire e dire. È così che Gesù risponde alla domanda: Chi sei? Non c’è
altro modo di parlare di lui e per capire veramente che egli sia. Non c’è altra
via per seguire il Cristo della croce e per essere suoi discepoli».
Ecco allora la testimonianza che ogni vero discepolo di
Cristo deve dare coraggiosamente al mondo: rendere visibile nella propria vita
il Cristo della Croce. «Certo, risponde Zevini, il Crocifisso innalzato deve
essere raccontato, celebrato e spiegato come ha fatto lo stesso Gesù. Ma
occorre anche mostrarlo, ripetendo le modalità della sua vita e del suo gesto».
Ma come?
Anzitutto, è la sua risposta, attraverso la logica del
servizio e del dono: «Nel Cenacolo Gesù compie un gesto sconvolgente: lava i
piedi ai suoi discepoli (Gv 13, 1-20). È un gesto che rivela il senso della
passione imminente e, al tempo stesso, traccia la strada della Chiesa nel
mondo: “Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io facciate anche
voi” (Gv 13,15). Non è un gesto facile da capire. Neppure il discepolo, come
Pietro, lo comprende. Sarebbe più logico che i discepoli lavassero i piedi al
Maestro. Invece no, l’immagine di Dio che Gesù intende rivelare – e che ogni
discepolo deve annunciare – è un’immagine capovolta: non l’uomo serve Dio, ma
Dio serve l’uomo. Col suo gesto Gesù rende visibile la logica di amore, di
servizio e di dono che ha guidato tutta la sua esistenza, che esprime la sua
dignità e la sua natura di Figlio di Dio: è servendo e donandosi che Gesù si
rende disponibile nella mani del Padre, diventandone l’immagine e la
trasparenza. Dio è amore. Se la Chiesa vuole annunciare al mondo il vero Dio
non ha altra strada che quella indicata da Gesù: servire».
In secondo luogo, attraverso la logica dell’amore vissuto
sul modello di Gesù: «Ancora nel Cenacolo Gesù dona ai discepoli il
comandamento nuovo, che esprime la novità cristiana: “Vi dono un comandamento
nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi gli
uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete
amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 34-35). Certo qui si tratta di un amore
interno, comunitario, tra fratelli nella fede. Ma questo amore interno si muove
dentro una casa “trasparente”, senza mura, così da essere visibile e pubblico:
tutti devono poterlo vedere. La novità sta nel come io vi ho amato. L’amore di
Cristo è il modello e la misura, la radice e l’orizzonte dell’amore reciproco.
Questa reciprocità cristiana è unica, gratuita e universale; sconvolge e dilata
ogni reciprocità. La Chiesa deve essere una comunità che si ama e che ama: una
comunità in grado di mostrare l’amore di Dio per tutti, non solo un esempio
dell’amore di Dio per noi».
In terzo luogo, mediante la logica della diversità dal
mondo: «Gesù ci offre anche una terza indicazione importante: Essi non sono dal
mondo, come io non sono dal mondo (Gv 17,16). La comunità cristiana, se vuole
annunciare il Signore Gesù deve essere diversa dal mondo. Ma quale diversità?
Ancora una volta il modello è Gesù.: Come io…, perciò non può trattarsi di una
diversità che allontana e rende assenti e fa estranei. Al contrario, il mondo è
al centro degli interessi di Gesù: “Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io
li ho mandati nel mondo” (17,18). Il mondo non è solo il luogo in cui Gesù è
venuto, ma è la ragione per cui Gesù è venuto e la ragione per cui è venuto è
per amarlo e salvarlo. Sappiamo bene che il mondo conosce solo l’amore
interessato e di parte. Tutto il contrario dell’amore di Dio. Per essere “segno
di contraddizione” come Gesù e dunque annunciatori del suo vangelo – occorre
che si abbia il coraggio di mostrare la gratuità e l’universalità dell’amore. È
la strada inconfondibile di Dio».
IL CRISTO DELLA CROCE
NELLA VITA QUOTIDIANA
«Guardiamo la croce – prosegue Zevini – con lo sguardo
penetrante dei primi discepoli del Signore e specie dell’evangelista Giovanni.
Richiamo solo due affermazioni: “Guarderanno a colui che hanno trafitto” (Gv
19,37); “Quando sarò innalzato attirerò tutti a me” (Gv 12,32).
Alla luce di queste affermazioni si comprende subito che
la croce è la grande icona, la memoria fissa del credente, lo spettacolo dal
quale non si deve mai staccare lo sguardo. È anzitutto uno spettacolo pubblico
che si svolge davanti a tutti, davanti alla Chiesa e di fronte al mondo.
Lo spettacolo della croce è un dramma che sorprende
perché racconta di uno “sconfitto” che invece è un “vittorioso”. Sorprende
perché si tratta di uno spettacolo in cui appare tutta la malvagità dell’uomo,
ma nello stesso tempo appare tutta la profondità e la forza del perdono di
Gesù. La croce insegna che il male esiste, che la malvagità esiste, ma la croce
è anche uno spettacolo in cui si scorge il perdono di Dio. Un racconto ebraico
narra che quando Dio decise di creare il mondo non riusciva a farlo stare in
piedi. Allora Dio, accanto al mondo, creò il perdono e il mondo stette ritto.
