LA FORMAZIONE IN PERIODI DI RIFONDAZIONE

CERCANDO INSIEME POZZI E VIE

 

Dalla formazione che riceviamo e diamo dipendono il presente e il futuro della vita consacrata. Da essa dipende la significatività della nostra vita di consacrati in un mondo che cambia. L’intervento del superiore generale dei frati minori all’ultima assemblea dei superiori generali.

 

Partendo da una lettura attenta di quanto si è detto al congresso, cercherò di indicare alcune delle sfide che si presentano alla formazione oggi, senza avere la pretesa di essere esaustivo. Prima di presentare queste sfide, indicherò alcuni principi fondamentali della formazione. Concluderò il mio intervento facendo riferimento ad alcune indicazioni metodologiche che mi sembrano importanti per rispondere alle sfide poste.

 

ALCUNI PRINCIPI DI FONDO

DELLA FORMAZIONE

 

La formazione alla vita consacrata sta attraversando un momento difficile e, al tempo stesso, ricco di opportunità. Fino a poco tempo fa si atteneva a modelli di stabilità e fissità, lontani dai paradigmi dinamici che esige una realtà in continua e rapida evoluzione. Oggi sentiamo la necessità di seguire il cammino già tracciato dalla tradizione carismatica e formativa propria dei nostri istituti, ma sentiamo anche la necessità di aprire nuove strade e di rivedere i nostri modelli e processi formativi.

Uno dei successi più significativi degli ultimi decenni nel campo della formazione è stato il passaggio da un modello educativo di identificazione con degli ideali o di assimilazione di alcuni contenuti dottrinali e pratici, a una concezione della formazione come processo personale di crescita.

Un altro significativo successo è stato l’essere giunti a un accordo, almeno teorico, su alcuni principi fondamentali da tenere in considerazione sia nella formazione permanente che in quella iniziale. Su questi ultimi desidero soffermarmi poiché, a prescindere dall’accordo che ci possa essere su di essi, non sempre si sono trovate le opportune mediazioni per metterli in pratica.

La formazione deve essere integrale

In primo luogo è necessario ricordare che la formazione deve essere integrale, vale a dire deve tenere conto della persona nella sua totalità, perché possa sviluppare, in modo armonico, le sue doti fisiche, psichiche, morali e intellettuali e tutte le sue dimensioni: umana, spirituale e carismatica.1

Uno degli errori del metodo formativo nel passato è stato quello di formare in modo frammentario la persona. In molti casi si insisteva troppo su una dimensione, dimenticandone altre anch’esse fondamentali, o si favoriva lo sviluppo di determinate doti, tralasciandone altre egualmente importanti. Non era infrequente che la preoccupazione maggiore fosse quella di identificare la persona con le cose che doveva fare secondo il carisma – insegnamento, sanità, predicazione, missioni...– motivo per cui la formazione andava solamente, o in gran misura, in quella direzione.

Come conseguenza, c’è stato uno sviluppo parziale e non integrale della persona. Molto spesso la persona non si è riappropriata della sua umanità, attraversata dal soffio dello Spirito di Dio e, quindi, non ha sviluppato la dimensione mistica della sua esistenza.

Se non vogliamo formare “personalità frammentate”, dobbiamo stimolare e favorire la formazione integrale della persona, in modo tale che, in ogni momento, questa si presenti “tutta intera”, sempre in cammino, alla sequela di Gesù, e si identifichi non tanto con ciò che fa ma, soprattutto, con ciò che è.

La formazione deve essere personalizzata

Ciascuno di noi è un essere irripetibile. E ognuno risponde alla chiamata del Signore a partire dalla sua situazione unica e originale. Ciò implica che la formazione deve essere appropriata al processo di ciascuno, deve adattarsi al ritmo reale di crescita di ogni soggetto, perché i valori che la formazione alla vita consacrata cerca di trasmettere possano essere assimilati a livello personale.

In questo contesto ritengo opportuno riaffermare la necessità di un accompagnamento personalizzato che, partendo dalla realtà concreta di ciascuno, formando, stimoli ognuno alla meta di ogni vita consacrata: “la configurazione al Signore Gesù e alla sua totale oblazione”.2 Questo accompagnamento permetterà di verificare lo stato di interiorizzazione dei valori, interiorizzazione che comporta che i valori siano scelti liberamente, siano autenticamente apprezzati e che ci sia un comportamento armonico nei confronti degli stessi.

Se nel passato, a motivo dell’omogeneità dei chiamati, forse era sufficiente prestare attenzione alla formazione del gruppo, oggi, considerato il carattere unico di ciascuno – sia per le differenze di età e di esperienze individuali, sia per il diverso grado di cultura umana e cristiana –, senza trascurare il gruppo, si deve dare molta importanza alla singola persona, al fine di trovare “un giusto equilibrio tra la formazione di gruppo e quella di ciascuna persona, tra il rispetto dei tempi previsti per ciascuna fase della formazione e il loro adattamento al ritmo di ciascuno”.3

La formazione deve essere esperienziale

Dal momento che la sequela di Gesù è una vita e non una semplice ideologia, la formazione alla vita consacrata deve essere esperienziale, vale a dire, deve favorire l’esperienza concreta dello stile di vita e dei valori del carisma.

Anche qui va segnalato che, nel passato, la formazione ha peccato di eccessiva teoria, ha guardato soprattutto all’assimilazione dei contenuti, è stata troppo magistrale. La formazione oggi, senza dimenticare i contenuti, deve guardare soprattutto all’assimilazione dei valori propri del carisma, alla “progressiva assimilazione dei sentimenti di Cristo verso il Padre”.4 Per rispondere a questa esigenza la formazione deve toccare i quattro centri vitali della persona: l’intelligenza con i contenuti; il cuore, in quanto sede dei sentimenti; le mani, vale a dire, deve essere pratica; e i piedi, cioè, deve aiutarci a camminare nella vita.

Tuttavia, è altresì necessario qui distinguere tra esperienza ed esperimenti. Infatti, perché un’attività formativa sia esperienza e non si riduca a mero esperimento deve essere ben preparata, ben accompagnata e periodicamente valutata.

La formazione deve essere permanente

La formazione è per sua propria natura permanente. Noi consacrati non siamo chiamati né consacrati una volta per sempre. La pienezza alla quale siamo chiamati la raggiungeremo solo per grazia, dopo la morte. In questo modo, se nessuno può dire in verità di essersi conformato pienamente a Cristo, obiettivo ultimo della formazione, ciò vuol dire che la formazione è compito di tutta la vita, è un processo che “non cessa mai”.5

Se nessuno “potrà mai ritenere di aver completato la gestazione di quell’uomo nuovo che sperimenta dentro di sé, in ogni circostanza della vita, gli stessi sentimenti di Cristo..., nessuno può esimersi dall’applicarsi alla propria crescita umana e religiosa”.6 Limitare la formazione a una determinata “stagione” della vita equivarrebbe a rinunciare alla possibilità di crescere nella conformazione a Cristo e nell’adesione al carisma e alla missione del proprio istituto. Anche qui si possono applicare le parole di san Bernardo: “se non si va avanti, si torna indietro”. La vita o avanza verso la maturità o intraprende la via della regressione e dell’autodistruzione. Ecco perché dobbiamo essere sempre pronti a “ricominciare”.7

Tuttavia, c’è qualcos’altro: la formazione permanente, considerata come un processo di continua conversione del cuore, è una “esigenza intrinseca della consacrazione religiosa”,8 esigenza della fedeltà creativa alla nostra vocazione e alla nostra missione ed è l’humus della formazione iniziale.

Tutto ciò implica che la formazione iniziale si colleghi con la formazione permanente, “creando nel soggetto la disponibilità a lasciarsi formare in ogni giorno della vita”,9 e che in ciascun istituto vi sia un Progetto di formazione permanente che contempli ciascun ciclo vitale, in modo tale che la fedeltà creativa venga potenziata e ogni persona trovi “un compito diverso da svolgere, un modo specifico d’essere, di servire e d’amare”.10

La formazione deve essere progressiva e graduale

Secondo la legge della progressività, la formazione si svolge grazie a un processo evolutivo lento; pertanto, essa ha bisogno di “uno spazio di tempo sufficientemente ampio”11 per l’assimilazione dei valori e la trasformazione dei sentimenti e dei comportamenti. La gradualità della formazione, come già abbiamo detto a proposito della personalizzazione, implica pertanto la necessità di adattarla alla crescita del soggetto e alla sua capacità di assimilare i valori.

Pur tenendo sempre conto dell’insieme dei contenuti da trasmettere e dei valori da internalizzare, in ciascuna tappa bisognerà evidenziarne alcuni, in quanto considerati più adatti per quella fase e come base per altri. Ciò eviterà che la crescita della persona subisca interruzioni, regressioni o sperimenti contraddizioni e garantirà l’unità del cammino formativo. D’altra parte, il processo evolutivo implica che ciascuna tappa formativa sia considerata come una continuazione di quella precedente e una preparazione a quella successiva.

La formazione deve essere accompagnata

Dal momento che nel processo formativo si tratta, in ultima istanza, di trasmettere una “forma di vita” secondo il carisma del proprio istituto, piuttosto che una dottrina, la formazione ha bisogno di testimoni piuttosto che di maestri, di trasmettitori che rendano autentica la parola attraverso la propria vita.

Dio Padre, che mediante lo Spirito plasma nel cuore di coloro che chiama i sentimenti del Figlio, pur essendo il formatore per eccellenza, si serve di mediazioni umane, “ponendo a fianco di coloro che Egli chiama alcuni fratelli e sorelle maggiori”. Questi ultimi hanno la responsabilità di mostrare la bellezza della sequela di Gesù, di accompagnare i chiamati lungo le vie del Signore e di nutrire le loro vite di solida dottrina e di preghiera vissuta, in modo tale che, durante tutta la loro vita, i consacrati possano vivere in pienezza il loro amore e il loro entusiasmo per Cristo.12

Questo accompagnamento, che risulta particolarmente necessario ed efficace durante la formazione iniziale, è fondamentale per raggiungere la “vera crescita in Cristo”13 durante tutta la vita, in particolare nei “primi anni del pieno inserimento nell’attività apostolica”.14

Tutto ciò rende urgente formare “accompagnatori”, formatori e formatrici, che uniscano, a un’adeguata formazione umana, una profonda esperienza di Dio e una chiara esperienza delle strade che portano a Lui, “per essere in grado di accompagnare anche altri in questo itinerario”.15 In questa formazione ci giochiamo molto. Tante volte la crisi della formazione si deve alla mancanza e alla crisi di formatori.