Se il mondo continua è perché Dio ci perdona sempre giorno e notte.
Lo spettacolo della croce è un dramma che converte. Le
folle accorrono, guardano, comprendono e si battono il petto. Lo spettacolo
della croce capovolge la vita.
Osservando la croce la nostra vita deve assomigliare a
quella del Crocifisso; solo allora si comprende che la strada della vita non
può essere che il dono».
CROCE
SPETTACOLO DA VIVERE
«La croce, conclude ancora Zevini, è uno spettacolo da
guardare insieme, dentro una comunità, dentro la Chiesa. È uno spettacolo da
vivere, perché la croce va “riproposta” dentro la mia vita. Non basta mostrare
al mondo la mia esperienza o quella della comunità: deve sempre raccontare la
storia di Gesù Cristo, cioè la croce deve farsi vita e parola, testimonianza e
annuncio. Come calare tutto questo nella nostra vita quotidiana? La strada da
percorrere è quella indicata nelle beatitudini evangeliche (cf. Mt 5,3-11)
Beati i puri di cuore. A essi è promessa la visione di
Dio. La purezza di cuore è la totalità della ricerca di Dio. Il puro di cuore è
l’uomo che cerca Dio con tutto se stesso, con cuore indiviso. La differenza tra
il santo e il mediocre sta in questo: il santo è tutto proteso nella ricerca di
Dio, è impegnato, fisso in Dio; il mediocre, invece, è una persona divisa,
frantumata, dispersa, incapace di scelte evangeliche (qualcosa a Dio e qualcosa
se stessa). Il puro di cuore è totalmente aperto a Dio e totalmente aperto ai
fratelli.
Beati i misericordiosi. La misericordia è proprio
quell’amore forte, che rimane solidale anche se rifiutato; è una amore vissuto
con i fatti e non con le parole. È un amore che non esclude nessuno, anche se
resta vero che al centro ci sono gli ultimi, cioè i poveri, gli ammalati, gli
stranieri, ma anche i peccatori, i colpevoli. Messa al centro della vita, la
misericordia diventa la misura della vita.
Beati gli affamati e gli assetati di giustizia. Gesù con
questa beatitudine si rivolge non tanto ai ricchi, ma agli affamati, perché
trovino la forza di rizzarsi in piedi e farsi protagonisti del loro cammino. E
Gesù offre agli affamati una speranza: “sarete saziati”.
Una speranza che è sostenuta e garantita dalla croce di
Gesù ed è indispensabile per uscire dalla rassegnazione e dalla disperazione.
Ma questa beatitudine è rivolta anche a noi, i sazi, impegnandoci a un discorso
che richiede profonda conversione. Aver fame e sete di giustizia significa avere
la passione per la giustizia: non solo il rispetto dei diritti fra gli uomini,
ma più ancora, il rispetto dei diritti di Dio.
Beati i costruttori di pace. C’è pace e pace: quella del
mondo e quella di Gesù. La pace di Cristo afferra tutto l’uomo ed esige un alto
prezzo. La pace esige che si risponda sempre con l’amore. La pace non è
possibile senza gratuità e perdono. Lo stile del discepolo di Gesù rifiuta
sempre la violenza, sa pagare il prezzo della persecuzione e non ricorre mai a
mezzi non evangelici, ma crede nella forza dell’amore e della verità.
Beati i poveri di spirito. Il povero di spirito è l’uomo
che ha fiducia in Dio, conta su di lui e non su se stesso. Il povero è sobrio
per essere libero e per condividere. Egli concepisce tutto se stesso in termini
di gratuità e non di possesso, sa farsi dono e sa farsi servizio. L’amore
gratuito è una forza che unisce due cose: l’identità e il dialogo. La carità è
il cuore dell’identità cristiana; ma la carità è anche un’esperienza che ogni
discepolo in qualche modo può condividere; la carità deve imitare l’amore del
Crocifisso, che è amore universale, gratuito e senza misura e senza calcoli.
Questo spettacolo va annunciato a tutti perché è insieme bellezza, verità e
amore».
Per concludere ricordo tre parole significative di Gesù.
– Ai discepoli che lo seguono, Gesù dice: Che cosa
cercate? (Gv 1,38). È questa una grande domanda. Noi che cosa cerchiamo.
Cerchiamo veramente il Cristo. A volte nella nostra ricerca di Dio si nasconde
la ricerca di noi stessi.
– La prima parola che Gesù rivolge ai discepoli nel
vangelo di Marco è: Perché siete così paurosi? (Mc 4,40). Serietà e impegno sì,
ma mai paura. Lo spettacolo della croce è spettacolo di amore e di perdono,
allarga il cuore e pone in cammino.
– Gesù, inviando i discepoli in missione, Li
rimproverò per la loro durezza di cuore… e disse loro: Andate e predicate a
ogni creatura (Mc 16,14-15). Non c’è cosa più bella di questa Andate e
predicate!
Ogni discepolo può essere duro di cuore, ma è mandato e,
ricordiamolo, il peccato non può rallentare la forza della missione e
dell’annuncio del vangelo.