 

LE GRANDI SFIDE

LANCIATE DAL CONGRESSO

 

Sulla base di quanto è stato detto al congresso, credo che le principali sfide che si sono presentate alla formazione, si potrebbero sintetizzare in tre: formare la persona a vivere la passione per Cristo, formare la persona a essere amante della vita e formare la persona a esprimere la passione per l’umanità.

Formare la persona a vivere la passione per Cristo

La prima icona utilizzata al congresso è stata l’icona della Samaritana (Gv 4, 5-42). Questa icona ci mette di fronte a una realtà che “perseguita” ogni uomo: la sete di pienezza. Come la samaritana, anche noi desideriamo saziare definitivamente la nostra sete, per non dover più tornare al pozzo ad attingere l’acqua. Questa sete di pienezza, per un credente e ancor più per un consacrato, si può saziare solo nel Signore. “Ci hai fatto per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”, sarà la confessione del “cercatore di pozzi” e del credente Agostino.

La cultura post-moderna non fa certamente in modo che possiamo saziare la sete che ci tormenta alla “sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna” (Gv 4,13). Lungi dall’orientarci verso la “sorgente di acqua viva”, ci stimola costantemente ad andare ad “attingere l’acqua” da “cisterne screpolate che non tengono l’acqua” (Ger 2,13). L’ideologia neoliberale, sostenuta dalla cultura mediatica, diffonde valori che ci allontanano da quella sorgente. La stessa religiosità e spiritualità tipiche della post-modernità, la cui espressione massima è la proposta New Age, spingono, soprattutto i giovani, a passare dall’hard della fede al soft di un sincretismo e soggettivismo religioso che, lungi dal portare a un incontro personale con il Dio rivelato in Gesù, portano al misticismo esoterico, all’olismo sacro e all’ecologismo profondo, fino ad arrivare, presto o tardi, alla morte stessa di Dio.16

Di fronte a tale impatto, noi consacrati continuiamo ad affermare che “la vita consacrata potrà rinascere dalle ceneri dell’incendio post-moderno solo se recupererà l’esperienza fondante di Dio”;17 continuiamo a riconoscere che “la persona di Gesù, il Cristo, è il centro della nostra vita”;18 continuiamo ad affermare che “la profondità e la totalità di questa passione per Cristo diventerà, quasi spontaneamente, partecipazione totale e incondizionata alla propria passione per l’umanità”;19 e continuiamo ad affermare, con il concilio Vaticano II, che “la norma ultima della vita consacrata è la sequela di Cristo, così come si propone nel Vangelo” e che, pertanto, questa norma “deve essere considerata da tutti gli istituti come la loro regola suprema”.20

Tutto ciò vuol dire che la vita consacrata, teologicamente parlando, trova il suo fondamento in Cristo, a tal punto che noi consacrati cerchiamo di rendere contemporaneo oggi il modo di vivere di Gesù e le scelte che lo caratterizzavano: “Grazie allo Spirito che ci è stato dato, noi che apparteniamo alla vita consacrata cerchiamo di essere memoria dello stile di vita e della capacità liminale di Gesù di Nazaret”.21

Partendo da questo dato, più o meno assunto da tutti, si comprende come il fondamento della formazione non possa essere altro che l’incontro personale con Cristo e la stessa formazione sia considerata una progressiva “configurazione al Signore Gesù e alla sua totale oblazione”, avendo come obiettivo ultimo “la progressiva assimilazione dei sentimenti di Cristo verso il Padre..., così che ogni suo atteggiamento o gesto abbia a rilevarne la piena e gioiosa appartenenza a Dio”.22

Pertanto, diventa urgente che, quanti siamo stati chiamati a mantenere viva la voce di Dio in un mondo che ha sempre avuto difficoltà ad ascoltarlo, ma che in questo momento ne ha forse ancora di più, mettiamo Gesù al centro delle nostre scelte, della nostra vita. Immergersi in Cristo è indispensabile per chiunque voglia essere veramente “sentinella del mattino” (Is 21, 11-12), all’alba di questo terzo millennio. Personalmente, sono convinto che la struttura qualitativa della vita consacrata dipenda dalla preminenza dell’ Altro nelle nostre vite, e che questa preminenza implichi, tra le altre cose, una profonda vita di preghiera. Se desideriamo superare ciò che il congresso ha definito come una “fase di anemia di grandi ideali e di progetti evangelici”, che sta attraversando soprattutto l’emisfero nord;23 se vogliamo vincere la tentazione di “una riforma di aggiornamento annacquato” e di una “debole rifondazione”; se vogliamo mettere fine alla fragilità del messaggio che la vita consacrata sta dando oggi; se vogliamo, infine, dare risposte alternative nella Chiesa e nel mondo in cui ci è toccato vivere,24 è imprescindibile giungere a ciò che sempre al congresso si è definito come una “concentrazione spirituale significativa”.

Tutto ciò richiede che, sin dalle prime fasi di formazione, ci proponiamo e proponiamo ai nostri giovani “un progetto contro-culturale, fondato su una profonda e solida esperienza di Dio e una radicale sequela di Cristo”.25 Come prepararci e preparare i nostri fratelli più giovani per questo compito così complesso, delicato e affascinante? Quali esigenze implica?

La formazione a questo incontro con Cristo comporta:

– formarci e formare all’esperienza di fede. Ciò vuol dire, in primo luogo, assumere la fede come radice, cuore e fondamento della vita consacrata e della sua missione, consapevoli che solo la fede può rendere più stabile il fondamento ultimo del progetto di vita del consacrato. Presuppone, inoltre, educarci ed educare a una fede che non sia una semplice conoscenza razionale, una semplice riflessione teologica, una semplice ripetizione di formule o un sistema ideologico, o ancora una cieca adesione volontaristica, ma un incontro personale con Gesù Cristo, scoperta graduale e accoglienza esistenziale della realtà di Dio e dell’uomo alla luce di Cristo. Comporta, infine, formarci e formare ad accettare che la fede è un cammino sempre aperto, un’esperienza mai completa, una ricerca di Dio tante volte difficile e dura, un’apertura obbediente al soffio dello Spirito, un’esperienza sempre bisognosa di rinnovamento, che ci spinge a ricominciare sempre, come direbbe san Francesco d’Assisi.

– Formarci e formare all’interiorità di fronte alla sopravvalutazione delle apparenze. In passato abbiamo assistito a uno spostamento dall’essere all’avere. Oggi, assistiamo, a volte senza riuscire a reagire, a uno spostamento dall’essere e dall’avere all’apparire. La nostra è la società del marketing. L’apparenza guida la vita delle persone.26 La cultura dell’immagine e dell’apparenza rafforza il fenomeno del primato dell’immediato. Non c’è tempo per approfondire, non c’è spazio per i grandi valori. Tanto per cominciare, è buono ciò che sembra buono. In questo contesto, dobbiamo dire che, per un incontro personale con Gesù, coltivato nella preghiera, nella pratica della fede, della speranza e della carità, è necessario un incontro con la propria interiorità che ci faccia andare oltre le apparenze, al fondo della vita e che eviti una forte crisi di verità.

– Percepire i momenti personali di solitudine e di contemplazione come un’esigenza dell’incontro con la propria interiorità, come un dono e un’esigenza anche per crescere nell’esperienza dell’incontro vivo con il Signore, e per poter leggere la propria vita con gli occhi della fede. In questo senso non esito ad affermare la grande importanza del silenzio e della solitudine per l’incontro con sé stessi e con il Signore, sempre che questi momenti non si riducano a un semplice isolamento o siano manifestazione dell’incapacità di comunicare, ma siano un ritirarsi per essere inviati.

– Approfondire la propria vocazione e missione attraverso la familiarità con le sacre Scritture, cosicché i consacrati possano fondare il cammino personale e fraterno – discernimento personale e comunitario –, sulla parola di Dio. Per far ciò è necessario liberare la parola di Dio da un’interpretazione troppo accademica e poco sapienziale, troppo moralista e poco esistenziale. In tal senso si rende urgente una formazione biblica adeguata e una pratica comunitaria frequente della lettura orante della Parola (evito l’espressione lectio divina per non pensare che sia solo tipica della tradizione monastica). La Bibbia deve essere la compagna di viaggio di ogni consacrato. D’altra parte, la lettura orante della Parola ci evangelizzerà e ci aiuterà a riconsiderare il Vangelo come la prima norma e regola di vita.27

– Sperimentare la vita sacramentale – in particolare il sacramento della riconciliazione e dell’Eucaristia – come momenti forti dell’incontro con il Signore, con noi stessi e con gli altri.28

Formare alla passione per l’umanità

La seconda icona utilizzata al congresso, quella del samaritano (cf Lc 10,29-37), ci spinge all’incontro con l’altro, per quanto diverso sia. Dall’incontro con l’Altro passiamo all’altro. Ed è da quando “il Verbo si è fatto carne” (Gv 1,14) che l’Altro e l’altro sono inseparabili, come inseparabili sono il Crocifisso e i crocifissi. Non è possibile la passione per Cristo senza la passione per l’umanità.

In una società crocifissa, com’è la nostra, anche noi, come il samaritano, siamo chiamati ad avvicinarci a chi giace “mezzo morto”, sul ciglio della strada, a rendere nostro prossimo chi è “lontano” dai nostri interessi, dai nostri gusti, dalla nostra vita. Come il samaritano, siamo chiamati a posporre i nostri progetti personali e a interrompere il nostro viaggio per lasciarci coinvolgere dalla situazione dell’“altro” e sentirci responsabili della sua sorte. È bene ricordare qui ciò che diceva il Documento di lavoro del congresso: “Una vita consacrata che voglia avere garanzie di fecondità, deve leggersi in chiave di servizio, compagnia e solidarietà nei confronti delle persone che sono nel dolore o nella miseria; deve trovare le vie per... curare i volti feriti senza dimenticarsi di lottare contro i sistemi violenti e ingiusti”.29

Qui entra pienamente, come faceva notare J. B. Libânio nel suo intervento al congresso, “la profonda dialettica pasquale cristiana nella quale soltanto troviamo la vera vita e noi stessi, quando la perdiamo, uscendo da noi stessi e donandoci agli altri”,30 prendendoci cura dell’altro, passando dalla preoccupazione per se stesso al dono di sé.

Ed è proprio qui la difficoltà. La post-modernità non aiuta a entrare in questa logica. La cultura attuale, di fatto, mette al centro l’io! Quest’ultimo si alimenta del piacere, dell’esistenza soggettivista ed emozionale, unendo la “sete d’amore e il disordine amoroso”,31 tanto da cercare nell’altro la realizzazione di sé e non la realizzazione di sé attraverso l’altro. Viviamo in una società “crocifissa” e in una cultura che ha paura della diversità. Di fronte all’“altro”, al “diverso”, spesso ci sentiamo insicuri. Da qui la tendenza a unirci a coloro che la pensano come noi e vivono come noi: la tendenza a formare “ghetti”. Dinanzi a questa tendenza, è necessario formarci e formare a “liberare” la nostra passione per gli altri, tante volte imprigionata dall’“io”.

Questa formazione, tra le altre cose, esige:

– formarci e formare al dialogo, non come un atto episodico o come una strategia, ma come un modo permanente di pensare e di agire, e ciò, oltre a una preparazione adeguata nella formazione iniziale e permanente, nello studio e nella ricerca,32 comporta:

1) chiarire la propria identità. Non ci può essere dialogo autentico senza sapere da dove si parte, senza sapere ciascuno chi è e di fronte a chi si trova, senza essere fedeli alla propria identità. Questa fedeltà alla propria identità, lungi dall’essere vissuta con un atteggiamento fondamentalista, un atteggiamento che nasce dalla paura di pensare e dall’illusione di una fede che non può essere messa in discussione, deve essere vissuta in permanente atteggiamento di ascolto e di rispetto, di cordialità e di sincerità;33

2) educarsi ad affrontare i conflitti e il confronto critico con posizioni diverse, a partire dalla passione per l’uomo e la sua ineluttabile dignità. Il conflitto, come ben sappiamo, non è di per sé negativo. Tutto dipende da come si gestisce.

 

– Formarci e formare a una cultura di accoglienza e di ospitalità, che trovi le sue radici nella comprensione dell’altro, considerata inevitabile per poter dire se stesso.

La cultura postmoderna favorisce la creazione di identità narcisistiche, centrate sulla cura di sé, sull’apparenza... In questo contesto, diventa sempre più urgente formarci e formare a una cultura di accoglienza e di ospitalità. Pertanto, ritengo necessario superare modelli formativi basati sul concetto di perfezione individuale e di oggettività sacrale, a favore di modelli fondati su concetti di incontro e di dialogo.34

Assunto questo principio, è necessario, sin dalla formazione iniziale, stimolare e spingere a uscire dal proprio ambiente sociale, a lasciare le sicurezze della propria tradizione culturale, per poter incontrare, con fede e nella fede, il diverso da sé e al tempo stesso mostrare che, proprio in questo abbandono di sé, in questo continuo cammino di kenosis verso lo “straniero”, la persona si realizza e realizza la propria vocazione.

Urge formarci e formare a trovare parole capaci di creare comunione con le persone che sono diverse. È indispensabile formarci e formare al rispetto del “diverso”, alla capacità di ascoltare e di tener conto dei punti di vista di coloro che sono diversi. È prioritario formarci e formare ad abbracciare e non solo sopportare le differenze etniche, culturali e teologiche, anche all’interno delle nostre comunità.35

Nell’era dei “rapporti virtuali”, è fondamentale formare e formarci a vivere rapporti che siano al tempo stesso profondi, liberi e liberanti. Solo in questo tipo di rapporti si potrà ascoltare l’altro nella sua “alterità”, senza cadere nella tentazione di ridurlo ai nostri schemi, fino ad arrivare, persino, a eliminarlo. Si tratta dunque, di un cammino di crescita nella libertà, intesa come controllo su di sé, che porta alla donazione di sé.

– Formarci e formare a una spiritualità incarnata e pratica.36

La cultura post-moderna favorisce la perdita della dimensione sociale. In questo contesto mi sembra necessario formare e formarci a una spiritualità radicata nella vita, con tutta la sua densità di ingiustizia e conflitto, di speranza e progetto. Ciò implica:

1) sviluppare un atteggiamento contemplativo, capace di ascoltare Dio nella vita concreta. È necessario prestare molta attenzione per non cadere né permettere che si cada in una spiritualità di tipo intimista, sfuggente, quietista e chiusa in sé. Bisogna unire fortemente la spiritualità e la pratica vitale e storica, non per far sfociare la spiritualità in azione, ma per renderla cammino e germe di trasformazione della realtà, prima della nostra realtà e dopo di quella degli altri;

2) fare esperienze concrete di vita in mezzo ai più poveri e con i più piccoli, condividendo la condizione di “più piccoli” – ben programmate, adeguatamente seguite e periodicamente valutate –, che portino a trovare la via dei poveri e a fare proprio uno stile personale e comunitario di solidarietà con essi. In tal senso si dovrebbe inserire, tra i criteri di discernimento vocazionale, il senso della giustizia, della pace e del rispetto per il creato.37

A partire da questa visione vogliamo formarci e formare a saper stabilire relazioni profonde, intime e significative in questa società dall’“etica spezzata”. L’umanità, in particolare l’umanità crocifissa, ha bisogno di uomini e donne che si muovano con passione nella vita, che stiano in contatto con lo scorrere dell’esistenza comune a tutti e che la loro parola sia risonanza della loro vita in Dio;

3) familiarizzare con i diversi volti del Crocifisso. Per far ciò è necessario passare da una formazione “imborghesita” a una formazione “inculturata”, da una formazione “permissiva”, in cui la cosa più importante è che il soggetto in formazione si trovi bene, a una formazione “esigente” in cui la sequela di Gesù Cristo si presenti in tutta la sua radicalità evangelica, esattamente il contrario di ciò che fa la cosiddetta “pedagogia della consolazione”.38

È necessario superare, attraverso una formazione esperenziale, il cosiddetto “scisma bianco”, con il quale si crea un linguaggio in contraddizione con ciò che realmente si sente e spesso si vive. Ciò presuppone un passo in avanti: formarci e formare a piantare la nostra tenda in mezzo ai diseredati, ai poveri e agli esclusi, lasciandoci sedurre dai chiostri dimenticati, quelli inumani in cui la bellezza e la dignità sono costantemente macchiate. In questo modo, la nostra scelta dei poveri andrà al di là dei proclami, al di là delle parole e ci porterà a essere poveri come i poveri, a esercitare una difesa profetica dei diritti umani e a essere operatori attivi di pace e di giustizia.39

Formare la persona a essere amante della vita

La passione per Dio e la passione per l’umanità ci danno una diversa visione di noi stessi, che non ha nulla a che vedere con la visione antropologica che si inculcava in una formazione ormai superata, almeno nei documenti; né tanto meno con la visione che oggi ci presenta la cultura post-moderna.

Di fatto, per molto tempo, sia nella formazione permanente che in quella iniziale, si è evidenziato un certo spiritualismo che ha portato a trascurare lo sviluppo integrale della persona e persino a considerare il corpo come “luogo” di peccato, dimenticando che siamo stati creati a immagine e somiglianza di Dio (cf. Gn 1,31), e le gioie della vita come un male, dimenticando che siamo stati creati per essere felici.

D’altra parte, la cultura post-moderna diffonde i valori della salute, il culto della bellezza e del corpo, il carattere decisivo dell’apparenza. Che lo vogliamo o no, facciamo parte del regno del fisico e del marketing. Tutto grazie, per lo meno in parte, alla rivoluzione mediatica.

Tenendo conto del contesto di ieri e di oggi, urge formarci e formare a:

– una visione positiva del corpo, dandogli lo spessore di “sacramento” che ha, secondo la rivelazione biblica, in quanto “immagine e somiglianza” del Creatore, senza idolatrarlo. Partendo dal mistero dell’incarnazione in cui il Figlio di Dio assume un corpo uguale al nostro, i consacrati vogliono formarsi e formare a rendere visibile la bellezza dell’opera maestra di Dio, accettando la propria corporeità come “tempio di Dio” (cf. 1Cor 3,16). Solo integrando il livello biologico, quello psichico, quello sociale ed esistenziale e lavorando instancabilmente per raggiungere l’unificazione interiore, potremo rendere visibile tale bellezza dell’opera di Dio. E solo così potremo mostrare “la bellezza della sequela del Signore e il valore del carisma in cui essa si compie”.40

– La libertà affettiva, “grazie alla quale il consacrato ama la sua vocazione, e ama secondo la sua vocazione”.41 In questi tempi in cui la vita consacrata rappresenta un progetto contro-culturale, è importante formarci e formare a “cogliere la consacrazione come una realtà vera, bella e buona che dà verità, bellezza e bontà anche alla propria esistenza”.42

Per raggiungere una meta tanto attraente quanto difficile, è necessaria una formazione specifica dell’affettività che, ben lontana da un atteggiamento narcisistico-adolescenziale, rigorista o lassista, porti noi e i nostri candidati a sentire la chiamata alla vita consacrata come una valida e stupenda ragione di vivere.

 

ALCUNE

INDICAZIONI PEDAGOGICHE.

 

Leggendo qua e là i diversi interventi del congresso possiamo trovare alcune importanti indicazioni pedagogiche.

– Lavorare a partire dalle carenze. Sia la samaritana che il samaritano sono peccatori, ma in essi la disponibilità al bene non manca. Concretamente, se guardiamo l’icona della samaritana vediamo che passa da un atteggiamento difensivo e ostile nei confronti di Gesù a un atteggiamento di entusiasta collaborazione, fino a diventare “discepola” e “apostola” dell’“ebreo” Gesù in mezzo alla sua gente. In lei c’è stato un vero e proprio processo pasquale. Avviene un passaggio da un modo di pensare e giudicare a un altro, da determinate strutture e convinzioni ad altre. Nel caso della samaritana si svolge un vero e proprio “processo pasquale” e ciò che sembrava definitivo risulta essere provvisorio.43

I soggetti in formazione oggigiorno sono per la maggior parte “samaritane”. È il caso dei nostri giovani: quei tanti o pochi che ci arrivano, non arrivano più generalmente da luoghi protetti, ma da luoghi profani e da “intemperie”. Molti di essi hanno avuto tanti “mariti” e quello che hanno ora non è “loro marito”. La loro esperienza religiosa, e non solo, spesso lascia molto a desiderare. Molto spesso, nel lavoro formativo, è necessario cominciare da zero o quasi.

Tuttavia, anche nella formazione permanente molte volte, per non dire sempre, i soggetti in formazione devono lavorare a partire dalle loro carenze, dal loro “non avere”, dal loro “non potere”. “La propria povertà riconosciuta e messa in relazione con Gesù, non è un ostacolo a ricevere il dono dell’acqua viva, ma la migliore occasione per accoglierla e lasciarla scorrere per la vita eterna”.44

In ogni processo formativo è importante, per non dire fondamentale, riconoscere la sete che risiede in chi bussa per la prima volta a una casa religiosa e in coloro che la abitano da tempo. Né gli uni né gli altri sono esenti dalla precarietà e dalla vulnerabilità. Riconoscere ciò è il primo passo perché l’Altro possa portarci a conoscere il dono di Dio e saziare definitivamente la nostra sete.

– Cercando insieme pozzi e vie. Quando si fa l’esperienza della propria precarietà, della propria debole realtà, sempre fragile e mai completa, della propria “metà mezza morta”, come nel caso del samaritano, e al tempo stesso si fa l’esperienza di essere stato curato dal gran samaritano che è Gesù, non si può non sentirsi toccato dal “ferito”, sia che si tratti di un fratello in formazione iniziale o in formazione permanente, e corresponsabile della sua sorte.

In ogni processo di formazione, iniziale o permanente, è fondamentale cambiare il nostro atteggiamento di eterni “donatori” per sentirci viandanti con coloro che sono in viaggio, cercatori con coloro che cercano. In questo contesto è importante notare, come ha fatto già al congresso Dolores Aleixandre, che Gesù stesso si presenta in una situazione di bisogno e di vulnerabilità.45

Dal momento che siamo tutti vulnerabili, è necessario “convincerci dell’importanza di accompagnarci e sostenerci nella fede gli uni gli altri, imparando a rileggere insieme la vita e a fare in modo che ciascuno possa condividere l’acqua della propria esperienza”.46 In questo cammino non ci sono maestri, siamo tutti discepoli e tutti in cammino.

E come Gesù ha superato le barriere che lo “separavano” dalla samaritana, così anche il formatore/accompagnatore, sia nella formazione iniziale che permanente, dovrà fare il primo passo verso la persona in formazione/accompagnata e accettarla nella sua situazione di carenza. L’accettazione della propria realtà e di quella altrui è il primo e fondamentale atteggiamento che deve adottare chi è chiamato a essere formatore/accompagnatore.

Per questo motivo, una delle caratteristiche che dovranno distinguere un formatore/accompagnatore è quella di dedicare molto tempo e avere molta pazienza con la persona che ha di fronte, come Dio ne ha con tutti noi “samaritani mezzi morti”. La configurazione a Cristo implica un duro processo di conversione, un processo molto lento. Qui, come in altre cose, la fretta suole essere molto dannosa.

– Una pedagogia provocativa/interpretativa. Gesù, quale abile formatore/accompagnatore, dapprima provoca: “Dammi da bere”, “va’ a chiamare tuo marito e poi ritorna qui”; quindi interpreta: “Se tu conoscessi il dono di Dio...”, “chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete”, “è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme...”. È la stessa pedagogia che userà con i due di Emmaus (cf. Lc 24,13ss): “Che cosa sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?”, e “cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui”.

Questa è la “pedagogia” di Gesù: la pedagogia provocativa/interpretativa che è molto lontana dalla pedagogia obiettiva, che pretende di trovare delle risposte a tutto, e della pedagogia soggettiva, preoccupata quasi esclusivamente che il soggetto in formazione “si trovi bene”. Gesù, partendo dalla sua realtà di interlocutore e accompagnando l’altro molto da vicino fino a creare rapporti interpersonali di amicizia, lo “provoca”, lo tira fuori dalle acque ingannevoli della banalità e dal desiderio di auto-giustificazione e lo mette di fronte a una decisione che dovrà prendere liberamente: la samaritana andrà ad evangelizzare i suoi, i due di Emmaus tornano al calore della comunità di Gerusalemme. Gesù non impone, offre o, meglio, si offre.

Questo “metodo” formativo di Gesù è il “metodo” che dovrebbe seguire ogni formatore/accompagnatore: imparare ad ascoltare e, invece di guidare, farsi esperto nel domandare, dialogare e condividere con gli altri la povertà che ci rende tutti uguali.

 

Fr. José Rodríguez Carballo ofm

 

1 “Il metodo che ad essa [vita consacrata] prepara dovrà assumere ed esprimere la caratteristica della totalità. Dovrà essere formazione di tutta la persona, in ogni aspetto della sua individualità...” (VC 65; cf. VC 71).

2 VC 65. Parlando dell’accompagnamento personalizzato dobbiamo ricordare che il “colloquio personale”, valido sia per la formazione iniziale che permanente, è una mediazione indispensabile nella verifica del cammino che si sta percorrendo e il discernimento nel processo vocazionale.

3 PI 29.

4 VC 65.

5 VC 65.

6 VC 69.

7 Tommaso da Celano, Vita Prima di San Francesco d’Assisi, 103.

8 VC 69.

9 VC 69.

10 VC 70.

11 VC 65.

12 Cf. VC 66 e 70; CIVCSVA, La vita fraterna in comunità (= VFC) Roma 1994, 36.

13 Cf. VFC 36. Sull’accompagnamento cf. Pontificia Opera per le Vocazioni Ecclesiastiche, In verbo tuo..., 1998, 34ss..

14 VC 70.

15 VC 66.

16 Cf. Joao Batista Libánio, Impatto della realtà socio-culturale e religiosa sulla vita consacrata nell’America Latina, in Passione per Cristo, passione per l’umanità. Congresso internazionale della vita consacrata, Paoline Editoriale 2005, 151.

17 Idem, 154.

18 Gruppo di lavoro n. 9, La búsqueda de Dios y la búsqueda de sentido, in Pasión por Cristo, pasión por la humanidad. Congreso internacional de la vida consagrada, Publicaciones Claretianas 2005, 329- 330.

19 Franc Rodé, La vita consacrata alla scuola dell’Eucaristia, in Passione per Cristo, passione per l’umanità. Congresso internazionale della vita consacrata, Paoline Editoriale 2005, 245.

20 Perfectae Caritatis, 2.

21 Passione per Cristo, passione per l’umanità. Documento di lavoro n. 93, in Paoline Editoriale, 2005, 57.

22 VC 65.

23 Idem 83.

24 Idem 79.

25 Idem 71.

26 Joao Batista Libánio richiama l’attenzione su questo fenomeno all’interno della vita consacrata, cf , art. ct.

27 Riguardo ad alcune convinzioni e linee di azione vedi Gruppo 8, Arando la tierra de la Sagrada Escritura, en Pasión por Cristo, pasión por la humanidad. Congreso internacional de la vida consagrada, Publicaciones Claretianas 2005, 293.

28 Giovanni Paolo II, in occasione della giornata della vita consacrata del 2 febbraio 2001, si rivolgeva ai consacrati con queste parole: “Incontratelo, carissimi, e contemplatelo in modo tutto speciale nell’Eucaristia, celebrata e adorata ogni giorno, come fonte e culmine dell’esistenza e dell’azione apostolica”. Giovanni Paolo II, Messaggio 2 febbraio 2001. Al riguardo vedi anche VC 95, Ripartire da Cristo, 26. CIVCSVA, Dimensione contemplativa della vita religiosa, Roma 1981, 9-10.

29 Passione per Cristo, passione per l’umanità. Documento di lavoro n. 106, in Paoline Editoriale, 2005, 60-61.

30 Joao Batista Libánio, art. cit. 155.

31 Idem.

32 VC 102

33 VC 102.

34 José Rodríguez Carballo, Diálogo Interreligioso y formación: ¿Cuáles desafíos? En Diálogo interreligioso, tarea prioritaria de la vida consagrada hoy, USG, Roma 2003, 156.

35 Cf. Timothy Radcliffe, La vita religiosa dopo l’11 Settembre, in Passione per Cristo, passione per l’umanità. Congresso internazionale della vita consacrata, Paoline Editoriale 2005, 182-183.

36 Cf. José Rodríguez Carballo, La Justicia, Paz y Salvaguardia de la creación en la formación inicial y permanente, in Instrumentos de la Paz, guiados por el Espíritu Santo, Roma 2000, 145-147.

37 Cf. Ratio Formationis Franciscanae, Roma 2003, 81. 215

38 La “pedagogia della consolazione” cerca, con ogni mezzo, di evitare che la persona soffra. Tale pedagogia forma persone incapaci di qualunque sacrificio, rinuncia e sofferenza e porta a una relativizzazione dei valori, dando importanza solo a ciò che è momentaneo, al “carpe diem”.

39 Sulla scelta dei poveri, tra gli altri documenti, cf. CIVCSVA, Religiosi e promozione umana. I, 1.

40 VC 66.

41 VFC, 37.

42 Idem.

43 Cf. Dolores Aleixandre, Cercatori di pozzi e di vie, in Passione per Cristo, passione per l’umanità. Congresso internazionale della vita consacrata, Paoline Editoriale 2005, 104-106.

44 Idem 114.

45 Cf. Idem 98-99.

46 Idem 110-111.